Una storia tutta da vivere
Nel mese di marzo 2014, la Prefettura di Verbania con i servizi Sociali ha chiesto alla Congregazione delle Suore di Maria Consolatrice l’aiuto per poter accogliere i profughi che anche la provincia di Verbania doveva ospitare. L’invito prima di tutto è arrivato da Papa Francesco quindi è stato accolto con gioia, ma come tutte le cose nuove che non si conoscono, anche con trepidazione e ansia.
Nei primi giorni di aprile i primi arrivi: 25 ragazzi, gran parte provenienti da Gambia e Mali, 2 dalla Costa D’Avorio, 2 dalla Nigeria. Arrivano alle ore 2 di notte in pullman dall’aeroporto di Genova, stanchi, spaventati, affamati con un borsone contenente poche cose. I vestiti che indossano sono quelli di quando sono partiti dalla Libia. Raccontano di aver camminato nel deserto per tanti giorni senza acqua né cibo; di essere stati picchiati in Libia. Dopo aver offerto loro cibo e acqua, vengono accompagnati alla toilette per la doccia e cambiati dagli indumenti sporchi; poi visitati, risultano tutti disidratati ma sani, tranne uno che è ricoverato in ospedale. Alcuni dicono di voler continuare il viaggio verso il nord dell’Europa, non hanno documenti. Si fornisce loro il biglietto del treno e il necessario per il viaggio; due di loro però sono individuati alla frontiera e rispediti al centro di accoglienza. Tutti, nonostante vengano dissuasi, tentano la domanda di asilo politico: una lunga attesa burocratica che può finire in un rifiuto da parte dello Stato italiano per mancanza di motivazioni.
Ricevono ascolto, cura, aiuto. La Questura dovrà schedarli per poter fornire loro un documento di identificazione che servirà anche per avere un codice fiscale e il diritto al servizio sanitario nazionale.
I primi giorni trascorrono tra i colloqui per comprendere le loro aspirazioni, le loro mete e dare a ciascuno un aiuto personalizzato. Si scopre che alcuni volti – individuati all’arrivo con una presunta data di nascita falsa perché il volto appare più giovane dell’età dichiarata – sono minorenni e il più piccolo fra loro ha solo 13 anni. I primi giorni passano. Intanto si tesse intorno a loro la rete del volontariato, giovani insegnanti che tra le lezioni all’università e il lavoro, si preoccupano di insegnare la lingua, la cultura e le norme comportamentali; gli animatori organizzano partite di calcio, visite guidate alla città e alla biblioteca comunale. La popolazione viene per capire quali sono i loro bisogni e portano vestiti, scarpe. ecc.
I servizi sociali intanto prendono contatti per procurare per il ragazzo di tredici anni una famiglia affidataria, tra le famiglie già conosciute per questa esperienza, e non tarda ad arrivare.
I ragazzi sono diventati sereni; non sono più gli stessi di quella notte, ma negli occhi si legge un velo di tristezza; se ne chiedo il motivo mi rispondono: “penso alla mia famiglia, alla mia mamma” e mi si stringe il cuore. Intanto si riceve la notizia dell’arrivo di altri 15, poi di 10, sempre africani; le storie sempre le stesse, alcuni tentano di andare più a nord, Germania, Svezia, Olanda. Anche noi abbiamo capito che, se chiedono di andare in Svizzera perché lì hanno dei parenti, è meglio che chiedano loro di venirli a prendere perché questo è l’unico modo per entrare. Abbiamo ricevuto alcune famiglie siriane con bimbi piccoli. E’ stato straziante vedere quei bimbi impauriti che, appena arrivati, non si lasciavano toccare; dopo un’ora invece allargano le braccia per essere presi in braccio. Queste popolazioni fuggono dalla guerra; non hanno subito maltrattamenti in Siria, hanno i loro documenti e anch’essi vogliono raggiungere la Svezia, l’Olanda e la Germania.
I ragazzi africani destano preoccupazione perché più i giorni passano, più cresce in loro la demotivazione, e la loro speranza rischia di consumarsi. I comuni qui intorno si sono organizzati per impiegarli in piccoli lavori, insieme a dei tutor e i ragazzi si dimostrano molto bravi, ma a casa trascorrono il tempo a letto o seduti a guardare il lago. Molte volte penso che un giorno per questi ragazzi la storia finirà, ma se non si potrà dire … e vissero tutti felici e contenti, perché la loro richiesta di asilo non verrà accolta, che ne sarà di loro? Anche nei loro cuori vive questo interrogativo e rende tristi i loro occhi che sembrano perdersi nell’infinito. Sono ragazzi giovani che si muovono come i nostri ragazzi, con le necessità e le aspirazioni dei ragazzi di vent’anni e che a volte compiono anche le stesse ‘scemenze’ dei nostri.
È una storia tutta da vivere più che da raccontare. Come la mia precedente esperienza missionaria in Africa anche questa esperienza è da vivere, non da raccontare. A volte mi sento come una mamma che, mentre si arrabbia perché il figlio disobbedisce o non risponde alle aspettative volute, ha il cuore pieno di amore e si gira dall’altra parte per non far vedere le sue lacrime che scendono copiose.
Suor Maria Teresa Da Re
Istituto Maria SS. Consolatrice