Un silenzio carico di rumore…
Il mio primo Natale da volontaria in carcere
Il giorno di Natale, giovedì 2014, nella casa circondariale di Rebibbia è stata celebrata la Santa Messa presieduta dal cappellano don Nicola Cavallaro, coadiuvato dal diacono Luigi Barbini. Tre sono le parole donate ai presenti dal celebrante durante l’omelia: parola, gioia e vita. Sinteticamente: la parola deve essere usata per dire bene dell’altro, la gioia deve servire per condividerla e diffonderla, la vita deve essere apprezzata, custodita e donata.
Il 25 dicembre è un momento sempre molto atteso dai detenuti e vissuto con intensità di sentimenti, espressi concretamente con dei presepi da loro costruiti con arte e a tema. Tra gli altri mi ha molto colpito la rappresentazione della Terra dei fuochi, luoghi destinati allo smaltimento di rifiuti speciali, con discariche abusive, siti inquinati … storie vere e sofferte da molti di loro provenienti da quei territori, tombe di molti familiari e amici.
A Natale anche il carcere diventa più umano perché in molti vogliamo fare qualcosa di buono per rendere meno pesante la vita di chi vi è dentro. Allora organizziamo regali, pranzi e andiamo a stare con loro, a condividere quello che è concesso portare all’interno del carcere. Sono gli unici momenti di ‘evasione’ che permettono a questi nostri fratelli di trascorrere qualche ora senza il peso della solitudine che accorcia ancora di più i metri della cella.
Dietro le pesanti porte di un carcere, che si chiudono una dietro l’altra, sempre con lo stesso suono metallico, sempre con lo stesso ritmo apatico, ci sono però delle persone i cui nomi spesso sono dimenticati e che non di rado noi dette “persone perbene” preferiamo indicare solo come meritevoli di pena. Spesso siamo talmente impegnati a giudicarle da non ricordare nemmeno che quei reclusi rimangono delle persone consapevoli del loro errore e della loro pena che dignitosamente scontano con la speranza nel cuore di poter restituire un giorno quanto a loro di bene è stato fatto. E’ davvero significativo e commovente constatare quanto questo loro desiderio si stia già incarnando all’interno del carcere.
Chi incontra questi fratelli, come sta accadendo a me da qualche mese, ha da imparare molto specie in termini di solidarietà, fraternità, condivisione. Lo stesso modo di gestire l’essenzialità, fatta dello stretto necessario, del minimo indispensabile, colpisce e disorienta chi ha tutto e crede di avere poco o niente. Molto c’è da imparare da chi è privato del meglio, la libertà, Tutto, in questo spazio ristretto e controllato, parla di accoglienza, fatta di un cordialità, di una semplice stretta di mano, di un abbraccio fraterno, di un “ritorni presto, mi raccomando”. Sarà la semplicità, la gratuità dei loro gesti a conquistarti, a farti desiderare di stare a lungo con loro, da farti venire, nel mio caso, il “mal di Rebibbia”. E’ misterioso, ma quando esci da quel luogo di pena ti sembra di essere un’altra persona, più serena, più libera interiormente, più vera, più, più ….
Suona quindi strano sentire sempre più spesso da gran parte della nostra gente che non ce la fa, che non sa come arrivare alla fine del mese quando a Natale nelle nostre tavole abbonda il superfluo condito paradossalmente da molta insoddisfazione, scontentezza, mancanza di gioia. Se tutti noi potessimo avere il privilegio di visitare le persone carcerate che in un silenzio carico di rumore in cui nemmeno quell’unica fetta di panettone riesce a lenire per qualche secondo la voce amara che li accompagna ogni secondo della loro vita, quella della loro coscienza, forse dovremmo solo dire “Grazie, Signore, perché ci hai risparmiato da simile esperienza”.
Che il Signore apra le nostre menti a riflettere su questa particolare fragilità collaborando magari con qualche iniziativa che arrivi a scaldare il cuore di chi la vita l’ha privato di un pane, di un tetto, della libertà. Certi che facendo questo sarà il nostro cuore il primo a beneficiarne.
Se un Dio ha accolto la nostra umanità e si è fatto uno di noi nascendo a Betlemme, come possiamo noi rimanere insensibili, indifferenti e sordi all’udire quel vagito di un bimbo che ha preso carne tra di noi e che chiede per primo di essere accolto, accudito, amato in questi nostri fratelli ristretti che sono la “carne di Cristo!?
Sr Emma Zordan
Referente carceri Usmi Nazionale