Per non finire in una possibile città delle Occasioni Perdute – come scriverebbe Jeannette Winterson – “dove esistono gli indecisi, gli ignari del proprio ruolo e della propria condizione di vita” è necessario conoscere, capire e vivere una determinata mansione, un ruolo specifico.
Partendo dagli inizi della storia umana è Dio il primo ad affidare un ruolo all’uomo e alla donna: “siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra e soggiogatela”: generatori di nuove vite della stessa loro identità e custodi e fruitori di quanto esiste all’infuori. “Dio non ha paura di lasciare la creazione immensa e bellissima in mano all’uomo” (Chiara Genisio). Millenni dopo, Gesù, il Figlio di Dio, Verbo del Dio vivente (liturgia) fatto carne, dirà a due fratelli: “Venite, vi farò pescatori di uomini”. Se ancora ci fermiamo sul testo sacro Paolo agli efesini scrive: Cristo “ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori…” (Cf Ef 4,11).
In altri contesti – contesti semplicemente umani – nella concretezza della vita quotidiana, delle diverse circostanze, il ruolo può avere ed ha effettivamente origini e motivazioni diverse e questo è certo: il ruolo non è un fardello che Dio, gli uomini nostri contemporanei, la società, gli eventi, poggiano sulle nostre spalle. Non è una prigione e neppure un palcoscenico o la opportunità per la ‘carriera’; impone l’essere ‘persone che nessuno può comprare’. professionalmente ineccepibili. E’ un compito, una mansione e come tale esige fedeltà e serietà, competenza e onestà, conoscenza di sé e delle proprie possibili reazioni, ma anche distacco e profonda, vera libertà interiore; capacità di rispetto della ‘soggettività’ altrui, perché nessuno mai è o sarà ‘un vuoto a perdere’. Così non sarebbe giusto aspirare a ruoli per i quali non si hanno le necessarie competenze. E a nessuno, in qualsiasi ruolo, è consentito usurpare il ruolo altrui, pena il fallimento proprio e degli altri.
San Giovanni Polo II affermava: “Nessun gruppo sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica, perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle persone-cittadini… In questa situazione l’uomo e il popolo diventano ‘oggetto’, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario e le assicurazioni verbali”. E il ruolo così assunto, sia come gruppo che come persona, diventerebbe decisamente ‘abuso di potere’.
Per le persone, per tutte, il ruolo primario ci vene dato dal Vangelo che illumina tutta la fatica e la gioia della fedeltà a se stessi e a quanto si vive e si fa: “vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. E allora l’identificazione della propria persona con il ruolo che è affidato non sarà davvero possibile, perché l’occhio, l’attenzione non saranno posti su di sé, ma su chi o cosa (persone, lavoro, ufficio, realtà concrete) è affidato. Anzi, dice ancora il testo sacro: “anche voi, quando avrete fatto tutto il possibile, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (cf Lc 17,10). E con la poetessa brasiliana Adélia Prado sarà vera la preghiera: “Mio Dio, dammi la mano, curami dall’essere grande”.
Biancarosa Magliano, fsp
Direttore responsabile
Ognuno di noi ricopre nella propria esistenza diversi ruoli, possiamo essere figli e mariti, madri o sorelle, e poi suore o preti, scrittori o casalinghe, e ancora cristiani o buddhisti o atei, e così via.
Il problema odierno consiste nella crisi dei contenuti storici di tutte le nostre identificazioni, e quindi nel travaglio di ogni ruolo.
Non sappiamo più molto bene cosa debba essere e fare un buon marito o un buon papa, tanto che Papa Bergoglio ogni giorno confuta le prassi abituali del suo ruolo.
Il nostro infatti è il tempo della trans-figurazione di tutte le figure identitarie, una fase molto critica e faticosa, in cui siamo tutti chiamati a rivedere le forme e i contenuti dei nostri ruoli, che magari da secoli si erano andati consolidando.
In queste fasi trans-formative corriamo sempre due pericoli complementari: o ci fossilizziamo nelle forme/identificazioni tradizionali, oppure lasciamo dissolversi nel nulla le ricchezze del passato. Fondamentalismo e nichilismo sono due volti della stessa incapacità di vivere il cambiamento nel senso di una trans-figurazione evolutiva.
Per noi cristiani questa rotta polare è data dallo Spirito di Cristo, che, in quanto nostra Nuova Umanità, possiede la misura giusta del cambiamento, e ci può aiutare giorno dopo giorno lasciar cadere il superfluo e a lasciar fiorire le giuste novità.
Marco Guzzi
Saggista Scrittore
Mai svolgerò il ruolo che qualcuno mi ha imposto o entrerò nella spirale che esso comporta: se ho scelto di giocarmi la vita per qualcosa, il mio essere – libero della libertà dei figli di Dio – ne domina e gestisce le fila, nessun altro. Essere padre o madre, medico, educatore, operaio, religioso/a possono essere missioni personali per cui dare se stessi in mille e differenziati modi, ma ‘l’essere’ sta al ‘ruolo’ come l’anima al canto, alla voce… puoi cantare e dire per esprimere ciò che l’anima detta, mai potrai confondere la sorgente con la goccia d’acqua di un rigagnolo ai tuoi piedi. Eppure in troppi s’identificano a tal punto con ciò che fanno per vivere, sopravvivere o col compito loro assegnato da circostanze e Provvidenza, da non riuscire a percepire la fragilità dei loro istanti, aggrappandosi a divise ed abiti di scena, risuonando nel quotidiano come maschere per antichi anfiteatri all’aperto…
Il ruolo può indurre a perdere la propria identità profonda e indurre ad assumere identità virtuali, forzate e idealmente ‘sociali’. Identificarsi è ormai richiesto, necessario per accedere ad ogni angolo di burocrazia, per entrare nel luogo di lavoro, per entrare persino nel conto in banca, per aprire il computer e i molti fallibili strumenti sempre sotto attacco, in pericolo di violazione, di furto di identità… ma quale password aprirà il cuore o l’anima a te stesso o ad altri, quale ruolo potrà proteggerti da ciò che realmente sei, risultato forse d’imitazioni e di proiezioni che, sedimentando nel tempo, hanno lasciato qualcosa o il nulla, si sono sviluppate armonicamente e, in modo creativo ed originale, si sono impregnate di colori e profumi, trasformando la zolla di terra in un pianta, un arbusto, un fiore o una spiga…
Quanti ruoli hai avuto, svolto, giocato in opere di vita o solo teatrali… e quale umana connotazione ha tinto d’essere i tuoi ruoli sociali, culturali, la tua professione e la tua mission nel tempo e nel pezzo di mondo in cui sei nato ed hai vissuto?
L’albero si riconoscerà dai suoi frutti; le foglie, spesso misconosciute, ingannano: l’identificazione di qualsiasi credente avviene nel bene che compie e nell’umanità che costruisce intorno a sé. Il solo ruolo dei cristiani è essere ‘Cristofori’.
Una sola password, poi, per essere identificati alla porta della Vita: l’Amore racchiuso in ‘una sola parola evangelica’ che – scoperta nel silenzio e segretamente sussurrata ad ognuno dallo Spirito – speriamo, abbiamo potuto e avuto la grazia d’incarnare…
Concetta Filomena Sinopoli
Docente di Bioetica – Scrittrice
Mi sono chiesta se questi due termini “ruolo” e “identificazione” abbiano realmente significati opposti o non piuttosto simili. Questo dipende soprattutto da cosa si intende per “ruolo”. Da un lato non posso non pensare al ruolo degli attori, che impersonano una parte, personaggi che non sono loro, ma con i quali, appunto, si identificano nel momento in cui recitano; poi, però, tornano ad essere ciò che realmente sono. Dall’altro lato, però, il termine “ruolo” richiama anche gli incarichi stabili: l’insegnante di ruolo è quello che, finalmente, non è più precario, ma ha un lavoro fisso. Quindi, secondo questo significato, non si tratta di fingere di essere qualcun altro o di identificarsi con un’altra persona, ma di “essere” in modo stabile. D’altra parte anche il significato del termine “identificazione” può essere visto in modo negativo, come suggerisce la psicanalisi quando parla di persone che credono fermamente di essere qualcun altro; “identificazione” viene ad assumere, invece, un significato altamente positivo se pensiamo, ad esempio, al percorso di sempre maggiore identificazione a Cristo che il religioso o la religiosa sono chiamati a compiere.
Il problema per un consacrato, a questo punto, è proprio questo: cosa guida la mia vita quotidiana? I valori specifici della spiritualità e carisma del mio Istituto di appartenenza, con i quali mi identifico oppure gli impegni del mio apostolato che mi portano a ricoprire uno stesso ruolo per molti anni? È molto facile arrivare ad identificarsi con il ruolo che si ricopre. Il rischio, a mio parere, per la vita religiosa italiana è molto forte, ad esempio, nell’ambito dell’apostolato scolastico. La diminuzione delle vocazioni italiane da una parte, la difficoltà di inserire le suore straniere nel mondo della scuola italiana (per le difficoltà legate alla lingua) portano molte suore a ricoprire per molti anni l’incarico di insegnanti nella stessa sede, fino a consolidarsi in quel ruolo ed essere più insegnanti che religiose. Il ruolo ha preso il sopravvento sull’identificazione. La possibilità di cambiare con una certa frequenza la comunità di appartenenza e l’apostolato da svolgere sarebbe più proficuo per identificarsi di più a Cristo e meno al ruolo che pro tempore si è chiamate a ricoprire.
sr Marta Gadaleta
Suore Agostiniane Serve di Gesù e Maria
Durante la scorsa Settimana Santa, papa Francesco ha lavato i piedi a dodici detenuti reclusi nel carcere romano di Rebibbia. Con il suo gesto semplice ma grande nello stesso tempo il Papa ci ha dato l’esempio del ruolo che, come cristiani, dovremmo incarnare nella società e nel mondo.
“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” è la domanda che ci facciamo, in ogni momento, durante l’esistenza così travagliata nel mondo contemporaneo. I modelli del materialismo dominante ci mettono sempre davanti i ruoli che molti propendono a ricoprire e a perseguire: il comando, i soldi,le corruzioni, il corpo atletico ed immune da difetti, l’edonismo come senso della vita.
“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” ci dice continuamente l’Apostolo perché sono molti i ruoli che tendono a slegarci dall’abbraccio con Gesù ed il suo insegnamento.
Lavarsi i piedi è un ricondurci al nostro ruolo essenziale di testimoni: Gesù è risorto! La nostra identificazione nelle piaghe del Nazareno, nella sua bontà, nella sua speranza ci protegge da identificarci con i personaggi mondani, qualsiasi sia il nostro ruolo rivestito nella società.
Portiamo Gesù risorto nella nostra anima, nonostante le derisioni e le alzate di spalle dei perbenisti e dei radical chic di oggi e di sempre.
Noi siamo identificati nell’uomo della Croce, nell’uomo del perdono, nell’uomo dell’amore.
Ogni tentativo di separazione da Lui si infrangerà su quella roccia del sepolcro vuoto e della morte vinta per sempre.
Corrado Stillo
Attuale Presidente dell’Associazione “Valore Salute”
Ruolo e identità. Un binomio i cui termini sono inestricabilmente legati tra di loro. Si attraggono, si armonizzano e si respingono, a seconda che l’uno sostenga o si opponga all’altro. Se l’identità fa riferimento a quel nucleo stabile che salvaguarda la certezza di essere sempre se stessi, nonostante i cambiamenti che intervengono nei luoghi e nel tempo, il ruolo è l’insieme di comportamenti e di aspettative che si costruiscono attorno a una determinata posizione sociale. Identificarsi con il proprio ruolo può condurre a dover ‘indossare’ continuamente una maschera, il che crea tensioni, frustrazioni, logorio emotivo. Perché il ruolo non può essere identificato con ciò che si è, con la propria identità.
Chi, durante la sua vita, non è stato chiamato a coprire e a vivere uno o più ruoli, temporaneamente o definitivamente, come potrebbe essere il ruolo lavorativo e il ruolo genitoriale? E chi non è stato tentato a cambiare i tratti della sua naturale personalità, identificando il ruolo con la propria identità? Capita a molti diventare arroganti, autoritari nei confronti dei ‘sudditi/dipendenti’ allorché si copre un ruolo di prestigio (o lo si ritiene tale), dimenticando che si è chiamati a compiere un servizio.
Identificarsi con il proprio ruolo, se lo si vive con un certo grado di naturalezza, potrebbe significare un sano modo di integrazione nella vita sociale, sia essa familiare che lavorativa, politica e religiosa. Tuttavia se si concepisce il ruolo come un privilegio, una possibilità di avere un dominio sugli altri, potrebbero nascere effetti negativi – e qualche volta disastrosi – su se stessi e sugli altri. Se, a motivo del ruolo che una persona copre, il proprio viso diventa contratto, la voce alterata, l’atteggiamento altero, le parole offensive, non può attendersi che negli altri possano nascere sentimenti di fiducia, di stima, di accoglienza e di affetto, ma di timore e paura, e non di rado di incomprensione e rifiuto.
E’ importante ricordare che il ruolo – qualunque ruolo – comporta un servizio, la disponibilità, la stima e la fiducia verso tutti: il ruolo non può identificarsi.
Sr Patrizia Pappalardo, fsp
Esperta in insegnamento e comunicazione
Noi tutti nella vita sociale ci troviamo a svolgere ruoli diversi. L’organizzazione sociale ci chiede di rivestire ruoli che ci consentono di interagire gli uni con gli altri come membri di una organizzazione strutturata. Anche all’interno della Chiesa, esiste una pluralità di ruoli. Nel lavoro le organizzazioni si fondano sulla suddivisione in ruoli per conseguire un obiettivo comune. L’obiettivo comune per le aziende viene spesso definito il profitto, pensiamo ad una grande multinazionale come la Nestlé, che è presente in 86 Paesi nel mondo con oltre 333.000 dipendenti. Le decisioni che vengono prese nel quartier generale di Nestlé a Vevey in Svizzera hanno un effetto altrove, per esempio a Luanda, in Angola. Per il dipendente angolano della Nestlé è spesso un motivo di orgoglio e di status sociale lavorare per una grande multinazionale. Se, però, per effetto di un rincaro non previsto delle materie prime o di un minore gradimento dei prodotti di Nestlé da parte dei consumatori europei, ad esempio per l’utilizzo di olio di palma nella sua filiera, la società decide di ridurre il suo organico proprio a Luanda, ecco che improvvisamente quel dipendente orgoglioso si trova in difficoltà, perché viene meno il suo ruolo aziendale. Diverso è per una piccola impresa locale, dove i rapporti umani sono rinforzati dalla contiguità spaziale.
Quando si forma una famiglia, con la nascita e la crescita dei figli si stabilizzano dei ruoli, che cambiano quando i figli ormai divenuti grandi vanno via di casa; la mamma e il papà comprendono che il loro ruolo di utilità per la crescita della prole viene meno, resta il ruolo affettivo certo. Lo stesso succede quando si va in pensione o peggio si perde il lavoro e non si sa come sostentare la propria famiglia. La separazione di un nucleo affettivo è un altro momento che mette in crisi il ruolo, il marito e la moglie, il compagno e la compagna. Ma anche l’essere cittadino in uno Stato, se quest’ultimo diventa dittatoriale ed oppressivo cambia. Si decide di emigrare o di fare resistenza al regime dittatoriale.
Quindi, noi tutti nella nostra vita sociale ricopriamo dei ruoli, con i quali spesso ci identifichiamo, per poi scoprire quando le circostanze esterne cambiano e mettono in crisi la nostra identificazione con quei ruoli che noi non siamo quei ruoli, ma siamo altro. Non prenderci troppo sul serio, nel bene e nel mare, aiuta.
L’identificazione con un ruolo è inevitabile, però può essere ridicola e talora pericolosa, come l’identificazione di Narciso con la sua immagine riflessa nell’acqua. Evidentemente siamo altro. Siamo persone e non ruoli. Ricordarsene ogni tanto, prima che arrivi una batosta della vita a scuoterci da alcune certezze infondate, ci aiuta a rimanere più umani.
Accanto al tema della identificazione e del ruolo, faccio una estensione al tema della identità e della comunità. Nella società liquida post-moderna, come la definisce il sociologo Zygmunt Baumann, può prevalere l’identificazione con un ‘non ruolo’, siamo piuttosto degli Zelig in continua trasformazione, forse proprio per non essere prigionieri di un ruolo. Anche questo atteggiamento porta al narcisismo, forse ancora più sofisticato, perché ci si rispecchia in una pluralità infinita di immagini, inghiottite in un vortice (dettato dai tempi vorticosi della post-modernità) o in un buco nero (della onnipresenza di immagini, luoghi e colori), che equivale ad una assenza di immagini.
Anche qui l’assenza dell’equilibrio in una eccessiva identificazione in un ‘non ruolo’ è ridicola e pericolosa.
S. Paolo nella lettera ai Corinzi usa la metafora del corpo formato da molte membra. Ogni parte del corpo svolge una funzione importante e, perché ci sia equilibrio nel corpo, è necessario che ogni singola piccola parte sia in equilibrio.
Se ci facciamo male al dito mignolo del piede sinistro, tutto il nostro equilibrio viene cambiato per consentire al nostro piccolo dito di curarsi e una volta guarito, siamo nella condizione di ritrovare un equilibrio, che ridia lentamente, ma costantemente al nostro piccolo dito le funzionalità per un certo periodo sospese. Ma se lo trascuriamo e continuiamo ad ignorare il disagio del piccolo dito mignolo, perché non vogliamo fermarci e poi abbiamo una occasione importante e vogliamo ad ogni costo indossare quella scarpa con il tacco alto che avevamo studiato per l’occasione, allora riportare l’equilibrio nel nostro corpo sarà molto più complesso.
Il riconoscerci come comunità e non come identità singole e slegate le une dalle altre, può ridare da un lato fiato ai bisogni umani di socialità e di punti di riferimento e di elementi di sicurezza, senza peraltro venirne schiacciati e massificati. Noi come gli altri e gli altri come noi. Siamo persone e ritornare a vederci come ‘persone’ nell’accezione latina del termine[1] può aiutare a prendere distanza dalla dinamica ‘ruolo, non ruolo’. Prendo la citazione da Internet: ‘Dalla maschera si passa al personaggio. Dal personaggio si passa alla persona – uscendo dalla scena. Questa testimonianza storica è tanto eloquente. Rappresenta bene il filo di Arianna che l’uomo si porta dietro uscendo dal teatro, il debito immenso che ha nei confronti di quest’arte per quanto riguarda la conoscenza di sé. Sembra quasi che la persona si veda veramente bene solo da una platea. Che il personaggio si comprenda sinceramente solo quando indossa una maschera – che paradossalmente lo purifica dall’esagerazione controllata e finta del volto (seduzione dello sguardo), restituendoci quello stesso personaggio ma tanto più vivo, tanto più adamantino e tanto più vero’.
Prendere distanza dall’identificazione con il ruolo e anche dall’eccessivo individualismo, come due poli estremi di negazione delle persone e delle comunità di persone, ci può riportare a viverci come ‘ecclesia’, assemblea del genere umano, corpo che muta alla costante ricerca di un equilibrio, come S. Paolo diceva ai Corinzi, un corpo che ha un’anima, un cuore e un cervello, per i non credenti inserito in un universo dai contorni razionali e per i credenti animato da un Dio Creatore trascendente. Infine, per i cristiani Dio è entrato nella storia, si è fatto creatura attraverso Gesù Cristo e nel palcoscenico del mondo ha scelto come amici i più umili.
Daniela Carosio
Director Sustainable Equity Value Ltd
[1] Etimologia di persona dal latino: per attraverso sonar risuonare. Così era chiamata in antichità la maschera indossata dagli attori, che oltre a coprire il volto funzionava da amplificatore per la voce.
(Fonte: http://unaparolaalgiorno.it/significato/P/persona)
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