«Pacato e inquieto. Agli antipodi o coesistenti e interdipendenti?». Così leggiamo in apertura di un contributo e intendo proprio partire di qui, offrendo una mia risposta all’interrogativo: pacato e inquieto possono coesistere nella stessa persona e, quando accade, siamo di fronte a una “bella persona”.
Non è necessario spiegare nulla perché tutti facciamo quotidianamente esperienza di inquietudine e di pacatezza nelle loro diverse accezioni positive e negative come ampiamente hanno illustrato i contributi sul nostro tavolo virtuale. Tra questi scelgo un passaggio che evidenzia la «necessità di un’educazione dello sguardo profondo» che aiuti il “contenimento” di ogni eccesso di inquietudine e pacatezza perché – per dirla con un proverbio – “Il troppo stroppia”.
Ancora una volta ritorniamo a “invocare” la scelta irrinunciabile e permanente dell’educazione – e “educazione dello sguardo profondo” – consapevoli, come si afferma in un contributo, di «quanto facilmente le nostre piccole inquietudini siano esposte all’esasperazione quando manca l’educazione a riflettere, a tenere la giusta distanza, ad avere la mente lucida sebbene non fredda, a mettere a fuoco il vero obiettivo in una visione più ampia e non egoistica».
Così bypassiamo anche il rischio, messo a nudo da un altro contributo, di «fare dell’inquietudine una rincorsa morbosa e avida al desiderio e della pacatezza indifferenza e ignavia», liberando l’energia positiva dell’una e dell’altra, riconoscendo nella “buona” inquietudine la ricerca continua del senso e dell’essenza della vita, il tentativo di decifrare la verità umana, pur nella sua fragilità e debolezza, e nella “buona” pacatezza la sapienza di uno sguardo profondo su di sé, sull’altro e sulle cose, la solidità interiore, la capacità di creare e vivere legami stabili.
Mi sembra che si sia indugiato soprattutto sull’inquietudine perché evoca grandi “anime inquiete” come ricordava don Primo Mazzolari in una pagina del suo libro La più bella avventura: «L’insoddisfazione non è una colpa, ma una distinzione spirituale, un preannuncio di grazia. Le più belle pagine della Chiesa furono scritte da anime inquiete. Non è certo un mestiere comodo essere o vivere presso degli inquieti, per cui, si capisce come l’ordinaria educazione tenda a far scomparire o addomesticare il tipo. Ma se si pensa che ogni grande o vera passione, non può ridurre questo tono, c’è da chiedersi se, spegnendo l’inquietudine non si spenga pure lo spirito. Questi cuori eternamente delusi sulla terra sono una preda di Dio».
Certamente anche l’inquietudine che da sempre abita il cuore dell’uomo come originario segno dell’anima, oggi rischia di essere condizionata e mistificata, perché, come scrive la filosofa Maria Zambrano nel suo libro Verso un sapere dell’anima, «l’inquietudine non è quella di altri tempi, in cui la vita era ricca di avventure, poiché è un’inquietudine che sopportiamo, nella quale ci sentiamo reclusi. È un’inquietudine che ci viene da fuori, non un’attività liberatrice che scaturisce da dentro». A partire di qui la Zambrano mostra come ci sia una forma deviata, perversa di inquietudine, cioè quella che, originata dall’esterno, dalle inautentiche e disorientanti voci del mondo, ci trascina acriticamente nella vita, senza che si possa scegliere o articolare un discorso di senso. L’uomo della crisi, tutto produttività, efficienza, funzionalità e mercato, è inquieto, poiché il campo esistenziale delle possibilità tecnologiche che gli sono offerte è talmente vasto da generare impotenza e smarrimento. Non si può, infatti, rinunciare per non essere estromessi dalla fittizia comunità creata dal mercato, e, nel contempo, ci si sente inquieti perché, da un lato, è strutturalmente impossibile scegliere, dove la scelta, in nome del tutto o niente, viene negata, e, dall’altro, la ricerca del “di più”, rispetto alla sicurezza di ciò che si ha, è rischiosa e, quindi, potrebbe scardinare quella stessa sicurezza, in un perverso, lacerante circolo vizioso di ansia – insoddisfazione – inquietudine.
C’è, però, anche una forma autentica di inquietudine, oltre a quella mistificante indotta dall’esterno, ed è quella che abita l’anima già nella sua fase aurorale: quell’ardente amore per l’infinito che rimanda “cor inquietum” di Sant’Agostino ma anche a tante pagine della filosofia e della letteratura, dall’antichità fino ad oggi. Ed è interessante che un filosofo come Salvatore Natoli, il cui pensiero di fondo non è certo espressivo di una concezione cristiana dell’uomo e della storia, quando afferma che l’inquietudine è in prevalenza un sentimento moderno, precisa che è «un sentimento che trova nel cristianesimo una delle sue più originarie e originali matrici. Seppure non è stato il cristianesimo a generare il sentimento d’inquietudine, di certo lo ha fortemente accentuato».
Perché non concludere, allora, con un piccolo “elogio dell’inquietudine”?
Ci aiuta Papa Francesco specialmente in due interventi, all’apertura del Capitolo degli Agostiniani (28 agosto 2013) e nell’omelia ai Gesuiti in occasione della celebrazione del SS. Nome di Gesù presso la Chiesa del Gesù (3 gennaio 2014).
Bastano due brani per evidenziare a tutto tondo la “santa e bella inquietudine” da cui vale la pena lasciarci smuovere, sollecitati a non accontentarci di una vita di fede tiepida e sonnolenta, che non scuote l’esistenza e non costringe a porsi delle domande.
Agli Agostiniani il Papa propone tre inquietudini: l’inquietudine spirituale di ricercare sempre il Signore, l’inquietudine dell’incontro con Dio e l’inquietudine dell’amore che spinge ad andare incontro all’altro, senza aspettare che sia l’altro a manifestare il suo bisogno, a cercare sempre, senza sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella intensità che porta anche alle lacrime, come fu per Monica.
Ai Gesuiti fa una proposta interpellante, capace di inquietare salutarmente ogni cristiano, che riconosce in Cristo e nella sua Chiesa il “centro” della sua vita: proviamo a leggere il testo sostituendo a “gesuiti” il nostro nome e quello delle nostre famiglie religiose?
«Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli “svuotati”. Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. Quella santa e bella inquietudine! Ma, perché peccatori, possiamo chiederci se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio. Bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre. Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili». Sembra l’eco del testo di Mazzolari: spegnendo l’inquietudine forse si spegne anche lo spirito.
Ce n’è abbastanza per meditare l’estate intera!
Sr Azia Ciairano
Responsabile Ufficio Animazione missionaria USMI
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