Giustizia e tenerezza: agli antipodi o relazionanti? La vita, dono di inestimabile valore da accogliere, custodire, proteggere e difendere, sovente è fatta oggetto di discriminazione e di rifiuto. Noi siamo il risultato dell’amore donato, condiviso o subito; della trama intessuta da eventi educativi, formativi, culturali, sociali, religiosi. Pochi e improvvisi flash illuminano fatti reconditi, nascosti, dimenticati. Gettano su di loro un fascio di luce. Li osservo!
Sono sguardi e gesti carichi di dolore che chiedono comprensione e aiuto; sono sguardi e gesti di benevolenza, di accoglienza; sono espressione di incontro silenzioso e loquace tra due persone. Sono sguardi e gesti che rimandano al proprio bagaglio esperienziale, che vengono portati – consapevolmente o inconsapevolmente – alla ribalta della propria coscienza. E, accarezzati dalla luce e dal calore dei flash, li si rivive come se il tempo non li avesse cancellati.
Tra questi, quanti sono riconducibili, direttamente o indirettamente a giustizia e tenerezza: realtà, eventi e atteggiamenti apparentemente agli antipodi. A volte l’uno ‘spazza via’ l’altro, come qualcosa di ingombrante. Altre volte l’una è il risvolto dell’altra. La tenerezza supera la giustizia mentre la contiene. Gettiamo un fascio di luce su ambedue, privilegiando la tenerezza, una forza umile e potente, che sboccia in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore, che si intenerisce davanti a un bimbo che nasce, a un ‘diversamente abile’ che tenta di interloquire con noi, a una persona che soffre la solitudine e l’abbandono di quanti ha amato.
La tenerezza, ricco potenziale di sensibilità, è un protendersi verso il ‘tu’ con espressioni eloquenti e sensibili – uno sguardo, una carezza, un abbraccio, un bacio -, carichi di empatia, di simpatia, di amore. E’ espressione di rispetto dell’altro. Un diritto che dovrebbe reclamare ogni persona, che a volte viene represso, altre volte disatteso. Con conseguenze che oltrepassano il dato esperienziale momentaneo.
La tenerezza, connotazione non esclusivamente femminile, alberga negli animi gentili; indica gioia di essere, spontaneità, condivisione, amore. Alimenta la pace, feconda l’amicizia e i rapporti umani, è espressione di accoglienza, di riconciliazione. Insieme alla giustizia sa “riportare tutte le cose al loro senso” (Oreste Benzi).
Commuove l’atteggiamento di tenerezza di chi sa chinarsi sulla culla di un neonato, sul lettino di un ammalato, sul dolore di chi piange la morte di una persona cara, sulla sofferenza di chi è stato travolto dal dissesto finanziario, dalla mancanza di lavoro e dalla povertà.
La tenerezza è la controprova dell’esistenza dell’amore. E’ un uscire da sé per andare incontro al ‘tu’; è un esodo verso l’altro: “l’io senza il tu non esiste” (Feuerbech). Pervade lo spirito e il corpo in una forte emozione, che è fonte di gioia. Il sentimento della tenerezza, espressa nei suoi linguaggi specifici come il bacio, l’abbraccio, la carezza – chi non ricorda la richiesta di Giovanni XXIII: “date una carezza ai vostri figli”? – raggiunge la persona nella sua interiorità, comunicando tenerezza, sostegno, protezione, amore. E’ incalcolabile la sua importanza, che esprime le due esigenze fondamentali del cuore: desiderare di offrire e di ricevere amore.
La tenerezza nasce e si manifesta tra persone i cui rapporti sono basati sul rispetto i diritti, le esigenze, i progetti, i sogni dell’altro/a. E’ difficile – direi è impossibile -sperimentare sentimenti e atteggiamenti di tenerezza tra persone che non si amano, tra chi non rispetta il partner, il fratello, la sorella, il genitore, il figlio, l’amico. L’attitudine alla tenerezza è un’esigenza incancellabile dell’animo, è una componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona. La sua alternativa è il vuoto; è la negazione delle dimensioni più profonde della nostra interiorità e dei suoi valori più alti. Lasciarsi sfuggire la tenerezza è dunque lasciarsi sfuggire la vita.
Suor Anna Pappalardo fsp
Dottore in Lettere e Pedagogia
Questo binomio suscita in me dolcezza. All’ombra di queste due parole, dei loro significati sento di stare bene. La giustizia è una virtù cardinale importante. Viene raffigurata nei dipinti e nelle raffigurazioni statuarie come una donna con in mano una bilancia. Viene collegata alla idea di equilibrio. Spesso si pensa alla giustizia come una qualità fredda, razionale che deve emettere un giudizio o una condanna. In realtà il perseguimento della giustizia è il fondamento del nostro vivere sociale. Senza giustizia non c’è pace. L’esercizio della giustizia richiede persone preparate e di grande saggezza ed umanità, come re Salomone, Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luther King e Papa Francesco. Lungi dall’essere una virtù fredda, la giustizia è collegata alla consapevolezza della imperfezione umana, del dolore e dell’ingiustizia che spesso prevale nei rapporti umani. Giustizia come consapevolezza della violenza e dello sfruttamento, ma anche anelito e aspirazione di un mondo più giusto e vivibile per tutti gli esseri umani, nel quale tutti abbiano pari possibilità di condurre una esistenza dignitosa. La giustizia si fonda sul rispetto dei diritti umani. La legge del taglione, la pena di morte, l’applicazione assolutistica della sharia applicano con freddezza la legge della bilancia, come se l’equilibrio fosse statico e non un continuo aggiustamento dinamico, con un bilanciamento dei pesi e una continua negoziazione tra esseri umani in un contesto di vita sociale[1]. Ed ecco che entra in causa il valore della tenerezza. Tenerezza per lo sforzo, la tensione, la ricerca di un equilibrio e di una negoziazione e tenerezza per l’inadeguatezza, l’incapacità, l’errore e anche il peccato. Tenerezza che consente di fare un salto verso il riconoscimento del valore e della dignità di ogni uomo. Quel valore che viene negato dal peccato, dal crimine, dall’abisso della mancanza di amore in cui così facilmente noi esseri umani scivoliamo.
Il mio nome deriva dall’ebraico e significa ‘Dio giudice’. Il profeta Daniele, quando gli ebrei erano deportati in Babilonia, conquista la fiducia del re Nabucodonosor per la sua equanimità. Interpreta il sogno del veglio di creta e dà un valore relativo al potere assoluto del re. Il sovrano è turbato e in cuor suo capisce quanto fragile è il suo regno.
Credo che il Padre creatore sia un padre giusto con le sue creature, ma anche un padre tenero. Capace di fare pagare la colpa alle generazioni future, ma che rimette i peccati per un solo giusto presente nella comunità. Nel Libro dell’Esodo Mosè incontra il ‘Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione’. Nel libro della Genesi Il Signore dice ad Abramo che per riguardo a dieci giusti salverebbe la città di Sodoma e Gomorra dalla distruzione. Nel Vecchio Testamento quando i crimini sono troppo forti nei confronti degli umili la giustizia divina diventa implacabile e per consentire il ritorno della tenerezza la giustizia deve bruciare il vecchio ordine, per consentire ad uno più giusto di prevalere.
Nel Nuovo Testamento la tenerezza prevale. Anche se Gesù condanna pesantemente chi abusa degli innocenti e dei più umili, il suo messaggio va oltre ogni logica umana. Il messaggio cristiano è ancora più forte, Dio condivide il peccato, riscatta l’umanità con la Risurrezione. Veramente manifesta la tenerezza divina in tutta la sua grandezza ed infinita misericordia.
Daniela Carosio
Director Sustainable Equity Value Ltd.
“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Le parole di amore verso i suoi carnefici pronunciate da Gesù negli ultimi istanti della sua vita terrena sono il segno ulteriore della sua divinità.
Papa Francesco non fa che ripetere che oggi il mondo ha bisogno di tenerezza, al di sopra di ogni legalismo e di ogni giustizialismo.
Gesù ci ha insegnato cosa è la tenerezza, come segno di distinzione tra gli uomini e il Padre che ci ama sopra ogni dimensione umana e materiale.
La Giustizia degli uomini, così volubile, così condizionata dalle regole materiali, così inquinata da ragioni di opportunità e di egoismo viene a compiersi quando la tenerezza prevale sulla regola, quando il perdono prevale sulla vendetta, quando il “mostro” di turno viene visto come creatura e viene preso per mano per la sua umanizzazione.
Nel mondo violento ed ingiusto di oggi, nelle logiche mercantilistiche ammantate da un cieco edonismo, la tenerezza è la vera rivoluzione a cui siamo tutti chiamati in qualità di Figli di Dio. Tenerezza come dimensione dei rapporti sociali, culturali, familiari.
Quanto più scopriremo la bellezza della tenerezza tanto più saremo in grado di comprendere quel “Padre perdona loro..”, che è di scandalo per i perbenisti, ma puro ristoro per tutti quelli che vogliono davvero essere amati nella pienezza della loro esistenza umana.
Corrado Stillo
Presidente dell’Associazione “Valore Salute”
Chi ha incontrato Gesù Cristo e il suo Vangelo e ha trovato in lui il senso della sua vita, si avventura sulle strade del mondo per divenire collaboratore di Dio nella storia. Offre a sua capacità, tipica dell’essere umano, di convertire la realtà, aiutandola a svilupparsi sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio (cfr Laudato si’ 5): si adopera perché tutto sia riportato secondo l’armonia creata dall’Altissimo.
Chiamato alla vita per un progetto d’amore di Dio, contribuisce alla realizzazione del Regno. È consapevole che ciascuno ha il compito di assumersi la responsabilità della gestione dei doni ricevuti dal Signore.
Sperimentando che nella vita tutto gli è stato donato gratis per amore,si fa costantemente compagno di viaggio di coloro che incontra nella quotidianità. Dalla relazione con il Signore impara strutturare l’esistenza senza accaparrare spazi, anzi aiuta nella gratuità ogni altro/a ad essere sempre più persona: “ la gratuità non è un complemento ma un requisito necessario della giustizia. Quello che siamo e che abbiamo ci è stato donato per metterlo al servizio degli altri, il nostro compito consiste nel farlo fruttificare in opere buone”(Papa Francesco).
Seguire con fedeltà Gesù Cristo è vivere la giustizia in atteggiamento di restituzione. Essa non è una fredda applicazione della proprietà distributiva, ma una tensione di tenerezza costante verso l’altro. È un sentimento posto nella profondità dell’esistenza dall’amore trinitario e che prende forma in gesti concreti, attenti, profondi, autentici verso coloro che sono ai margini delle strade e che hanno bisogno di essere rincuorati, sostenuti, presi per mano, ama.
Sr. Diana Papa osc
Badessa Clarisse Otranto
Provo a pensare d’impulso a questo binomio e subito si affaccia alla mia mente una serie intricata di suggestioni che vanno dalla filosofia del diritto -mio bagaglio di studio- fino alla situazione attuale. Oggi decisamente sembra che l’idea di giustizia non comprenda più un’etica di tenerezza; si deraglia verso eccessi oltranzisti di austerità in alcuni casi, o, si precipita nell’indulgenza più superficiale e di più cattivo esempio, in altri. Poi però metto a fuoco un mio ricordo esperienziale che sembra davvero far coincidere nel modo più equilibrato e armonico questi due termini. Si tratta della commovente storia di Antigone, raccontata oltre 2500 anni fa da Sofocle. La storia, come molte altre, inizia con un’aspra lotta per il potere che porterà i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, a darsi la morte in combattimento per poter arrivare a governare su Tebe. Il potente re Creonte si dice intenzionato, per vendetta, a non voler dare sepoltura a Polinice ma solo a Eteocle. Antigone è loro sorella, nonché nipote del re Creonte, e non può accettare un ordine che contravviene alle usanze del suo popolo e soprattutto al volere degli dei. Sfida apertamente il re e viene condannata ad essere rinchiusa in una grotta per il resto dei suoi giorni. Nessuno riesce a dissuadere la posizione di rigidità del re Creonte, nemmeno il vincolo di parentela che lo lega a Polinice e ad Antigone, nemmeno il fatto che essa sia la promessa sposa di suo figlio Emone. Si ravvederà solo quando sarà troppo tardi e Antigone si sarà tolta la vita impiccandosi. Solo dopo che toccherà il dolore insostenibile di suo figlio, il quale, di fronte ai suoi occhi inorriditi si trafiggerà con la spada, e solo dopo che anche la moglie Euridice, disperata per il gesto del figlio, finirà a sua volta per uccidersi. Il re non aveva ceduto posizione semplicemente perché non voleva che venisse messa in discussione la sua volontà, minato il suo potere; tanto più se a farlo era addirittura una donna! Un finale disastroso, culminato nell’irreversibile, quando sarebbe bastata un po’ di tenerezza, quella pietas che è elevazione massima della bellezza umana; valore tra i più nobili e prodigiosi che ci contraddistingue e che ci avvicina al divino. La grande lezione di questa tragedia mette in campo interrogativi antropici che da sempre fanno parte della nostra disputa esistenziale. L’autorità e il potere, la razionalità e la spiritualità, i tentativi di colmare le nostre imperfezioni e i nostri limiti umani parandosi dietro ad una serie di compromessi ed operati che inesorabilmente finiscono per implodere su se stessi. La legge umana non può mai essere in contrasto con la legge divina e la legge naturale che ordina le cose. L’inflessibilità e il rigore non possono mai scavalcare l’uomo e la sua dignità di creatura, devono semmai essere rivolti ad un ideale di rispetto e protezione. Si dovrebbe essere giusti con l’amore e con la tenerezza che userebbe un padre per i suoi figli. La sovranità della legge e della giustizia sono ontologicamente indiscutibili perché si pongono nel rispetto e nella tutela delle persone ma trovano sempre un limite morale nel fatto che provengono da accordi, da decisioni che possono anche avere imperfezioni o possono finire per non riflettere più un beneficio condivisibile. Gli accordi si cambiano, si evolvono, si rivedono, si correggono. Il buon senso, la tenerezza aiutano la giustizia a migliorarsi e ad evolversi insieme alla naturale evoluzione della società che la accoglie e la esige.
Romina Baldoni
Biblioteca USMI Nazionale
[1] Questa visione passa nel trattato ‘Dei Delitti e delle Pene’ di Cesare Beccaria e anche nel costituzionalismo moderno che regola le nostre democrazie.
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