Parlare di ruolo in una società post moderna, in cui decisamente prevale un soggettivismo molto accentuato e narcisista, è piuttosto impegnativo. Il ruolo dovrebbe rispecchiare una posizione sociale che si viene a determinare in forza di una relazionalità, di un confronto comunitario e di una armonica convivenza civile. Svolgere un ruolo, magari ritrovando riconoscimento e gratificazione per il modo in cui si svolge e darsi un’identificazione, sono processi per i quali un individuo esce dal proprio personalismo e dal proprio interiore per porre in essere strategie che lo rapportino ad altri. Ci si identifica in qualcosa che è altro da noi ma si tende anche a mettere in connessione tutto ciò che ci attrae e che si ritiene stimolante e formativo con la nostra personalità che man mano si plasma e che, attraverso il vissuto, ci porta ad un percorso di crescita e maturazione. Il complesso gioco di ruolo/status e identificazione comporta assorbimento di regole ben stabilite e un adattamento per cui si arriva a prevedere il comportamento altrui e sulla base di questo ci si adegua o si agisce conseguentemente. E’ quindi un gioco delle parti, una rappresentazione teatrale in cui per forza di cose vengono riposte delle aspettative. E’ allora interessante chiedersi quanto di ciò che poniamo in essere nel nostro quotidiano è di fatto indotto da egocentrismo, sete di predominio, necessità di controllo e quanto invece risponde ad una sfida autentica che ci conduce a distaccarci dai nostri limiti, che ci fa interrogare sulla bellezza del condividere, del sentirsi integrati in una reciprocità capace di migliorarci e mai di costringerci. Un ruolo si dovrebbe sempre svolgere per piacere e per vocazione, un ruolo dovrebbe calzarci e mettere in luce i nostri talenti, la nostra affettività. Ma un ruolo potrebbe anche finire per starci stretto, per diventare forzatura e costrizione e portare a conflittualità anche molto aspre. La società e la qualità del nostro sociale sono determinanti nell’armonizzazione dei ruoli e nella risposta identificativa di ciascuno.
Lo stile relazionale, lo stile istituzionale individuano una comunità, ne tracciano il quadro. Un ruolo, qualunque esso sia, dovrebbe sempre garantire e assicurare una crescita personale e l’identificazione dovrebbe essere traguardo identitario. Accade invece che proprio lo sgretolamento dei valori e soprattutto il venir meno di una coesione sociale improntata su regole eque e solidali, spingano le persone verso ‘stili di vita’, verso identificazioni – ‘idolatrie’, verso ostentazioni di forma e di potere. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium denuncia la crisi dell’impegno pastorale soprattutto interrogandosi sugli operatori, sulle finalità evangeliche che arrivano dall’alto, spesso intaccate da una sempre più latente «mondanità spirituale». Ecco, là dove non si manda avanti il cuore e là dove c’è rigidità anche da parte dei controllori/supervisori di tutto il sistema, là vi è la farsa del gioco teatrale, la meschina lotta per la supremazia egocentrica.
Romina Baldoni
Biblioteca USMI Nazionale
La definizione di sé non è sempre scontata, anche quando un individuo vive cronologicamente l’età matura. Anche il consacrato/a, se non è consapevole della sua identità come persona, rischia di strutturare il tempo nelle cose da fare. A volte, per soddisfare il suo bisogno di riconoscimento, intenta dei viaggi inesplorati ad intra e ad extra, unicamente perché è alla ricerca del proprio volto o di pezzi di sé. Quanto più rimane ancorato al bisogno di definirsi, tanto più attarda il contatto autentico con la sua reale esistenza, elemento che consente di riconoscere, accogliere e definire ogni altro/a che incontra.
La mancanza di consapevolezza della propria identità, tipica del tempo dell’adolescenza, porta l’individuo a rapportarsi con gli altri in base al ruolo, infatti stabilisce rapporti e non relazioni che richiedono il rispetto della parità, pur nella diversità dei ruoli. Attribuisce allo spazio abitato valore assoluto, in quanto considerato luogo che gli permette di definirsi attraverso le cose da fare.
Ruolo e persona non si identificano. L’identità è legata alla consapevolezza che uno ha di sé come persona esistente nel qui e ora, capace di sentire, pensare, agire con coerenza e fedeltà alle scelte fondamentali assunte al di là del tempo e dello spazio. Chi è consapevole di sé, gestisce il ruolo, assumendo il volto, le caratteristiche, l’esplicitazione del senso che in ogni momento dà alla sua vita. Se è vivere come Gesù Cristo, sarà ovunque persona di ascolto, di rispetto, di accoglienza della diversità, di pace, di gioia, di giustizia, di amicizia, di misericordia, di perdono, di amore…
Diana Papa osc
Abbadessa Clarisse Otranto
Ma come siamo bravi a mettere etichette e assegnare ruoli politici, economici, sociali, religiosi. Ma come siamo bravi in questi giorni a decantarci perché abbiamo convinto l’Europa a dividere in quote i milioni di migranti che altrimenti farebbero sprofondare l’Italia sotto il loro peso, numerico e economico (umano non è termine del glossario tecnico). Migranti, altrimenti detti – con pericolosa generalizzazione – clandestini, disperati, perfino cellule (del terrore), alla meno peggio extracomunitari perché a identificarli così i più sottili tra noi si autorassicurano di non dare l’impressione di essere un po’ razzisti ma si sentono politicamente corretti. Oltre 1 milione pronti a partire e a sommergerci entro l’anno, ci hanno allarmato poco tempo fa. Invece, circa 6-8 milioni di visitatori internazionali Expo pronti a sommergerci di soldi tra maggio e ottobre per una stima di 3-4 miliardi di Euro, non ci sprofondano, anzi, ci faranno volare con un indotto i cui effetti porteranno benefici almeno fino al 2020. Si direbbe che siamo già al punto di tutta chiarezza profetizzato da San Paolo nel suo inno alla carità, visto che sappiamo identificare con spavalda sicurezza che quelli dei barconi non sono tutti innocenti e tra loro ci sono sicuramente pericolosi terroristi. Invece i visitatori internazionali Expo li conosciamo personalmente e possiamo assicurare che sono tutti gran signori, beneducati, puliti e sani, con la fedina penale intonsa e immacolata. E allora questi ce li vogliamo e possiamo accaparrare anche tutti.
Simona Melchiorre
Archivio e ricerca storica Istituto Suore Rosarie
Non di solo ruolo vive l’uomo…
Ho sempre avuto grande ammirazione per le persone che pur avendo un ruolo importante nella società, nella chiesa, in una congregazione, lo vivono senza assumere atteggiamenti “da prima donna”, anzi, trascorrendo le loro giornate mantenendosi dentro la normalità del quotidiano. In una parola, lo vivono non identificandosi con il ruolo.
Infatti, per un consacrato, il ruolo è un servizio, non uno status, da vivere in una realtà esistenziale fatta di amore, disponibilità, gratuità, allegria. E tutto ciò va molto oltre l’incarico che viene affidato.
Papa Francesco, in Misericordiae vultus ci invita ad “aprire il cuore a quanti vivono nelle più disperate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea” ad arte. L’identificazione nel ruolo mette automaticamente gli altri, coloro che costituiscono la comunità cui il ruolo si riferisce, in situazione di “periferia” creando dolore, sofferenza, aggressività, ferite. E Dio non voglia che tali sofferenze siano provocate (inconsapevolmente ma colpevolmente), ad arte, solo per sentirsi importanti e felici nel ruolo affidato.
Cristina Beffa
Giornalista Professionista
Molte volte nella mia esperienza di religiosa ho dovuto constatare che ci identifichiamo col ruolo che svolgiamo e diventiamo padrone non solo del progetto che Dio ci ha affidato ma anche delle modalità, dei tempi e … delle persone a noi affidate.
Per noi religiose, ma questo lo penso anche di ogni vero cristiano, più che di ruolo dovremmo parlare di compito, o servizio che il Signore ci chiede, attraverso una vocazione, un carisma, una persona, un superiore, ecc. Se lo vediamo sotto questa luce il ruolo non è qualcosa che ci appartiene ma che ci è stato affidato, che ci è stato donato perché ne ricavassimo un bene, per la comunità, per Dio e anche per noi.
Se, infatti, svolgiamo il nostro ruolo con occhio di fede ci interroghiamo spesso se facciamo la volontà di Dio e siamo aperte al discernimento, all’accoglienza dell’imprevisto, del nuovo, del diverso.
Se svolgiamo il nostro ruolo con fede lo compiamo con amore, in spirito di servizio e di umiltà. Allora cresciamo ogni giorno maturando proprio attraverso l’esperienza di ciò che viviamo o facciamo. Mi ha colpito molto la frase che mi ha detto qualche anno fa un religioso passionista che, a 74 anni, ha sentito la vocazione missionaria e attualmente si trova in Brasile. Quando è tornato non ha detto: “sto evangelizzando”, ma “mi stanno evangelizzando”. Ho percepito uno spostamento di prospettiva che dall’io passava al noi.
Penso che se vogliamo superare lo scoglio di identificarci col ruolo dobbiamo compiere questo passaggio esodale: dal nostro io, invadente e autoreferenziale, al noi che è la comunità, che è la chiesa, che è il mondo. Aprirsi alla prospettiva del noi, dell’altro, ci fa accogliere il ruolo come possibilità di imparare prima che di insegnare, di ricevere prima che di dare, di ascoltare prima che di giudicare. Allora forse ci accorgeremo che è Dio che dirige la nostra vita e ogni progetto, riuscendo a compiere meraviglie anche dai nostri poveri vasi di creta.
Daniela Del Gaudio SFI
Docente di ecclesiologia PUU
Nel canto XXIII dell’Inferno Dante Alighieri immagina di trovarsi fra i dannati della sesta bolgia dell’ottavo cerchio, in cui subiscono la loro pena gli ipocriti. Costoro sono rivestiti di “cappe con cappucci bassi” dinanzi agli occhi, simili ad abiti monastici, fatte di pesantissimo piombo ma dorate all’esterno. Qui il Sommo Poeta riecheggia senza dubbio le parole usate da Cristo in Matteo 23,25-28: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno siete pieni di avidità e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità”.
Gli scribi e i farisei del passo evangelico rappresentano i campioni di un vizio eterno dell’essere umano: l’ipocrisia, ovvero l’ancorarsi a un’immagine falsa del proprio “io”, l’entrare a tutti i costi in una “parte” che non è la propria per acquistare onorabilità e prestigio sociale, ingannando anche se stessi.
Se si presume l’assenza di Dio, o la sua beffarda lontananza dalle vicende terrene, la ricerca a tutti i costi di un ruolo e lo sforzo spasmodico di identificarsi con il personaggio che si vuole recitare possono raggiungere un’intensità ossessiva e disperata. Luigi Pirandello, nel Berretto a sonagli, fa dire al protagonista Ciampa: “Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato”.
Noi credenti, però, possiamo sottrarci – se lo vogliamo – a questa alienante, infelice e dolorosa condizione. Rinnegare noi stessi, non essere più noi a vivere ma permettere a Gesù di vivere in noi – come auspica San Paolo nella Lettera ai Galati – è la strada della “servitù liberante” che ci affranca dalla brama di “essere qualcuno”, dal bisogno di rivestire un ruolo nel quale tentare inutilmente di ritrovarci. Nessun uomo infatti, per quanto in concetto di santità, può vantarsi di essere alcunché al cospetto di Dio. Al tempo stesso però, in virtù del sacrificio di Cristo, ciascuno di noi è “qualcuno”. Qualunque sia la nostra presunta “rispettabilità”, ognuno di noi è importante, perché è stato riscattato sulla Croce a carissimo prezzo.
Lorenzo Terzi
Bibliotecario Archivista
Questa volta, care amiche dell’Usmi, avete sbagliato proprio. Ruolo e identificazione non sono mica uno contro l’altra. Anzi. Cercasi, piuttosto, disperatamente persone che s’identifichino nel ruolo che hanno. E cioè: genitori che siano adulti. Educatori che siano responsabili. Politici che siano capaci. Politici che siano onesti. Maestri che prima di insegnare, abbiano imparato.
E proseguite voi l’elenco.
Ma c’è bisogno anche di creatività. Io non posso identificarmi in ciò che faccio e in ciò che sono, come milioni prima di me al posto mio. Il ruolo è lo stesso, ma il modo di viverlo è diverso. Devo cambiarlo, devo cambiare, devo cambiarmi per non morire. Faccio solo un esempio, bisognoso di essere reinventato: il laico. Ché lo siamo tutti, per lo più, ma ci definiscono in negativo (“quelli che non sono preti”), da cui si deduce che siamo quelli che non fanno e non sono, e non quelli che sono e fanno. Abbiamo esempi fulgidi nel cattolicesimo degli ultimi due secoli, ci possiamo ispirare. Un suggerimento? Ricordarsi che esiste la grazia di stato. Pensarci. E fidarsi.
Rosario Carello
giornalista RAI
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