Pacato e inquieto. Due volti dell’umanità.
Agli antipodi o coesistenti e interdipendenti?
Passo in rassegna, come in uno spaccato, figure di primo piano, passate e presenti, con caratteristiche ben definite, ma i cui contorni spesso sfuggono a un primo sguardo e a una prima analisi. Sono persone familiari, con le quali ho condiviso o condivido le giornate, il lavoro, lo stress di eventi che si accavallano, le gioie per traguardi raggiunti, le preoccupazioni per il ‘domani’, l’ansia apostolica, i programmi e le sue possibili realizzazioni.
Sono persone calme, tranquille, miti, che non si lasciano turbare da inconvenienti e da eventi spiacevoli, e neppure da critiche e insuccessi; spesso sono lente nel parlare e nell’agire, parlano a voce bassa, non perdono che raramente la pazienza. Le osservo, mi avvicino per scrutarne l’animo, per comprendere cosa sottende la loro tranquillità. Mi chiedo: è connaturale alla propria indole, oppure è frutto di lavorio interiore? La loro imperturbabilità è una conquista o nasconde il desiderio e la volontà di non mettersi in gioco, di non rischiare l’impopolarità con l’esprimere la propria opinione e le proprie idee?
Punto l’obiettivo della mia osservazione su un altro gruppo di persone. Le vedo agitate, a tratti nervose, irritabili; discutono animosamente, non si rassegnano facilmente a rinunciare a quanto pensano e dicono; parlano di tutto, anche se non preparate sufficientemente su temi e progetti posti in esame e che dovrebbero essere discussi e condivisi. Alcune sono persone geniali, attive, irruenti; altre sono cariche di idee e di progettualità. Protese verso il futuro, non riescono ad attendere, a pazientare. La genialità è una delle loro caratteristiche.
Anche questo secondo gruppo mi invita a una comprensione del loro essere e agire. Mi avvicino idealmente a loro. A un primo rifiuto subentra un senso di simpatia e di comprensione. Mi affascina la loro giovialità, il loro connaturale cameratismo, la loro efficienza; mi interpella la loro inquietudine, la difficoltà/incapacità di mantenere l’equilibrio nel parlare e nel saper rinunciare alle proprie idee e progetti.
Persone pacate e persone inquiete: due volti dell’umanità che rappresentano due antipodi e al contempo tendono a completarsi. L’uomo, la donna, tutti possiamo rispecchiarci in esse: nei loro aspetti negativi e positivi, in quelli appariscenti e in quelli nascosti. A volte ci sorprende scoprire di possederne alcuni. Vorremmo avere l’inquietudine che ci invita a non accontentarci mai, a non cullarci nel già acquisito, a tentare vie nuove per realizzare un progetto, in particolare quello apostolico-spirituale. Vorremmo avere la pacatezza nel giudicare e nel parlare. Vorremmo non rischiare l’immobilismo. Vorremmo smetterla di temere che nulla può cambiare in noi e attorno a noi. Vorremmo – anzi vogliamo – ‘prendere in mano’ la nostra vita, e porla nelle mani di Dio che ci conduce come un padre amorevole verso lidi lontani, verso l’equilibrio totale.
Pappalardo Anna fsp
Dottore in Lettere e Padagogia
Quando penso all’inquietudine mi viene subito in mente l’affascinante groviglio e la difficile soluzione dei dialoghi platonici. Ecco, essere inquieti rispecchia per me l’infinito processo del comprendere, la preminenza della domanda sulla risposta, la grazia artistico spirituale della ricerca.
Inquietudine non in senso di irrequietezza o agitazione. Il nostro tempo tracima di agitazione ma quasi nessuno dirotta queste energie verso un tormento del pensare, verso l’analisi accorata di tutti i dubbi mentali, esistenziali, metafisici. Per paradosso e per assurdità siamo quindi esagitati e affannati in tutto l’irrisolto interiore e sociale che ci sovrasta, che ci schiaccia, che non riusciamo a controllare e siamo addormentati nello spirito. La calma piatta riguarda l’assenza di morale, di valori guida, di progettualità e disegni di vita. La pacatezza finisce per tradursi in una spaventosa assenza di speranza e di fiducia, in un nichilismo insensibile, accidioso e sprezzante. Non si dovrebbe mai fare dell’inquietudine una rincorsa morbosa e avida al desiderio e della pacatezza indifferenza e ignavia. Da Locke a Kant, da Pascal, Heidegger a Gadamer l’uomo è animato da curiosità, da passione, da sollecitudine. Si tratta del fermento di chi prova a collocarsi, di chi vuole far coincidere l’esistere con qualcosa che abbia un senso profondo. Ovviamente nessuno può dire con certezza assoluta cosa abbia veramente senso e cosa non lo abbia ma si può provare a misurare il senso con il metro dei propri credo, della propria esperienza e della propria etica. Ecco allora che, come fu per sant’Agostino, l’inquietudine è quella brezza, quella increspatura che ci fa sentire vivi e ci orienta ad un senso contro lo smarrimento dell’instabilità esistenziale. E’ il vero mezzo con cui si può raggiungere la pacatezza di cuore, la pacificazione con Dio, con le cose, con gli altri. Chi cerca motivazioni e stabilità interiore riconosce gli altri, riconosce se stesso, riconosce Dio e il suo amore per ciascuno. L’inquietudine è la pasqua che porta alla beatitudine.
Romina Baldoni
Bibliotecaria
Nel primo canto del Paradiso (Divina Commedia, III, I, 97-142), Dante immagina di chiedere a Beatrice come mai egli, corpo fisico pesante, può volare in su, dall’Eden verso i cieli. La risposta è mirabile per brevità e dottrina. Tutte le cose – spiega Beatrice – sono ordinate fra loro, e quest’ordine è il principio formale che rende l’universo simile a Dio, fine ultimo di tutto il creato. A tale ordine sono soggette tutte le nature, animate e inanimate, che tendono “a diversi porti / per lo gran mar de l’essere”, condotte da una forza istintiva. Anche le creature dotate d’intelligenza e amore, cioè gli uomini e gli angeli, soggiacciono a questo istinto. È pur vero però – conclude Beatrice – che l’uomo può uscire dalla strada verso Dio, cui lo porterebbe il suo impulso naturale, e piegarsi al male, essendo dotato di libera volontà.
Più avanti, nel terzo canto, il poeta incontra le anime beate, poste nel cielo inferiore perché in vita non avevano adempito ai loro voti, o lo avevano fatto in maniera imperfetta. Una di esse, quella di Piccarda Donati, lo riconosce. Dante, allora, le domanda se ella non desideri salire a più alto grado di beatitudine. Ma Piccarda gli risponde che la virtù della carità appaga perfettamente la volontà sua e quella degli altri beati dimoranti nel cielo della Luna. Dio, infatti, li induce a volere secondo il suo stesso volere: “E ’n la sua volontade è nostra pace: / ell’è quel mare al qual tutto si move / ciò ch’ella cria o che natura face”.
Secoli prima di Dante, Sant’Agostino aveva scritto le Confessioni: un’autobiografia spirituale che narra le peregrinazioni, le cadute, lo smarrimento dell’anima dell’uomo alla ricerca affannosa del bene. L’aspirazione alla felicità è insopprimibile; ma non porta a nulla e, anzi, accresce l’inquietudine, se non si comprende in che cosa consista la felicità medesima. Nel tredicesimo e ultimo libro delle Confessioni il santo vescovo d’Ippona anticipa le riflessioni del sommo Poeta fiorentino: “Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. L’olio versato dentro l’acqua s’innalza sopra l’acqua, l’acqua versata sopra l’olio s’immerge sotto l’olio, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Fuori dell’ordine regna l’inquietudine, nell’ordine la quiete. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme. Quale gioia per me udire queste parole: «Andremo alla casa del Signore»! Là collocati dalla buona volontà, nulla desidereremo, se non di rimanervi in eterno”. L’opera di Sant’Agostino si conclude proprio con l’identificazione della pace come parte essenziale della natura di Dio: “Ma tu che sei un bene cui non manca alcun bene sei sempre in quiete: perché anche per te sei tu stesso la quiete. C’è un uomo che saprà farlo intendere a un uomo? O un angelo a un angelo, o un angelo a un uomo? Chiederlo a te, cercare te, bussare a te bisogna: così – solo così – ci sarà dato, così si troverà, ci sarà aperto”.
Per due millenni gli uomini, perseguendo “il regno di Dio e la sua giustizia”, hanno avuto le cose materiali “in aggiunta”, arrivando a un livello di benessere mai toccato prima nella storia. Eppure la loro angoscia spirituale non si è placata. Come ai tempi di Sant’Agostino, anche noi oggi possiamo dire: “Inquieto è il cuore nostro, finché non riposa in Te”.
Lorenzo Terzi
Bibliotecario Archivista
In un mondo dove tutto è messo in discussione l’essere umano si ritrova solo e deluso, senza fede e senza fiducia. Come Pirandello, crede di essere uno, ma in realtà non è nessuno; per chi lo osserva è centomila, in quanto assume personalità diverse a seconda del punto di vista degli altri. La nostra vera personalità, il nostro “volto” rischiano di rimanere soffocati sul nascere da una maschera che gli altri ci impongono dall’esterno e in base alla quale noi viviamo; la società ci toglie ogni libertà con i suoi pregiudizi e le sue consuetudini, che finiscono per inaridire lo slancio vitale o per fare di noi personalità schematizzate, anonime. Così conformato l’uomo non ha neppure la possibilità di conoscersi e spesso si sente mosso nell’agire da forze misteriose, incontrollate, che provengono dal suo subcosciente: è la vita che pulsa e ribolle sotto la maschera, nel tentativo di erompere. “Ciò che conosciamo di noi stessi – scrive Pirandello – non è che una parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente”. E’ a questo punto che nasce la drammatica inquietudine dell’individuo, nel momento in cui egli si rende conto di vivere una vita che non è la sua e passa dal semplice “vivere” al “vedersi vivere”. Una vita simile è “una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi salverà l’essere umano da questa tragica situazione? Che cosa guarisce l’inquietudine? E’ il suo opposto: la sicurezza, l’appagamento, il senso del “fidarsi”, che generano la pace, da cui il termine “pacato”. Chi ha capito il gioco non riesce più ad ingannarsi e al contrario di Pirandello può trovare lo spazio per una vita vissuta in pienezza, perché solo nel “consegnare” la propria vita all’Altro, ci si rende conto che merita di essere vissuta. E da qui la drammatica inquietudine cede il passo ad una vita pacata.
La possibilità per l’individuo e per la società di fissare la propria verità assoluta conduce le persone a vivere da estranei e sconosciuti l’uno all’altro, soli nel mondo, in un continuo, inappagato ed irrealizzabile desiderio di appropriazione della vita altrui, di attacco con gli altri, di comprensione ripudiata; la fiducia, che diventa fede al livello più genuino nell’affidamento all’Altro, apre alla comprensione tra noi e con coloro che ci stanno attorno. L’inquietudine cede il passo alla pacatezza quando si superano incomunicabilità, solitudine, incomprensione, aridità e la persona umana affronta con il cuore pacificato gli inquietanti interrogativi che sempre la vita gli pone.
Anna Monia Alfieri
Responsabile Ufficio Scuola Usmi Lombardia
“La carità di Cristo ci spinge” (2Cor 5,14). Quando penso agli inquieti penso a san Paolo e mi viene in mente questo brano della lettera ai Corinzi che ne spiega anche il motivo. E allora penso che il mondo deve molto a queste persone inquiete per amore di Cristo, a quanti uomini e donne non dormivano letteralmente per annunciare il vangelo, faticando, lottando, viaggiando, soffrendo, scrivendo, perché si sentivano mossi come da una forza superiore che non li lasciava tranquilli nel trovare le strade giuste per raggiungere i bisognosi, i poveri, gli afflitti, i bambini, le vedove, e chiunque avesse bisogno di aiuto. Sì, perché i santi si lasciavano amare da Dio fino al punto da diventare inquieti per amor suo. E allora la carità di Cristo li spingeva verso i bisogni del momento, fino agli estremi confini della terra. Così potremmo dire anche degli scienziati, degli inventori, degli esploratori, o di tanti pionieri che, grazie alla loro inquietudine, hanno cambiato il mondo.
Al contrario ci sono i pacati, che sono virtuosi, anche troppo. Orazio diceva che “in medio stat virtus”. Alle volte la pacatezza è sapienza, perché non bisogna essere impetuosi, ma alcune volte può essere anche pusillanimità, che impedisce di osare, che cerca di mantenere tutto com’è per paura di cambiare. La persona pacata non ha la leadership del comando, o la capacità di innovazione. Piuttosto ha la costanza della perseveranza. Però troppa pacatezza porta alla mediocrità, ossia a non saper andare oltre le cose. Forse gli inquieti hanno bisogno anche della pacatezza, per non sbagliare. Ma i pacati avrebbero bisogno di sentire, almeno qualche volta, scorrere nelle vene quel fuoco che spinge a prendere il largo, anche senza sapere dove andare, spinti solo dalla rotta dell’amore di Cristo, per portare nel mondo la novità del vangelo che non lascia tranquilli.
Suor Daniela Del Gaudio sfi
Docente Pontificia Università Urbaniana
L’aggettivo più appropriato per definire lo stato d’animo dell’individuo è inquieto. Questo stato d’animo è la conseguenza di una società caratterizzata da una serie di problemi scaturiti dall’eccessiva presenza della scienza, della tecnica e da una globalizzazione di tutti i settori della società e da una secolarizzazione che priva l’uomo di una guida giusta ed etica. La crisi del nostro tempo nasce proprio da un deficit di senso e di futuro, dalla difficoltà di cogliere una direzione e una motivazione fondante. Sembra che ci siamo ritirati dal futuro e viviamo in un eterno presente. Un presente che paradossalmente tende ad autodefinirsi come epoca del “post”, cioè del “dopo”: post-moderna, post-industriale,post-ideologica. Ma la “fine” sembra l’unica cosa certa di questo “dopo”, mentre del “nuovo inizio” non c’è traccia. Per l’individuo disorientato, figlio di un pensiero debole, senza valori universali ai quali ispirarsi e con la presenza di una crisi economica, il futuro è una minaccia più che un’opportunità. L’immagine tende a sostituire la realtà, per cui si assiste a una progressiva spettacolarizzazione della politica: la seduzione dell’immagine diviene preponderante sui contenuti.. Ma il discorso è più ampio: il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone con le quali si conviveva la vita quotidiana, sono realtà comunitarie che si erodono ogni giorno di più di fronte al paradosso dell’omologazione che nasce dall’isolamento. Una frammentarietà sociale che vede lo sgretolarsi delle comunità di appartenenza di carattere geografico, sociale, religioso, politico, un tempo punti di riferimento.
E i riflessi si trasferiscono non solo sulle grandi vicende economiche, politiche e sociali che fanno appunto la storia, ma anche su piccoli accadimenti quotidiani che hanno a che fare con la vita individuale di ciascuno e con la percezione della propria identità. Anche le categorie ”tradizione” e “progresso” risultano inservibili, poiché l’esistenza si dilata in una sequenza di momenti unici, senza che vi sia necessariamente coerenza tra quelli che li precedono e quelli che li anticipano, dove il tempo altro non è che un passaggio dal presente al presente dove non c’è progresso, ma semplicemente transito. In tale contesto, l’inquietudine condiziona la vita delle persone fino a perdere sempre di più la valenza etica e, soprattutto, quella cristiana. Siamo così di fronte a due fenomeni: da un lato, a un processo assai avanzato di secolarizzazione, sfociato nel secolarismo, nell’agnosticismo e nell’indifferenza religiosa, più precisamente nell’ateismo pratico, inteso non come lotta contro Dio, ma come “assenza” di Dio e del problema religioso. Quanto è sbagliata questa condizione perché si stenta a capire che l’inquietudine è il frutto dell’assenza di quella pacatezza che solo l’incontro con Cristo si può raggiungere.
Il compito di noi religiose, allora è quello di incontrare sempre le persone che vivono l’inquietudine del disagio. Bisogna esternare la Parola di Cristo a tutti per offrire l’opportunità di analizzare il valore della Parola e la convinzione che il futuro non è un deserto se Cristo guida la nostra vita E’ necessario superare la secolarizzazione con continui interventi finalizzati a dare ai giovani quella pacatezza necessaria a renderli meno tristi, ma ricchi di gioia e di speranza. Cristo è l’unica alternativa a questa condizione triste e inquieta. Le persone che leggono, studiano e ragionano sulle parole del Vangelo acquisiscono sempre di più un habitus esistenziale più pacato e più pronto ad affrontare le intemperie della nostra complessa società.
Suor Damiana Frangi, sccg
Segretaria regionale USMI Calabria
Commenti recenti