“Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento”. Lo ha ammesso papa Francesco il 10.07. 2015 nel Centro di rieducazione Santa Cruz-Palmasola in Bolivia. Un centro ri-educativo con quasi 5.000 persone in uno spazio che dovrebbe contenerne soltanto 600. Sono le parole che meglio esprimono il tema proposto per questa ultima edizione del nostro “tavolo virtuale”. Non l’abbiamo ideato noi. Ci è stato suggerito da Simona Melchiorre, che – come tanti altri sin dall’inizio – ha offerto il suo apporto convinto, valido, illuminato.
Giustizia è ‘dare ad ognuno ciò che gli spetta’; in questo caso – a Palmasola – ognuno ha il diritto di avere il coordinamento di una struttura che permetta giornate conformi con quella dignità umana di cui ognuno è investito sin dalle sue origini; ma ognuno ha anche il dovere della espiazione, del riscatto, della redenzione.
Giustizia e tenerezza sono l’argomentare libero, sincero di Gesù, il “Rabbì venuto da Dio come maestro” con Nicodemo, il ragionatore, quasi l’inquisitore, in una notte che poteva essere di riposo per ambedue; giustizia e tenerezza guidano la relazione di Gesù con Zaccheo, “capo dei pubblicani”, invitato a scendere dal sicomoro sul quale si era appostato, perché, colui di cui aveva sentito parlare e che voleva ad ogni costo vedere, “doveva fermarsi a casa sua”, “casa di un peccatore” secondo i presenti… E lì, in quella casa, pubblicamente, è stata pronunciata la sentenza più rassicurante: “il figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Giustizia e tenerezza costituiscono l’essenza dell’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna adultera; il peccato c’è stato, ma non la condanna; la rassicura: “va’ e d’ora in poi non peccare più”. Gesto di tenerezza è lo sguardo assolvente di Gesù diretto a Pietro che lo aveva appena rinnegato: “il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro”.
Ognuno di questi personaggi biblici è trattato nella sua concretezza e fallibilità. Non si nega il male, non viene nascosto il limite proprio di ogni personaggio: Nicodemo, Zaccheo, l’adultera, Pietro… Tutto si muove con obiettività. Con realismo. Persone diverse; in colpa o in negatività; sfumature diverse nel trattare le singole situazioni. In ognuna c’è giustizia – riconoscimento anche personale dello sbaglio – e quella tenerezza, che rende appetibile la soluzione. Visto nella luce cristiano-battesimale è la trasfigurazione di una fragilità in evento di salvezza. Con la gratuità e la bellezza, la tenerezza è una delle espressioni che donano all’uomo quello di cui non si può fare a meno: segni e prove di affetto, di perdono; una stretta di mano può essere sanante. E potrebbe essere la molla in cui si trova la forza, forse, per piangere; senz’altro per ricominciare, nonostante tutto. Per tutti, anche per i detenuti di Palmasola.
Sr Biancarosa Magliano, fsp
Giustizia e tenerezza sembrano due realtà tanto distanti che, di primo acchito, si fa difficoltà a cogliere ciò che può accomunarle. Se le osserviamo dal punto di vista dell’esperienza umana, dobbiamo riconoscere innanzitutto che si tratta di due realtà indispensabili per l’essere umano. Non è questo, però, l’unico elemento che permette di equipararle. Se pensiamo, per esempio, alla nostra esperienza di figli, scopriamo che giustizia e tenerezza costituiscono il volto paterno e materno dell’amore, entrambi necessari per favorire lo sviluppo di ogni individuo. La giustizia, infatti, pone dei limiti all’ingordigia del nostro io, ma nello stesso tempo protegge, tutela, rassicura. È forse un po’ ruvida, come la barba del padre, ma ci permette di non sentirci in balia di forze oscure, soprattutto dell’egoismo nostro o altrui. La tenerezza, invece, comunica il calore dell’affetto, permette di assaporare la vita nella sua dimensione di dolcezza e serenità, ci fa sentire amati. Entrambi sono indispensabili, perché la fiducia negli altri e nella vita si sviluppa solo se prima abbiamo sperimentato che cosa significa essere custoditi, protetti, tutelati e amati.
Anna Bissi
Scrittrice
“La misericordia non è contraria alla giustizia, ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere”. Così scrive papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia (Misericordiae Vultus, 21). La giustizia di Dio è il suo perdono, perché – è sempre il Papa a scrivere – Dio ingloba la giustizia e la supera in un evento superiore dove si sperimenta che l’amore è a fondamento di una vera giustizia. Ciò che fa la differenza possiamo coglierlo nel passo del Buon Pastore, nel Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18): al pastore “importa” delle sue pecore, e per questo la sola giustizia non basta, non è sufficiente; il suo fine guarda oltre; la giustizia (e chi sbaglia è “giusto” che si assuma la responsabilità e si adoperi, per quanto è possibile, a riparare) è solo il primo passo che avvia la “novità” nella vita della persona. La tenerezza è quel “più” che rende possibile il cambiamento: ha molto amato perché le è stato perdonato molto. Dice Gesù, nel Vangelo secondo Luca, a Simone, mentre lui è lì che pensa che non sia “giusto” che una donna, peccatrice, irrompa in casa sua e infastidisca il suo ospite. Ma, conclude Gesù, a chi è stata usata più misericordia … questi amerà di più. E questo è tutto: “amatevi come io vi ho amato”.
sr Carlotta Ciarrapica ap
Spesso inseguiamo il paradigma della giustizia. Vogliamo giustizia, chiediamo di fare giustizia soprattutto di fronte a situazioni contraddittorie o dolorose. Imploriamo giustizia da Dio e ci ergiamo giudici del nostro prossimo. Anche in questioni religiose. Il papa nell’Evangelii gaudium ci propone il paradigma della tenerezza, che è quello usato da Maria nell’evangelizzazione. E’ l’emblema della mamma, tenera col figlio. E forse il punto sta proprio nel guardare il mondo e gli altri con gli occhi di donna, di mamma. Con tenerezza. Adriana Cavarero, nel suo libro: Inclinazioni, Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, Milano 2013, presenta Maria con queste parole: «La Vergine come icona della maternità appare, in tal senso, un esempio molto eloquente. La donna chiamata ad esprimere nell’atto dell’accudimento del figlio la sua “vera” natura o, se si vuole, la sua autentica inclinazione, trova in lei un riferimento inequivocabile e insieme paradossale».
Il gesto di chinarsi sul figlio per allattarlo è un gesto di inaudita tenerezza ed esprime anche la giustizia più vera. Vita a vita, amore ad amore. Nutrimento per far crescere donato con umiltà. Chinarsi per accogliere l’altro come figlio e fratello, nell’umiltà di cuore esprime la verità dell’essere umano. Perciò la tenerezza è uno stile che genera ponti, fra generazioni, fra culture, fra religioni. La giustizia di Dio è tenerezza che si china sulla nostra nudità per rivestirla di amore, della sua presenza che salva, del suo dono che rende veramente persone libere. Solo chi ha provato la tenerezza è capace di gesti di amore che rendono più giusto il mondo.
Sr Daniela Del Gaudio sfi
Docente Pontificia Università Urbaniana
A noi umani piace separare e opporre i concetti: un’operazione certamente utile per definire e quindi comprendere. In seguito però dovremmo andare più a fondo e intuire che molti concetti apparentemente antitetici, sono in realtà complementari.
Oggi anche la fisica teorica ci insegna che le cose nel profondo possono manifestarsi in modi apparentemente opposti: come energia (onda) e/o come particella (materia).
Ora cosa sarebbe una giustizia priva di tenerezza e di umanità? Sarebbe Sarebbe puro dominio, crudeltà, legge spietata, e la storia (compresa quella cristiana) è piena di queste “giustizie” intrinsecamente omicide.
Ma cosa diventerebbe anche una tenerezza che non tenesse conto delle esigenze della giustizia? Sarebbe una pappa mentale, o, peggio, una forma di collaborazionismo col male, e con i suoi rappresentanti.
Dovremmo essere teneri e misericordiosi con Hitler o con i criminali comunisti che hanno sterminato migliaia di cristiani? Oppure dobbiamo opporre la nostra resistenza ferma e pronta anche al martirio, come Bonhoeffer o come Florenskij?
L’uomo che ci mostra l’inseparabilità dei due principi di giustizia e di amore è proprio Gesù.
Quello vero, ovviamente, e non i santini insipidi che spesso ci facciamo.
Gesù è mite ed è misericordioso, è anzi, per noi cristiani, la stessa Bontà di Dio, ebbene questo Gesù, però, questo stesso Signore misericordioso è quello che ci dice: è meglio che ti metti una macina da asino al collo e ti butti nel mare, piuttosto che dare scandalo; è meglio che ti tagli un piede e che ti cavi un occhio piuttosto che rovinarti la vita nel peccato, e finire nell’immondezzaio della Geenna.
Allora: questa è tenerezza! Queste parole sono piene di vera tenerezza e di vero amore!
Sì, a volte, la durezza del chirurgo che deve tagliare il cancro, per salvarci la vita, è proprio la vera tenerezza; non quella di chi nega che il cancro uccida o che il peccato distrugga la nostra vita e quella dei nostri fratelli.
La misura della coniugazione tra tenerezza e giustizia, tra rigore e flessibilità, è proprio l’arte dell’incarnazione, che solo la più assoluta fedeltà al respiro dello Spirito, e alla sua ispirazione ADESSO, momento per momento cioè, può insegnarci.
Marco Guzzi
Scrittore Saggista
Papa Benedetto XVI nei suoi discorsi sul 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosce che è l’universalità della dignità della persona umana il criterio che fornisce ai diritti umani di essere universali, così da evitare applicazioni parziali e visioni relative. Citando la Spe salvi dove dice che “la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione”, rileva inoltre che per i cristiani tale compito è motivato dalla speranza che scaturisce dall’opera salvifica di Gesù Cristo. Immagino si riferisca in particolare a quell’episodio terribile, ma per noi fondante, della ingiusta condanna a morte di Gesù che, innocente, accetta di essere preso per un criminale e si sacrifica per espiare gli sbagli di tutti gli altri, cioè di tutti gli uomini di tutti i tempi.
Guardando al Crocifisso, tra i doveri di noi cristiani non c’è quello di avere più ragione di altri, ma sicuramente quello di fare più attenzione di altri nelle risposte che diamo alle ansie di giustizia: risposte che non dovrebbero prescindere da un atteggiamento di carità, uno sguardo di compassione e perciò di tenerezza, che si può innestare sulle istanze del diritto-dovere civile, per essere giusti senza essere giustizieri. Perciò credo che per chi ambisce partecipare a quella ricerca richiamata dal Papa Emerito, qualsiasi sia l’ambito specifico di tale “ricerca” e il livello di contributo che ad essa può dare, la fatica di tutti e di ognuno dovrà consistere soprattutto nel vegliare affinché non venga contemporaneamente veicolato, se non con gravissimo rischio, un particolarismo militante che nasconde insidiose risacche di cecità, e che, cavalcando spesso il riduttivo linguaggio sloganistico e concitato da manifestazione di piazza, non è esente da infiltrazioni che potrebbero montare facilmente in qualcosa di non molto diverso da quel memorabile: “Crocifiggilo! Crocifiggilo!”.
Contemplare il Risorto senza contemplarne la carne ferita; perdere di vista il Crocifisso; sottovalutare, disincarnandolo e desituandolo, quel cuore di Madre, pieno di domande e di intelligenza in umile e attiva attesa, e di una fede che Lei mai usa come un privilegio, né come un’alienante anestetico, tanto meno come uno scudo: queste mi sembrano serie minacce all’identità di autentica ispirazione cristiana, e più gravi di qualsiasi altre.
Un giorno ho sentito una suora rispondere a chi stava rivendicando il suo diritto violato: «Hai ragione, ma la ragione e la giustizia da sole non bastano, ci vuole anche il cuore».
Cosa vogliamo insegnare alle generazioni che ci succederanno in quella ricerca di retti ordinamenti e di risposte alle ansie di giustizia: essere sempre più veloci nel raccogliere pietre pronte da scagliare secondo la Legge, oppure nel seguire l’ispirato coraggio degli scandalosi precursori come Maria di Betania, s-prigionando e sprecando il profumo della tenerezza?
Simona Melchiorre
Archivio e ricerca storica Istituto Suore Rosarie
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