Donna / Madre. Una lettura critica

donnamadre_foto3«Eva e Maria; Agar e Sara; Marta e Maria, Cleopatra e santa Monica. Figure antitetiche in ambiti diversi, con millenni di distanza le une dalle altre, ben rappresentative del binomio donna/madre»: evocando queste quattro coppie di donne Biancarosa Magliano ha aperto la conversazione al nostro tavolo virtuale.

E subito si sono affacciate alla mente altre quattro donne, presenti nella genealogia di Gesù (Mt 1,1-17) prima di Maria: Tamar, Rahab, Rut e Betsabea «quella che era stata moglie di Uria». Anch’esse donne e madri,  grembi benedetti da Dio, nonostante le loro situazioni di “irregolarità”: tutte sono straniere e tra loro c’è una incestuosa, una prostituta e un’adultera. Ma «il fiume di queste generazioni umane, gonfio di peccati e di crimini, diventa una sorgente di acqua limpida man mano che ci avviciniamo alla pienezza dei tempi: con Maria, la Madre, ed in Gesù, il Messia, vengono riscattate tutte le generazioni. Questa lista di nomi di criminali, di adultere e di meretrici che Matteo evidenzia nella stirpe umana di Gesù non ci scandalizza, anzi fa risaltare il mistero della misericordia di Dio» (cfr F. X. Nguyên Van Thuân, Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, in «30Giorni», n. 11, 2000).

 Donna, ergo madre

 Le donne della genealogia matteana non sono forse “donne coraggio” che osano la trasgressione e rischiano la vita, per affermare il “diritto ad accogliere, custodire e dare la vita”? Donne “peccatrici”, ma anche donne di fede e donne che amano, icone dell’Amore materno di Dio Padre.

In riferimento alla sua esperienza, un’amica, ospite del nostro tavolo virtuale, annota che le sembra di «essere diventata donna davvero, solo dopo essere diventata madre…». Un sentimento di pietas che prima non c’era, come un principio di maternità diffusa e quasi dolorosa, ha segnato il passaggio verso la maturità, “rompendo” l’incantesimo della “eterna ragazza”. E se di “vera donna” – come acutamente osserva un altro intervento – non ce n’è una sola, ma tante, a seconda dell’appartenenza, c’è, tuttavia, un ambito che la riscatta quasi sempre: l’essere madre. Divenuta feconda, infatti, è capace di tenerezza e tenacia, di generare e accudire, di prendersi cura e far crescere. E questo vale anche per la maternità spirituale. Essa compie un grande miracolo, quello di «saper trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù», per dirla con la Evangelii Gaudium (n.286).

Lo stretto legame tra donna e madre, tra femminilità e maternità, è ben evidenziato, sia pure con accenti diversi, in tutti i contributi: si fa presente che, in ogni cultura, donna e maternità vanno “insieme” e che già l’iconografia primitiva rappresentava la donna come «vaso, ricettacolo portatore di vita, segno di benedizione, simbolo di potere, sogno di continuare a vivere in qualcuno e quindi desiderio di eternità».

Donna e maternità dunque. E con una battuta, il giornalista Rosario Carello afferma: «Io una differenza tra donne e mamme non la so proprio fare. E che delusione quelle donne che tentano di praticarla».

Tutti d’accordo? Sì, ma …

Le riflessioni di ogni contributo sono certamente condivisibili, sia perché evocano vissuti personali da ascoltare e rispettare, sia perché fanno riferimento all’ideale di donna-madre, a quel “dover essere” a cui tante donne tendono consapevolmente o no, e che in molte è anche una meta raggiunta.

Ma tutte sappiamo che, nella quotidianità, oggi non è così pacifico questo “legame”: alcuni contributi mettono in luce come, dopo la “rivoluzione femminista” del secolo scorso, l’immagine mitica della donna-madre, “angelo del focolare” ha cominciato a perdere quota, sino ad essere apertamente contestata e anche disprezzata. Le “femministe” di quegli anni pensavano di potere lasciare alle figlie un mondo migliore, una vita più facile della loro, di poter trasmettere una “nuova” immagine di donna. Non è stato, non è così; i modelli di donna non sono semplicemente trasmissibili, ogni generazione deve accettare la fatica di “costruirseli”, formando una sua identità nei diversi e concreti contesti di vita, rileggendo la lezione del passato e guardando al futuro.

Un contributo, in modo molto diretto, fa presente che «se sei donna povera, se sei donna emarginata, se sei donna disperata sei meno donna in questo mondo bizzarro che si autoproclama evoluto ed aperto. Se sei donna che ha qualcosa da dire spesso vieni messa a tacere. Se diventi di troppo rischi di essere fatta sparire!».

E un’altra amica afferma che abbiamo «una serie di “nuove madri”. Ci sono mamme per vocazione e madri che vogliono diventarlo per forza. A questo punto l’essere “madre” cosa significa realmente? Che senso ha?».

Infine un intervento ammette la difficoltà di definire che cos’è una vera donna nella società odierna, dichiarando che le donne stanno rischiando di perdere la femminilità: «la capacità di essere sane, vive e donne in maniera naturale e decisamente non artefatte».

Continuiamo pure a volare alto confermando i nostri principi e valori, ma senza eludere la complessità in cui viviamo, dimenticando anche che l’ideale deve essere calato nel reale, diventare “parabola” che narra e mostra quel legame essenziale e armonioso tra l’essere donna e l’essere madre.

La giornalista laica, già direttrice del quotidiano «L’Unità», Concita De Gregorio, madre di quattro figli, in un suo libro, ha compiuto un viaggio tra altre madri, per dare voce a una realtà silenziosa e circondata di luoghi comuni: la fatica di essere madri in un mondo in cui per le madri sembra non esserci posto. Racconta venti storie di maternità per mostrare quanti siano i modi di essere mamma e per concludere che «dalle donne passa la vita, sempre. Dalla pancia, dalla testa, dalle mani e dai ricordi. Dalla capacità, dal desiderio di tenere dentro, e a volte anche dall’impossibilità di farlo. E una madre tutto questo lo sa» (cfr C. De Gregorio, Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto, Mondadori, Milano 2008).

Ancora più recente la pubblicazione di un libro interessante che riporta il dialogo epistolare tra una femminista storica, Mariella Gramaglia e sua figlia, Maddalena Vianello (Fra me e te. Madre e figlia si scrivono: pensieri, passioni, femminismi, di Mariella Gramaglia e Maddalena Vianello Et.Al Edizioni, 2012), sottolineando che la generazione femminile oltre i trent’anni tende a vivere la maternità come un traguardo sempre più difficile, perché combatte quotidianamente con la cosiddetta flessibilità che, cronicizzata, si traduce in una totale mancanza di orizzonti. E molte donne  si sentono costrette a scegliere tra lavoro e maternità e quindi spesso prive, anzi, private dei figli. «Essere una donna emancipata e impegnata implica rinunciare a vivere la maternità e concepire la vita familiare come fosse una condanna?» è l’interrogativo drammatico di Maddalena Vianello e di un’intera generazione che oltre a cercare di riconquistare pezzi di emancipazione e liberazione – come si diceva una volta – deve anche partecipare ad una lotta generazionale nuova, quella per il diritto ad avere un futuro e, perché no, una famiglia. 

 

“Diventare Sorella”

P. Antonio Gentili, in un libro dal titolo singolare – Se non diventerete come donne – attingendo a piene mani dalla “lezione” di Evdokimov, propone tra i grandi simboli religiosi del femminile che il volume passa in rassegna, il simbolo Sorella come quello in cui confluiscono i tre aspetti del femmini­le: verginità, sponsalità e maternità (A. Gentili, Se non diventerete come donne, Editrice Ancora, Milano 1991). Lo stesso simbolo che la teologa Ana Roy, di origine francese ma vissuta in Brasile, offre in un suo saggio sulla mistica dell’essere donna (A. Roy, Essere donna. Mistica, etica, simbologia, prassi, La Piccola Editrice, Celleno – VT 1994).

La figura della Sorella può aiutarci a mettere in armonia, anche oggi, la donna e la madre.

Se infatti vogliamo riassumere il femminile in una figura che ne co­stituisca come l’emblema, non dobbiamo dimenticare che, «secondo la corrente più religiosa dell’ebraismo», la vocazione della donna «è quella di diventare sorella». Infatti «l’uomo e la donna, prima di divenire marito e moglie, emergono dal mistero della creazione an­zitutto come fratello e sorella nella stessa umanità».

Sorella è un simbolo in cui confluiscono i tre aspetti del femmini­le: in essa brilla il triplice amore esclu­sivo, unitivo e oblativo, al punto che è chiamata così sia l’amica-spo­sa terrena celebrata nel Cantico dei cantici (4,9.12; 5,1.2; cfr anche Tb 8,4, ecc.), sia la sposa-madre trascendente di cui ci parla il libro dei Proverbi: «Di’ alla sapienza, tu sei mia sorella» (Prv 7,4). In me­rito è significativo il fatto che a coloro le quali incarnano sotto un profilo religioso il verginale, lo sponsale e il materno, noi diamo il nome di «suora», sorella (cfr A. Gentili, op. cit, pp. 179-180).

Ana Roy, rileggendo il testo di Genesi 2,18, «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda», fa notare che con il termine “aiuto” traduciamo la parola ebraica ezer che esprime il rapporto di Dio verso il suo popolo, un rapporto pieno di tenerezza, benedizione, intimità. Applicandolo alla donna l’autore vuol sottolineare l’irradiazione che essa dovrà esercitare a fianco del suo compagno.

“Sono Hisch” (uomo), pensa Adamo; essa sarà “Hischa” (donna) perché è stata tratta da me e con me forma una fraternità indivisa. Di qui nasce l’etica fondamentale che nessuna relazione uomo-donna può deturpare senza offendere, o addirittura distruggere, l’essere umano.

Ogni donna deve, allora, ritornare alla Sorgente per sperimentare e ricevere la missione che Dio le ha affidato presentandola all’uomo. Prima di essere moglie e madre, la “Hischa-Donna” emerge come sorella e permette che l’ezer di Dio muova il suo cuore verso una fraternità sempre più aperta, verso la fraternità universale di cui, per carisma vocazionale, è re­sponsabile. La Donna-Sorella appare sul pianeta perché nasca un popolo-fratello e possa sorgere una società-fratellanza. Dove c’è una donna autentica passa, come per osmosi, una grazia che porta all’unione, all’integrazione, alla con-fraternità (A. Roy, op. cit., pp. 35-37).

Come condividere con le donne, nostre sorelle e compagne di cammino, quest’annuncio che apre spazi sconfinati alla nostra maternità, rendendoci consapevoli che proprio a noi Dio affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano, sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui ci si può trovare? Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano a ogni donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende «forte» e consolida la sua vocazione. In questo modo, la «donna perfetta» (cfr Prv 31, 10) diventa un insostituibile sostegno e una fonte di forza spirituale per gli altri, che percepiscono le grandi energie del suo spirito (cfr Mulieirs Dignitatem, n. 30)

L’ultima parola la lasciamo a Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce, filosofa e dottore della Chiesa, che nei suoi saggi sulla donna ha dimostrato che la specificità dell’essere femminile è basata innanzitutto sulla sua vocazione originaria, così come è espressa nella creazione: essere sposa e madre. Ma anche per Edith l’essere donna e madre, compagna e sposa, non significa chiudersi nel cerchio stretto dei rapporti coniugali e di una maternità fisica, ma piuttosto un “estendersi” a tutti gli essere umani che entrano nel suo orizzonte.

 

«L’anima della donna deve essere 

aperta a tutto ciò che è umano;

calda, per non raggelare i teneri semi;

luminosa, perché negli angoli bui e nelle pieghe oscure, non allignino erbe cattive;

vuota di sé, per lasciare in sé ampio spazio alla vita altrui;

padrona di sé e del proprio corpo,

così che tutta la sua personalità sia sollecitamente disponibile a ogni appello»

(E. Stein, La donna. Questioni e riflessioni, Città Nuova, Roma 2010, p. 48).

 

suor Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it 
Responsabile Ufficio Missioni Usmi Nazionale