«- Vai a chiamare tuo marito e ritorna qui.
– Io non ho marito…
– Hai detto bene: “io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero.
– Signore, vedo che tu sei un profeta…» (cf Giovanni 4,5-42).
E’ parte dell’incontro-dialogo appassionato e progressivo, di un rapporto pur breve tra Gesù, il Maestro, e la Samaritana, la donna biblica sulla quale forse è stato scritto un maggior numero di volte e più estesamente da biblisti, autori di spiritualità o interessati a figure femminili.
E’ il capitolare di una donna, inizialmente incapace di ‘prendersi in mano’ e ‘dirsi’ e dire ad altri la verità di sé. Gesù con pazienza, saggezza, pacatezza, passo dopo passo, e con sommo rispetto, ma fermo e sicuro, la porta alla scoperta di sé, ad ammettere la propria verità; la propria storia di fronte a se stessa e di fronte all’Altro, che la provoca.
E’ certo e sperimentato che in ogni persona umana si realizza il paradosso della impossibilità della comunicazione ‘completa e totale nel piano dell’essere’ e, allo stesso tempo, una necessità esistenziale di apertura agli altri. Forse perché esiste in essa un deficit di conoscenza di sé o un deficit di coraggio e di libertà. ‘Vive’ paradossalmente, senza fondamento reale, il rifiuto dell’impatto con l’altro e/o con se stessa. La persona umana – miscuglio di forze e di fragilità – effettivamente deve fare i conti con la propria piccolezza e vulnerabilità, con l’insufficienza personale. Vive, a volte, in schiavitù del giudizio altrui e ‘si maschera’. Si presenta diversa. Nasconde sotto false immagini la verità di sé. Si falsifica. Falsifica la verità profonda verso la quale la vita tende, perché quando si vive soltanto di risultati non si è più se stessi. E il ‘non essere veri’ tradisce il diritto alla verità dell’altro.
L’autenticità, invece, è coerenza con la propria identità, è espressione o frutto di coraggio, di semplicità, per le quali ha bisogno di vuoto attorno a sé, di distacco, di silenzio. La persona autentica ha chiarezza di sé e del proprio e altrui ruolo, senza handicap; vive senza sotterfugi o evasioni; è consapevole dei propri desideri, dei propri limiti. Scriveva Oscar Wilde: “chi ama vivere ama essere se stesso, farsi vedere così come egli è”.
Sa amare e vivere la limpidezza, la trasparenza del dire e del fare; dà prova della propria capacità di essere e di mostrarsi come è; supera le proprie barriere e i pregiudizi sugli altri; ha raggiunto la ricerca di sé perché sa stare in ascolto della propria interiorità. “Segue la propria chiamata personale, rispondendole con interezza e totalità” (Emanuela Ghini). Lascia fiorire nelle parole e nei gesti la propria realtà.
La Samaritana vi è giunta guidata da un Maestro Alto. E’ diventata schiava della libertà di Dio, la Verità somma. E di fronte a Lui, di fatto, nessuno si può mascherare. Mai.
Biancarosa Magliano
Direttore responsabile
Il libro della Genesi, nel descrivere il racconto del peccato originale, ha un passaggio repentino tra la descrizione dell’atto – “anch’egli ne mangiò” – e quella della sua prima immediata conseguenza: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3,7). Il male che abita l’uomo, quindi, è causa di mancata trasparenza e lo induce a nascondersi, a mascherarsi. La nostra vita si gioca allora all’interno di questa lotta, in cui si collocano da una parte il desiderio di recuperare una trasparenza perduta, capace di renderci veri e autentici, e dall’altra la tentazione che ci vuole diversi rispetto a ciò che siamo realmente e ci induce a camuffarci. La tentazione di proteggere il proprio Io è grande: vogliamo apparire diversi da ciò che siamo, di una differenza che vuole farci sembrare perfetti, senza limiti, migliori e più in gamba degli altri. In questo modo dimentichiamo che ciò che appare ai nostri occhi non corrisponde a quanto gli altri vedono: noi crediamo di essere perfetti, mentre gli altri sorridono del modo in cui – simili a una signora ottantenne ch si trucca nell’illusione di nascondere le rughe – dissimuliamo i nostri limiti. Dobbiamo imparare dai santi, gli indifesi per eccellenza, quell’autenticità tipica di coloro che hanno riposto in Dio la loro fiducia e, di conseguenza, possono mostrarsi agli altri in tutta verità.
Anna Bissi
Scrittrice
annabissi50@gmail.com
No, fermi tutti, non prendetevela con i social network. Perché è vero che oggi molti si mascherano online, dietro nickname fantasiosi, scrivendo opinioni al buio, ma i mascherati ci sono sempre stati. Negli anni ’70 le pietre e le bombe partivano da una peggio gioventù rigorosamente incappucciata. Mascherate erano le feste della Roma potente e cafona, quelle con la maschera da maiale, come raccontano le inchieste della Procura di alcuni mesi fa.
Mascherati, perché sconosciuti, sono gli speculatori sui mercati internazionali della finanza, i venditori di armi legali e illegali, i deputati che si fanno telecomandare dalle lobby più potenti.
Siamo stanchi delle maschere. E infatti cosa dicono i politici adesso? «Ci metto la faccia!».
Dopo le mani (pulite) ora tocca alla faccia, libera, aperta. Basta per essere autentici? A quante giravolte dei politici, che ci mettono la faccia, abbiamo assistito? Solo i cretini non cambiano idea, spiegano. Sarà. Ma allora la coerenza è degli stupidi? Facciamo un elenco degli autentici, ma c’è il rischio di dover correre al cimitero. In politica: De Gasperi, Moro, La Pira. In economia: Olivetti. Nelle istituzioni: Bachelet. Urgono gli autentici. O siamo autenticamente fregati.
Rosario Carello
giornalista RAI
Da bambina un giorno colsi mio padre nell’atto di scucire da una maglietta che gli era stata regalata il coccodrillino che ne era la griffe. “Ma perché?” gli chiesi stupita. “Non ho bisogno, io, di firme addosso”, mi rispose pacato. L’episodio mi restò in mente, mentre mi avviavo all’adolescenza. Ora quando incrocio dei ragazzi all’uscita da scuola osservo gli zaini, le scarpe, i giubbotti, tutti delle stesse marche, tutti griffati. Quanto bisogno avete, vorrei chiedere affettuosamente, di mascherarvi, di arruolarvi nelle schiere della gente “giusta” e allineata?
Non saprebbero rispondere. A quell’età ci si veste tutti uguali per rassicurarsi, per non sembrare strani. Da adulti, si trovano altri modi per mascherarsi. Pochissimi hanno l’audacia di mostrarsi veramente come sono. Il nostro fragile Io necessariamente si camuffa. Sarebbe libero solo quando fosse certo di essere fatto, e amato, da un Altro.
Marina Corradi
Giornalista – Avvenire
Abbiamo appena chiuso i battenti al carnevale e ci troviamo a riflettere sul mascheramento. L’uso della maschera è un’esperienza che appartiene alla cultura universale, ma qui mi soffermo su alcuni aspetti che mi si presentano, orientati dal titolo richiesto, tralasciando l’aspetto sociale e politico su cui ci sarebbe molto da dire.
La maschera è alienazione quando la uso per estraniarmi dal mondo e dal mio mondo, in cerca del “principe azzurro” cioè di una situazione irreale ma che mi permette di guardare anestetizzata la realtà. In questo caso serve “una sveglia” che apra gli occhi alla verità.
Il mascherarsi può paradossalmente avere una connotazione positiva se questo atto è l’espressione anticipata e temporanea del sogno profondo e autentico del mio progetto di vita. La sfida è tradurlo progressivamente, pur nella fatica,per fare di questo sogno realtà vitale.
Più spesso, infine, indossare una maschera è un modo di proporsi secondo quello che gli altri si aspettano da me ma che non mi appartiene, un modo per farmi accettare, e alla fine finisco per crederci io stessa sdoppiandomi tra show e autenticità. Questa maschera irrigidisce, fa vivere nel timore di deludere e deluderci. Vivere nella verità e togliere questa seconda pelle è scarnificante ma compensa la libertà e la gioia che si acquistano.
Sr Maria Luisa Gatto
Serve di Maria Riparatrici
Ciconia-Orvieto g.mluisa@smr.it
Noi esseri umani ordinariamente tendiamo a mascherarci, perché abbiamo paura.
Abbiamo paura del giudizio degli altri, abbiamo paura di manifestare la nostra distruttività, abbiamo paura di essere rifiutati, e così via. Fin da piccoli impariamo a simulare almeno un po’, per ottenere l’amore dei nostri genitori, la loro considerazione, o perlomeno per limitare i danni, e cioè la violenza verbale o fisica nei nostri confronti.
Queste strutture di difesa diventano presto automatiche, una seconda natura, che spesso non riusciamo nemmeno a distinguere dal nostro vero essere.
Diventare autentici perciò è un lungo lavoro, che non tutti desiderano intraprendere. Si tratta in fondo di iniziare una vera e propria conversione, innanzitutto dello sguardo. Si tratta di iniziare a riconoscere appunto tutte le forme in cui continuiamo a difenderci e a mascherarci. Si tratta di rinunciare alle false promesse di queste difese, e di abbandonarci con nuova fiducia a quella vita che zampilla dentro di noi.
In realtà perciò lo scavo autoconoscitivo non è sufficiente per trovare la nostra autentica verità, non è sufficiente nessuna psicoterapia o psicoanalisi, anche se alcuni strumenti psicologici possono essere utili. Al di là dell’auto-osservazione e dell’elaborazione delle ferite del passato, risulta indispensabile l’affidamento fiducioso ad una Fonte più grande di noi, a quella nuova forma di umanità che il Cristo ha impresso dentro di noi, e che ci offre in ogni istante il suo Spirito di Verità, vera sorgente dell’autenticità umana.
Marco Guzzi – scrittore
L’autenticità è la capacità di conservare la spontaneità di cui siamo dotati in età infantile ma, con la consapevolezza di essere esposti a giudizio. E, ritengo, sia direttamente proporzionale al grado di sicurezza. Tante più maschere indossiamo, tanto più i livelli di autostima e di autonomia sono bassi.
Per dirla alla Picasso: “Diventare giovani è un processo lunghissimo”, e dunque, anche ritornare autentici.
Roberta De Toma
Pubblicitaria art-director
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