Fiducia / Sospetto. Una postilla critica

fiduciaLa lettura continuativa, con evidenziatore a portata di mouse, dei diversi contributi arrivati sul nostro “tavolo virtuale”, è un bell’esercizio di riflessione che apre al dialogo e all’incontro con i “firmatari” dei testi, alcuni conosciuti personalmente, altri solo di nome, altri infine del tutto sconosciuti: dei primi riesco quasi a percepire il tono della voce, come se recitassero i loro testi, degli altri immagino un atteggiamento, uno stile personale che le parole lette suggeriscono. Come se un “coro greco” si esibisse in un’arena virtuale intrecciando un dialogo avvincente tra un corifeo e i coreuti. Al corifeo che con tono dolente sussurra – «Un lamento a volte ti giunge all’orecchio ed è sconsolante. Non ci si può più fidare di nessuno» – rispondono con voce suadente i coreuti: «Ascolta le parole  di Etty Hillesum: Ho una fiducia illimitata, che mi fa sentire protetta in ogni circostanza perché dentro di me c’è una sorgente profonda e quella sorgente è Dio. La mia fiducia è così grande, che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona».

Una divagazione, tanto per cominciare? Non solo questo. L’impressione è stata davvero quella di trovarmi di fronte a testi “pensati e pesati”, alla ricerca delle parole “giuste” per cogliere il legame sottile ma intricato tra fiducia e sospetto, per smascherare la loro ambigua convivenza nella nostra mente e nel nostro cuore, ben consapevoli che, oggi, non solo la fede in Qualcuno e qualcosa, ma la fede in sé, e la stessa fiducia, sembrano minate alla base dal sospetto, dalla precarietà, dall’incertezza, dalla frammentazione del reale e dalla lacerazione del soggetto. Dai contributi sparsi sul tavolo mi pareva davvero che si levasse una domanda drammatica: come costruire la fiducia, superando il sospetto e la paura, come liberarci dal timore radicato di essere ingannati e colpiti,  da quella diffidenza assoluta che ci costringe a vivere dietro porte blindate – delle case e del cuore! – sempre più separati dall’altro, percepito come concorrente, avversario, insidia, minaccia?

 

Un costante corpo a corpo con l’altro

Ed è a questo punto che dal fondo della memoria è emerso il palcoscenico del “Teatro Canzone” inventato da Giorgio Gaber e Sandro Luporini nei “miei” anni ’70. Ho ricercato uno dei monologhi del “Signor G.” che mi sembra proponga una sintesi delle nostre riflessioni attorno a quella “chiave d’oro” che è l’accoglienza dell’altro come persona da cui saper ricevere e a cui dare fiducia, oltre il sospetto e la paura: è in questo esercizio del “credere” che crescono la soggettività e la relazione e ciascuno offre e svela all’altro, in uno scambio reciproco, gli elementi della propria unica e irripetibile identità.

«E camminando di notte nel centro di Milano semi deserto e buio e vedendomi venire incontro l’incauto avventore, ebbi un piccolo sobbalzo che a buon diritto chiamai… paura, o vigliaccheria emotiva. Non devo avere paura. La paura è un odore e i viandanti lo sentono. Ma l’importante ora è andare avanti, deciso. Anche lui ha paura di me. Devo puntargli addosso come un incrociatore, avere l’aria di speronarlo… ecco, così. È lui che si scosta … disegna una curva. No, mi punta. Siamo a dieci metri: le mani al petto stringono un grosso mazzo di fiori. Un mazzo di fiori?… Chi crede di fregare! Una pistola, un coltello, nascosto in mezzo ai tulipani. Come son furbe le forze del male! Eccolo, è a cinque metri, è finita, quattro, tre, due, uno… [segue con lo sguardo una persona che gli passa accanto – sospiro di sollievo]. Niente, era soltanto un uomo. Un uomo che senza il minimo sospetto mi ha sorriso, come fossimo due persone. Che strano, ho avuto paura di un’ombra nella notte. Ho pensato di tutto. L’unica cosa che non ho pensato è che poteva essere semplicemente… una persona. La luna continua a essere immobile e bianca, come ai tempi in cui c’era ancora l’uomo».

Gaber schernisce noie e paranoie dell’uomo moderno con ironia malinconica e grande realismo ma senza soffocare la fiducia nelle potenziali risorse di ogni persona. È una fede laica, la sua, che lascia spazio alla speranza. Tra tanti suoi pensieri cogliamo quello che richiama un motivo dominante dei nostro interventi:  «In un tempo tremendo ti allontani da tutto, come un uomo sconfitto che riesce a vivere solo rifugiandosi nel suo piccolo mondo. Ma la salvezza personale non basta a nessuno».

E non sembri irriverente, accostare a questo testo, una parola forte di Papa Francesco tratta dall’esortazione Evangelii Gaudium:

«L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo. Perché, così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando. Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza  (n. 88)».

 

Un passaggio da compiere: dal sospetto/chiusura alla fiducia/apertura

Se sul nostro tavolo virtuale scegliessimo a caso un contributo vi troveremmo almeno tre elementi evidenziati nel testo attualissimo di Papa Francesco ma anche in quello ben più datato, e di tutt’altro genere, di Gaber:

1. la diagnosi di una società contemporanea che possiamo identificare come “società della sfiducia”. Nel nostro mondo, sempre più dominato dalla logica del mercato, dove la paura vince e il sospetto dilaga, anche la fiducia è pensata e concepita solo come riproduzione contrattuale del rapporto debitore-creditore. «In un mondo come quello attuale – afferma la filosofa Michela Marzano in un suo saggio sulla fiducia – si pensa in effetti che accordare la nostra fiducia a qualcuno ci autorizzi ad aspettarci qualcosa in cambio, secondo la legge della domanda e dell’offerta. È l’egoismo cooperativo di cui parlava Adam Smith, dal quale si è passati poi, pian piano, all’egoismo assoluto, all’idea secondo la quale ogni uomo ha diritto di badare ai propri interessi senza tenere in alcun conto la presenza degli altri. Così facendo, però, alla fiducia reciproca si è sostituita la diffidenza elevata a sistema, cosa che risulta particolarmente evidente durante le crisi finanziarie»;

2. l’analisi del sospetto, individuato come «nemico della convivenza umana, che costruisce castelli e fortezze, crea muri di separazione e rompe i ponti della relazione umana», che affonda le sue radici nel sospetto primordiale insinuato dal serpente ai danni di Eva e di Adamo: il sospetto che Dio impedisse la piena realizzazione e felicità della sua creatura, uomo e donna, fatta a sua immagine e somiglianza. Importante il riconoscimento dei tre livelli del sospetto – verso se stessi, verso gli altri e verso Dio – «strettamente correlati fra loro e che possiamo attenuare solo con una lunga pedagogia, imparando ogni giorno a fidarci un po’ di più, ad allentare le nostre difese, e ad aprirci al respiro caldo della vita». Il sospetto, da riconoscere come un “tarlo” che si addentra silenzioso nei pensieri e nel nostro vivere quotidiano, intacca, a poco a poco, la serenità fino a diventare uno stillicidio che priva chi ne è vittima della passione stessa di vivere e di lottare: ammazza e condanna alla solitudine, pur lasciando vivere;

3. la centralità della relazione, l’irrinunciabile bisogno dell’incontro e del riconoscimento dell’altro, “dono per me”, per aprirsi alla fiducia che «è un investimento a fondo perduto e resta l’unica possibilità per restituirci e restituire dignità, consapevoli che il dubbio o la fiducia che hai nel prossimo sono strettamente connessi con i dubbi e la fiducia che hai in te stesso».

Michela Marzano considera la fiducia come una scommessa. «Nulla mi garantisce che sarà vincente: posso anche perdere, essere tradita. Ma scommettendo mi concedo almeno la possibilità di scoprire l’altro e, ancor di più, me stessa». Del resto l’unica alternativa a questa “esposizione” al rischio e all’incertezza sarebbe l’immobilità, la chiusura, la non uscita da sé. Papa Francesco non ci ha invitati a correre il «rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella»?  Perché dare fiducia può innescare un vero e proprio circolo virtuoso e moltiplicatore della fiducia: anziché propagare sospetto e paura è possibile infondere e seminare fiducia.

 

Il caso serio dell’atto umano del credere

«Perché così spesso soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra vita, l’atto umano del credere», scriveva Enzo Bianchi in un articolo di qualche tempo fa.  La crisi attuale della fede non incomincia, forse, dalla crisi dell’atto umano del credere, non è il frutto di una crisi di fiducia in se stessi, nell’uomo, negli altri, nel futuro che porta alla rinuncia di tessere legami di fiducia reciproca come via di “umanizzazione” e di incontro con l’altro che è “la carne di Cristo”? Eppure è proprio dentro l’atto umano del credere, che anche la fede in Dio troverà terreno. 

Il nostro tavolo virtuale ce ne ha dato conferma. Ma in questa situazione di crisi e precarietà, come poter ritrovare una fede salda e la libertà gioiosa di fidarci e affidarci?

Forse proprio ricominciando ad aver fiducia nelle più concrete situazioni di ogni giorno, nel tempo del lavoro come della preghiera e degli incontri quotidiani, forse proprio nel porre davanti a Dio l’incertezza che caratterizza il nostro vissuto, abbandonandoci fiduciosi nelle mani di colui che Gesù di Nazaret ci ha insegnato a chiamare «Padre».

Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it
Responsabile Ufficio Missioni Usmi Nazionale