Mi accosto al tema in punta di piedi, con levità, senza alcuna pretesa di avere la chiave “giusta” per leggerlo né tanto meno di essere in grado di approfondirlo nei suoi diversi aspetti, che hanno agganci con quasi tutte le discipline: dalla filosofia alla teologia, dalla pedagogia alla psicologia fino alla psicanalisi, dalla sociologia alle scienze della comunicazione, dalla letteratura alle più diverse espressioni della musica…
Colloco questi riferimenti sullo sfondo, come peraltro hanno scelto gli invitati al tavolo virtuale, per tracciare alcuni spunti di sintesi a partire dal nostro quotidiano, da quella ferialità semplice e di routine ma che non è immune dal contagio della cultura e delle mode della nostra società dell’immagine.
Il nostro tema ci chiede di sostare su questa caratteristica dell’attuale società – ma con radici nell’Eden! – che, in modo insinuante e ambiguo, ci invita a entrare nel vortice di un coinvolgente “ballo in maschera”. L’esperienza insegna che non è così difficile entrarvi ma uscirvi è un problema serio. Parto da un mio refuso nella battitura del titolo (errore o “lapsus” di freudiana memoria?): avevo scritto «Autentici “o” Mascherati», sostituendo alla congiunzione copulativa – e – la disgiuntiva – o – e se non avessi verificato sul sito … avrei iniziato diversamente il mio contributo. Infatti proprio a partire dall’uso della congiunzione si può evidenziare un nodo cruciale nel modo differente dell’uso della maschera: da una parte la “scelta premeditata” di indossare la maschera, pensando di poterla cambiare o togliere quando si vuole, dall’altra la scarsa consapevolezza che siamo mascherati oppure l’accondiscendenza fatalistica al “così fan tutti”, illudendoci di trovare un equilibrio tra il mostrarci ora con la nostra faccia, ora con la maschera. E il gioco diventa sempre più difficile sia per chi “distingue” – o si è autentici o si è mascherati – sia per chi accetta il “mix”, la commistione confusa tra il “su e giù” della maschera. Forse la scelta cosciente, qualche volta determinata da situazioni limite che quasi “obbligano” a presentarsi “in maschera”, lascia aperta una strada per decidere, a un certo punto, di distruggere ogni maschera, mentre l’inconsapevolezza o l’ingenuità spingono dentro a una spirale da cui difficilmente ci si riesce a liberare. E certo, non da soli.
Su la maschera
Qualche flash per raccogliere alcuni tratti caratterizzanti la società in cui viviamo: è la società dell’immagine che ha prodotto fenomeni come la massificazione, la desertificazione culturale e l’appiattimento sociale; una società dell’immagine che certo non incoraggia l’attività “nobile” del pensiero ma piuttosto la passività mentale e la rinuncia all’interiorità. La logica dell’apparire sembra sempre più dominare, umiliando sentimenti e emozioni autentiche, il desiderio del bello, del buono e del vero che è dentro di noi.
A poco a poco l’apparenza è divenuta un bisogno primario dell’uomo contemporaneo che cerca di costruirsi una maschera per sembrare più adeguato o conforme alla società dell’immagine. L’essere è stato sconfitto dall’apparire. Il “reality show”, contrabbandato per realtà, propone i nuovi modelli di comportamento, colorati di esibizione di sé e di aggressività e spinge all’uniformità senza volto, per sentirsi parte del sistema o del gruppo: il modo più comune ma anche alienante per non affrontare la vita.
Una società “di facciata”, dietro cui si nascondono mediocrità e superficialità, insieme a solitudine e disperazione … perché indossare troppo a lungo una maschera o più maschere porta alla dimenticanza di sé. Rileggiamo alcuni passaggi-chiave dei contributi arrivati sul tavolo virtuale per sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda:
«La nostra vita si gioca allora all’interno di questa lotta, in cui si collocano da una parte il desiderio di recuperare una trasparenza perduta, capace di renderci veri e autentici, e dall’altra la tentazione che ci vuole diversi rispetto a ciò che siamo realmente e ci induce a camuffarci … Condannarsi a essere “falsi d’autore” per far credere che siamo veri … La persona e l’avatar. È la dialettica tra ciò che è vero e ciò che si vuol sembrare, antica come l’uomo e drammatica in ogni persona, in me».
Tutti d’accordo nel riconoscere, come radice della tendenza a “mettersi in maschera”, la paura del giudizio o del rifiuto dell’altro e, di conseguenza, del nostro limite: «così – scrive una amica del tavolo – l’indossare una maschera risponde alla ricerca di un modo di proporsi secondo quello che gli altri si aspettano da me ma che non mi appartiene, un modo per farmi accettare, e alla fine finisco per crederci io stessa sdoppiandomi tra show e autenticità».
«Ma i salti mortali ho imparato a farli anch’io, da me, venendo dalla campagna in città – qua – fra tutto questo finto, fra tutto questo falso, che diventa sempre più finto e più falso – e non si può sgombrare; perché, ormai, a rifarla in noi, attorno a noi, la semplicità, appare falsa – appare? è, è – falsa, finta anch’essa. – Non è più vero niente! E io voglio vedere, voglio sentire, sentire almeno una cosa, almeno una cosa sola che sia vera, vera, in me!» (L. Pirandello, Ciascuno a suo modo)
Qui sta il dramma dell’esistenza del “mascherato”, nel non riuscire più a distinguere la realtà autentica di se stesso e della vita dalla sua falsificazione, anzi la stessa “semplicità” che si tenta di “rifare” è anch’essa percepita come “finta”. La barriera tra platea e palcoscenico, tra le persone “autentiche” e i personaggi “mascherati” è abbattuta: tutti “maschere nude” perché prive di una vera realtà – tranne quella che, attraverso la maschera, appare agli altri – mentre la vera realtà dello spirito, se c’è, non si può conoscere mai. Fin qui arriva il pessimismo pirandelliano e l’alienazione dell’uomo moderno. Gli fa eco Giorgio Gaber in una sua ballata degli anni ’80 “Il tutto è falso”: «il falso è un illusione che ci piace / il falso è quello che credono tutti / è il racconto mascherato dei fatti / il falso è misterioso e assai più oscuro / se è mescolato/ insieme a un po’ di vero / il falso è un trucco / un trucco stupendo / per non farci capire questo nostro mondo / questo strano mondo/ questo assurdo mondo/ in cui il tutto è falso/ il falso è tutto … ».
Giù la maschera
Ma prima o poi arriva il momento in cui, dopo averne provate tante di maschere, si è presi come dalla nausea, ci si rende conto di vivere nella peggiore ipocrisia e si arriva alla decisione di liberarsi anche dall’ultima ombra della maschera. Purché non sia troppo tardi: è il tema che con amara ironia affronta un poeta del ‘900:
Ipocrisia / Mi piace l’ipocrisia,/ perché mi fa vedere l’uomo / attraverso tanti veli / come una cipolla / tanto che noi / col gusto che si spoglia una persona / ci divertiamo a sfogliarla. E credendo sempre / che ogni velo sia l’ultimo / da portar via, / invece no, / ce n’è un altro e un altro ancora. / Finché arrivati al centro: / oh! / non c’è nulla / perché l’anima / se l’è succhiata tutta /l’ipocrisia (Aldo Palazzeschi).
Ritorno, a questo punto, al nostro tavolo virtuale per raccogliere parole di speranza e consigli che indichino un cammino di ritorno all’autenticità, alla verità di noi stessi “senza pose e senza falsità”:
«Pochissimi hanno l’audacia di mostrarsi veramente come sono. Il nostro fragile io necessariamente si camuffa. Sarebbe libero solo quando fosse certo di essere fatto, e amato, da un Altro. Diventare autentici perciò è un lungo lavoro, che non tutti desiderano intraprendere. Si tratta in fondo di iniziare una vera e propria conversione, riconoscendo tutte le forme in cui continuiamo a difenderci e a mascherarci. Si tratta di rinunciare alle false promesse di queste difese, e di abbandonarci con nuova fiducia a quella vita che zampilla dentro di noi. Indispensabile l’affidamento fiducioso ad una Fonte più grande di noi, a quella nuova forma di umanità che il Cristo ha impresso dentro di noi, e che ci offre in ogni istante il suo Spirito di Verità, vera sorgente dell’autenticità umana».
E, forse, il primo passo verso la conversione inizia dagli occhi finalmente liberati dalla maschera: ci vuole un’inversione di sguardo, dai modelli propinati dalla società dell’immagine a Gesù, in cui si rivela in tutto il suo splendore la pienezza di ogni persona umana, e “ai santi, gli indifesi per eccellenza, da cui dobbiamo imparare l’autenticità tipica di chi ha riposto in Dio la fiducia e, di conseguenza, può mostrarsi agli altri in tutta verità”.
Solo Dio non guarda all’apparenza ma al cuore e sa scrutare il nostro essere più profondo, cogliervi la sua impronta e farne un “prodigio” (cfr 1Sam 16,6; Sal 139); solo Gesù “vede e apprezza” l’offerta di due soldi della povera vedova e la indica a “modello” perché “ha dato tutto” (Mc 12,41-44; Lc 21,1-4). Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Lc 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui.
Un cammino faticoso ma che, passo dopo passo, tenendo fisso lo sguardo su Gesù (cfr Eb 12,2), ci fa ritrovare noi stessi, rinnova la fede nell’amore misericordioso e paziente di Dio e risveglia la coscienza di essere inviati a prenderci cura dell’altro, a essere solidali. Non abbiamo più paura di essere amati e di donare amore e neppure … di “essere re”, come scrive in una sua poesia Emily Dickinson con cui chiudiamo la postilla, lasciando aperta la ricerca:
Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano,
se noi stessi non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.
Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it
Responsabile Ufficio Missioni Usmi Nazionale
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