PROSSIMO/ESTRANEO

Articolo Interno “Va’ e fa’ anche tu così”.

Lo disse Gesù al dottore della legge, al sapiente di Israele, che gli aveva espressamente posto la domanda: “Chi è il mio prossimo?”. Altrimenti detto: quale essere umano, vivente, posso considerare mio prossimo?

Nell’aspra vita quotidiana, nella tristezza e nella consolazione, chi ci accosta forse con timidezza, o con un certo timore e tremore, può essere esattamente quel ‘prossimo’ che ci lancia verso una vita diversa, perché ha capito che, nonostante le nostre apparenti sicurezze o nascoste temerarietà, abbiamo bisogno di lui, non fosse altro che della sua stima, di un suo parere, di un suo consiglio. Apparteniamo tutti ad una “umanità che il peccato ha reso debole, inquieta e sempre inappagata” (E. Ghini). Nessuno basta a se stesso, neppure l’eremita. Nessuno è per identità autosufficiente, anche se ci prova. Siamo, in verità, tutti fragili, vulnerabili, perché incompiuti. Dio solo è pienezza.

Prossimo, per l’uomo incappato nei ladroni, fu chi si fermò, lo unse con olio e vino, se ne fece carico; sborsò un po’ di denaro a suo favore; promise di tornare per saldare un possibile ulteriore debito… Il levita e il sacerdote, estranei,  passano oltre. Lasciato solo, malconcio, che avrebbe potuto fare?

E penso alla prossimità di due donne: Elisabetta e Maria. L’una, anziana, divenuta madre perché Dio ha esaudito una loro preghiera: di lei e di Zaccaria; l’altra, giovane madre che porta in grembo un bimbo frutto dello Spirito-Dio. Donne prossime l’una all’altra: pienamente donne nel fulgore della loro iniziale maternità, quasi combacianti tanto è intensa la loro prossimità. Ecco, essere prossimi, se necessario, ammettendo la grandezza e la valorialità del bene altrui. In comunità, soprattutto, ma anche nell’ambiente di lavoro, di gioco, di relax. ”Beata te che hai creduto!” dice Elisabetta alla giovanissima cugina. E Maria è lì per essere di aiuto… Due donne, non infallibili, segnate da Dio e sempre testimoni.

Gesù sul Tabor vive l’incontro con Mosé ed Elia, ma lassù si porta i tre ‘amici prescelti’ – molto prossimi – che poi lo accompagneranno anche nell’orto degli ulivi, quando starà per compiersi il tradimento di Giuda, l’estraneo, l’assente, l’incapace d’amore.

L’amore che si sacrifica, che si fa prossimo, non è facilmente commensurabile con il gusto o la discrezione. Scriveva K. Rahner: l’uomo è costretto a incontrarsi con molte realtà, in ognuna di queste realtà il cuore, – l’amore, la prossimità diciamo noi – è la legge più potente di ogni organizzazione e utilizzazione tecnica strutturata e realizzata dall’uomo.
                                                                     Sr Biancarosa Magliano
                                                                      Direttore responsabile

 Ha destato molta attenzione una recente analisi della nostra società posta sotto il titolo di “La morte del prossimo”, che è pure il titolo del saggio che la espone. Si deve allo psicanalista Luigi Zoja, già molto noto per un intenso libro sul destino della paternità nella civiltà occidentale, e con essa si intende mettere in rilievo un’importante e sfidante caratteristica del nostro tempo sotto il profilo antropologico, che non può non interrogare l’intelligenza e le passioni della comunità ecclesiale. Proviamo a capire meglio che cosa vi sia in gioco.
Un’altra significativa morte. Zoja afferma che, dopo l’annuncio nicciano della morte di Dio, al termine del secolo XIX, oggi si deve prendere atto di un’altra significativa morte: quella del prossimo. Ma cosa significa che il prossimo “muore”? L’annuncio della morte del prossimo consiste fondamentalmente nella presa di coscienza che la parola “prossimo” stia perdendo nel corso degli ultimi decenni concretezza e profondità, divenendo un termine astratto e distante dalla vita reale. Stiamo cioè procedendo verso una società dominata da una “privazione sensoriale del prossimo”, nel senso che, pure nella grande molteplicità di occasioni di stare con gli altri, di fatto viviamo sempre più da soli, da isolati. Si sta perdendo insomma il senso della prossimità, della sua necessità, del suo concorso per la nostra umanizzazione.
Scollegati dai prossimi reali. Per rendersene conto basta pensare a una scena molto ordinaria: la presenza di tanta gente all’interno di un vagone della metropolitana o su un bus di linea o ancora in un treno. Pur nell’incredibile folla che spesso qualifica tali ambienti, ciascuno rimane chiuso in se stesso, si “scollega” dai prossimi reali accanto a sé, per collegarsi ad altro, grazie ai tanti strumenti di comunicazione oggi a disposizione. La prossimità fisica non è più occasione per una prossimità di comunicazione né ovviamente per una comunicazione di prossimità; al contrario gli strumenti di comunicazione diventano occasione per bypassare il vicino di viaggio accanto a noi, con il quale si potrebbero pur fare due chiacchiere. Un altro esempio: l’utilizzo dei navigatori satellitari rende sempre più superflua la richiesta di informazioni lungo il percorso e quindi il contatto con le persone reali che potrebbero aiutarci in caso di dubbi. E così gli autisti diventano sempre più “autistici”.
Insieme cioè da soli. Ma non è solo una questione di tecnologia. Più in profondità ad agire è la pressione degli impegni lavorativi, della necessità di “non perdere tempo”, dell’imperativo economico del guadagno e della crescita, dell’urgenza indotta dal sistema neocapitalista di stare sempre connessi con il pensiero agli affari, alle trattative in corso, e così via, a far sì che si realizzi quello stare “insieme da soli”, che contraddistingue molti aspetti della nostra vita. Questo è la morte del prossimo. Con le parole chiare di Zoja: «Quando Nietzsche disse che Dio era morto non voleva riferire di aver visto una morte: voleva solo dire che, diversamente dai secoli precedenti, Dio non era più necessario per spiegare le relazioni sociali, familiari, politiche, le forme dell’arte e del sapere: la vita, insomma. Dopo l’industrializzazione del secolo XIX, dopo lo stretto legame tra guerra e produzione del XX secolo, e con la globalizzazione del XXI, non si può più descrivere una società senza parlare di merci e commerci. Si può, invece, spiegare la stessa società facendo a meno non solo di Dio ma anche del prossimo: come se le relazioni economiche non avvenissero in una comunità, come se non fossero una sottospecie delle relazioni umane. Tutte e due le idee su cui si basa la morale giudeo-cristiana sono diventate superflue (cioè optional) sia per le nostre azioni sia per la nostra mente». Il risultato più eclatante di questa eliminazione del senso della prossimità è alla fine dei conti la perdita del carattere umano e umanizzante della dimensione sociale dell’esistenza. Un’altra bella sfida per i cristiani». (da Evangelizzare – Aprile 2014)
                                                                                     Don Armando Matteo
                                                                                    Teologo

 “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo, che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no’. E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no”. Per Pirandello è impossibile comunicare pertanto l’uomo è destinato alla solitudine.

Un’esperienza che a tratti attraversa ciascuno di noi: l’altro ci appare un estraneo perché prende la forma di quell’estraneo che ciascuno di noi è a se stesso. Da qui la ragione per cui l’altro, divenuto estraneo, ci fa cosi paura. La solitudine e la chiusura in sé, assolutizzati, portano a precludersi ogni via di conoscenza di sé e dell’altro. Solo un’apertura onesta ci fa divenire ‘prossimo’ mentre ci apre alla vera libertà. Il che sposta l’ago della bilancia dall’incomunicabilità alla comunicazione come via alla conoscenza.
                                                                               Suor Anna Monia Alfieri
                                                       Responsabile Ufficio Scuola USMI Lombardia

L’estraneo ti “gela il cuore”
Il binomio “prossimo/estraneo”, immediatamente richiama alla memoria la lettera pastorale (1985-86) “Farsi prossimo” di Carlo Maria Martini e l’omonimo convegno di Assago da cui emerse l’invito forte ad assumere con decisione la carità come metodo delle relazioni tra le persone e con la società.

In quegli anni, a partire da quella Lettera incentrata sulla  parabola del Buon samaritano, si parlava molto del “farsi prossimo” nelle varie circostanze della vita. Quest’anno, papa Francesco ha riproposto l’icona evangelica del samaritano applicandola però alla comunicazione: il buon comunicatore è colui che si fa prossimo (vedi Messaggio per la 48° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali).

Un uomo incappa nei briganti che lo spogliano di tutto e lo lasciano mezzo morto sul ciglio della strada. Passano il sacerdote e il levita ma lo lasciano dov’è. Passa poi un samaritano (un estraneo), il quale si ferma e compie i gesti di uno che “prende posizione” in favore della vita. Vuole che il malcapitato possa continuare a vivere.

Questo significa farsi prossimo verso gli altri: volere per loro la vita e volerla piena in tutti gli ambiti dell’esistenza (etica, umana, spirituale).

Esiste il paradosso per cui a molti conoscenti e parenti si vuole bene ma loro ci restano estranei, o peggio, li vogliamo estranei. E’ come se si dicesse loro: ti rispetto ma non voglio condividere con te il bene di cui io godo e nemmeno la mia esperienza esistenziale; non voglio averti come fratello, sorella, amico, amica; non voglio che la mia crescita spirituale e intellettuale ti possa interessare; resta dove sei e come sei.

Ritenere una persona come “estranea” alla nostra vita gela il cuore, rinsecchisce le relazioni, lascia più povera la società, non aiuta l’umanità a crescere in sapienza.
                                                                                       Cristina Beffa
                                                                            Giornalista Professionista

Mi colpisce il modo così diverso di comprendere prossimità ed estraneità nel contesto sociale in cui siamo inseriti, rispetto a quanto invece il Vangelo ci suggerisce. Nel mondo contemporaneo – spesso tentato dagli integralismi, dal rifiuto della differenza, dal razzismo – la prossimità si basa spesso sulla vicinanza geografica, che definisce anche una comunanza culturale, di pensiero e di abitudini. Non stupiscono, allora, fenomeni così diversi ma nello stesso tempo tanto simili, come il rifiuto di accogliere gli immigrati e il tiro di banane in campo contro i calciatori che provengono da altri continenti. Quando la prossimità è spiegata in termini di uguaglianza, come sinonimo di “essere simile a me”, la reazione naturale nei confronti dell’estraneità diventa pregiudizio e rifiuto.

Non così il Vangelo che – come appare con tanta chiarezza nella parabola del buon Samaritano – considera come “prossimo” ogni persona, unita a tutte le altre dalla comune umanità. Estraneo, allora, è chi appartiene al “mondo”, non pensa in termini evangelici e, in questo modo, si condanna alla solitudine.
                                                                                                          Anna Bissi
                                                                                                          scrittrice