Quando mi chiedo: “Chi è il prossimo?”, la tentazione è di entrare nei panni del dottore della legge (Lc 10,29) che vuole intavolare una dotta discussione con Gesù, su un argomento che è di gran moda anche in quei tempi: è chi ti vive fianco a fianco, è chi pratica la tua stessa fede, è chi simpatizza comunque per la tua religione, è chiunque ti capita vicino? Poi, però, mi è impossibile dimenticare la strategia di Gesù che, con il suo: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37), sposta il problema dall’oggetto al soggetto: il prossimo non è il malcapitato ma il samaritano. Cosa fa il samaritano? Vede. Tenere gli occhi aperti sulla realtà è la condizione per scegliere, per assumersi la responsabilità delle proprie azioni, cioè per essere realmente vivi. Ha compassione. Decide di con – patire, cioè di mettersi nella condizione dell’altro, di vedere nell’altro se stesso, e perciò di fare ciò che vorrebbe che gli altri facessero a lui qualora si trovasse in quella condizione. Si fa vicino per verificare ciò di cui ha veramente bisogno. Fascia le ferite, lo porta in albergo, si prende cura di lui: interviene di suo come può e con ciò che ha, senza dispensarsi dal farlo perché altri avrebbero dovuto. E non alla sbrigativa: lo porta al sicuro e si prende cura di lui. Dà due denari all’albergatore, perché assicurarsi che il problema dello sfortunato fosse risolto in maniera definitiva. Chi è, allora il prossimo? Il prossimo non è. Prossimo lo si diventa. E l’estraneo chi è? Basta mettere il “non” davanti ai verbi.
Don Tonino Lasconi
Scrittore Giornalista
“E chi è il mio prossimo?” chiede a Gesù il dottore della legge e Gesù racconta la splendida parabola dell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, capovolgendo alla fine la domanda e chiedendo a sua volta: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?… Va’ e anche tu fa lo stesso”. Qui sta la chiave, la giusta interpretazione di una domanda radicalmente sbagliata, senza senso, che non dobbiamo porci neppure noi oggi perché ci obbliga a fare una classifica per cercare di individuare il prossimo verso il quale offrire il nostro aiuto e adempiere il comandamento dell’amore. Ma non ci sono categorie speciali di “prossimo”; prossimo non è la persona a me familiare, vicina, con la quale intesso rapporti di reciprocità, di affinità spirituale o psicologica, non sono neppure gli emarginati, i disgraziati dell’ultima catastrofe naturale, i poveri della strada, i vecchi, i malati… Non dobbiamo più chiederci chi dobbiamo aiutare… ma FARCI PROSSIMO. Ecco la rivoluzione portata da Gesù. Farci noi stessi prossimo di chiunque incontriamo. Come a voler dire che non esiste un prossimo, ma prossimo divento io stesso quando, davanti a una qualsiasi persona, forestiera, nemica, vicina o lontana, familiare o estranea decido di fare un passo che mi avvicina, mi approssima (come non ricordare al riguardo la lettera pastorale del card. Martini “Farsi prossimo”?). Allora nessuno mi è estraneo, ogni realtà “mi interessa”. Ovunque e sempre posso essere Presenza, prossimo di tutti. Come Gesù, il prossimo per eccellenza.
Sr Nadia Bonaldo, fsp
Esperta in comunicazione
Se guardiamo l’etimologia, prossimo come aggettivo (superlativo del latino prope) si contrappone ad estraneo: prossimo è chi mi è molto vicino, per età, parentela o anche per affinità psicologico-spirituale, culturale; estraneo colui che sta fuori del mio mondo di relazioni, che appartiene ad altro “mondo” culturale, che non mi interessa, che non conosco e non ri-conosco. Se invece ci soffermiamo al sostantivo che ha anche una accezione di nome collettivo (l’insieme dei propri simili), la differenza si attenua fino quasi a scomparire. Il comandamento del Signore: “Ama il prossimo tuo come te stesso” lascia intuire che anche l’estraneo è prossimo.
Infatti, se prossimo è ogni persona cui va rivolta la mia attenzione, come essere umano l’estraneo non è escluso; l’estraneo può diventare prossimo, come il prossimo, il vicino cui nego uno sguardo di attenzione mi diventa estraneo. L’ha descritto plasticamente la parabola del samaritano che da estraneo sociologicamente diventa prossimo del nemico per definizione. Gli “uomini di chiesa” che pure erano prossimi dell’uomo aggredito, si sono rivelati estranei.
L’uomo di Samaria ha realizzato l’inclusione umana, diventando modello per chi faceva e fa della teoria della prossimità una bandiera religiosa e nulla più: miracolo dell’integrazione umana e spirituale.
Paola Furegon stfe
Giornalista
Dal vicino di casa a chi vive in un altro Continente, da chi abita con me agli sbarcati di Lampedusa, dalla persona amica a chi incrocio una sola volta in treno … Chi è prossimo e chi è estraneo? Una domanda vecchia di duemila anni rivolta anche al Signore.
Nella nostra società l’estraneità e la prossimità sono di casa in modo strano e interessante. Non ci stupisce né chi non conosce l’inquilino della porta accanto né chi ha centinaia di amici facebookiani. Molti, intervistati su un fatto di sangue, affermano dell’interessato «sembrava un’ottima persona!»; l’amico “virtuale” può rivelarsi, invece, chi ti trae in inganno; capita anche che ci sorprendiamo di noi stessi o di vivere da stranieri nella nostra stessa realtà mentre sappiamo tutto del mondo che ci è presentato dai media. Ascoltare una notizia di guerra o di un’epidemia che fanno strage con la stessa intensità con cui ne ascolto una di un nuovo cibo per animali, annulla il confine tra una prossimità che induce al coinvolgimento e l’indifferenza che non mi scalfisce perché “quello” non mi appartiene. Sì perché la prossimità o l’estraneità non si riferiscono alla sola persona ma al modo con cui siamo presenti o meno con il cuore, la mente e il corpo a noi stessi, all’altro, alla vita e alla realtà. Essere prossimo è chinarsi verso ciò o verso chi ha bisogno di attenzione e di cura, è rispondere a chi mi sceglie perché gli rivolga lo sguardo, è accettare la mano tesa che mi rialza, è fare amicizia con me stessa. Estraneo è chi sceglie di vivere lontano affettivamente da ciò che lo circonda, di crearsi un mondo illusorio nel quale navigare col rischio che la barca non arrivi a nessun porto e affondi;farsi prossimo è accogliere la possibilità di vivere in pienezza.
Sr Maria Luisa Gatto
Serve di Maria Riparatrici
Ciconia-Orvieto g.mluisa@smr.it
Potremmo dire che ognuno di noi costruisca i confini della propria identità proprio definendo di volta in volta ciò che gli è prossimo, e quindi lo riguarda o gli appartiene, e ciò che invece gli è estraneo, e quindi fuori dalla portata del suo interesse. Questo gioco di definizioni e di confini inizia in realtà dentro noi stessi. Sappiamo infatti che molte parti del nostro essere le teniamo fuori dalla luce della coscienza, e le reputiamo perciò a noi estranee. Queste parti aliene e rimosse Stevenson le identificò col nostro Mister Hyde, la nostra parte appunto nascosta. Ci vuole un buon lavoro interiore e molti anni per riconoscere quanta paura ci abiti, quante cattive intenzioni, quanta rabbia e odio, quante finzioni, quanti mascheramenti elaboriamo per occultare i nostri difetti, e così via. Più procediamo nella fatica del farci prossimi a queste parti alienate, ascoltandone e comprendendone le ragioni e la sofferenza, più ci ammorbidiamo anche nelle relazioni, e impariamo a riconoscere, e a sentire prossimi a noi tanti soggetti che prima ritenevamo invece del tutto estranei o addirittura ostili.
Credo che in questa nuova fase della storia della civiltà cristiano-occidentale, dovremo comprendere molto meglio questo nesso tra autoconoscimento e riconoscimento dell’altro dentro di me, e capacità di relazionarmi all’altro fuori di me. E’ finito cioè il tempo delle istanze meramente morali o politiche ad amare il prossimo, e inizia il tempo della più profonda trasformazione interiore: solo se mi libero progressivamente delle mie paure di ciò che non conosco dentro di me, saprò avvicinarmi e farmi prossimo a chi prima mi intimoriva o semplicemente pretendevo di tenere molto fuori dal recinto della mia vita.
L’espansione dei confini interiori allarga cioè anche i confini esterni delle nostre relazioni, e costruisce così la vera pace, la vera unità, a cerchi concentrici, a partire però ogni volta dalla dilatazione del cuore.”
Marco Guzzi
Poeta e filosofo
Gesù ci assicura che un posto c’è nella Casa del Padre, nell’aldilà. A tante persone però, viene negato un posto in questa terra: un luogo dove vivere in pace, dove essere ospitate, ma soprattutto un posto nel cuore di chi vive loro accanto, di chi incontrano, desiderose di riconoscimento. I tempi sono cambiati: non è più considerato “prossimo” un connazionale, un cittadino, un familiare e tanto meno uno che viene da altri Paesi in cerca di libertà, di vita umana, di accoglienza.
“Maestro chi è il mio prossimo?” e “Io sono prossimo di qualcuno?”. No, Signore! Questo termine non è più di moda. Forse anche Tu oggi, se fossi qui tra noi, la penseresti come me. Sentirsi prossimo è un peso, un legame opprimente; ci si deve fermare, farsi carico, condividere, interessarsi. No, Signore! Troppi sbarcano sulle nostre coste, troppi varcano i confini da nord e da est… E’ meglio chiudere gli occhi, le orecchie ed il cuore. Nessuno toccherà la nostra sicurezza di vita. Ecco… Ho trovato… Oggi il termine più adatto, Gesù, potrebbe essere “tollerato”. Tu-tollerato ci sei; tu fai la tua strada ed io la mia. Importante è che tu non mi disturbi…
Pensandoci bene, anche questo termine oggi è in crisi. Meglio considerare l’altro un corpo estraneo dal quale ci si deve liberare quanto prima per non essere danneggiati; e poi andare in chiesa, sì, per suggerirti di porre la tua firma per siglare le nostre idee-documento. Ah, siamo precipitati nel baratro del non amore, del non cristiano, dell’autodistruzione!
Se non prepariamo un posto nel nostro cuore per il fratello, invano Tu, Gesù, ci avrai preparato un posto che resterà vuoto per l’eternità. Creati per il Cielo e l’armonia, per l’amore e la fraternità, simili a Te, facci ancora desiderare di assomigliarti e di sentirci responsabili di ogni fratello.
Sr Deanna Guidolin
Sorelle della Misericordia di Verona
La persona umana, per definizione, è un nodo di relazioni; dalle relazioni proveniamo, di relazioni viviamo ed alle relazioni siamo protesi. Il prossimo non è una identità fissa, propria di una determinata categoria di persone. Ciò vale anche per l’aggettivo “estraneo”. La prossimità e l’estraneità costituiscono la grammatica dell’umano e devono, paradossalmente combaciarsi. Ognuno di noi è un estraneo che spesso ignora la sua potenzialità di potere trovarsi, eventualmente, nella condizione di ospite-estraneo: ritrovarsi, cioè, da qualche parte senza camera, senza cucina, senza parenti, insomma senza casa.
L’estraneo è da considerare come l’aria fresca che viene a ventilare l’interno di una stanza: un soffio nuovo, un’opportunità per il rinnovamento, proprio perché portatore di un messaggio nuovo, egli costituisce un’occasione di approfondimento del vissuto umano, delle questioni fondamentali di tipo economico, politico, culturale, religioso, artistico e così via. In questo senso, prossimo/estraneo arricchisce le persone che l’hanno accolto e nel frattempo arricchisce se stesso lasciandosi iniziare dal nuovo ambiente in cui si è inserito. Siamo tutti chiamati a vivere la nostra esistenza come una pro-esistenza, cioè vivere a favore di, con e per gli altri che siano prossimi/estranei, promuovendo lo spirito di accoglienza-ospitalità.
Rita Mboshu
Figlie di Maria Correndentrice
Docente Pontificia Università Urbaniana
Prossimo, superlativo di prope: il più vicino; vicinissimo; quindi l’immediatamente antecedente o susseguente. Estraneo, da extra: fuori, di fuori; la radice delle parole strano, straniero, stra-ordinario.
Prossimo ed estraneo: due parole comuni e diffuse, però non semplici aggettivi ma due com-promettenti possibilità di vivere, di guardare il mondo, di porsi nel mondo. Scegliere come vivere l’orizzonte è la geografia di ogni giorno che chiede alla coscienza le coordinate del nostro essere dove (esserci) e per cosa. L’essere prossimo, cioè non solo vicino ma il più vicino, o l’essere estraneo non è mai uno stato assoluto dell’altro, ma dipende dalla mia posizione. Che non può essere statica, se mira a un orizzonte. Quindi implica un movimento, un farsi strada, e un far-sì. E può essere una spudorata questione di interesse, se tra il presente e l’orizzonte ritrovo il senso vero e perduto di inter-esse, essere tra, e che sottintende negotia alicuius, le cose di qualcuno. Se le cose di qualcuno mi interessano, mi toccano, mi faccio più vicino, e per questo sono disposto ad alterare il mio orizzonte, far-sì che, probabilmente deviando dalla strada ordinaria che sto percorrendo, le possa raggiungere, uscendo dal mio spazio e dal mio tempo. Lo scarto fondamentale però è nel come prendere poi posizione di fronte al nuovo orizzonte scelto: è sufficiente dire che voglio fare dell’orizzonte dell’altro il mio orizzonte? Non si può essere ambigui con il superlativo di prope: se voglio essere il più vicino, o sto immediatamente prima o sto immediatamente dopo. Sono vero prossimo se mantengo la vicinanza-distanza minima affinché le attese che animano l’orizzonte dell’altro continuino a venir prima delle mie. Forse è questo il senso del superlativo: una relazione di identità non tradite che inter-agisce senza extra-niare e senza super-imporsi. Se invece… se invece niente di tutto ciò, ma rinuncio a capire l’origine (e non solo delle parole); se mi accontento del grado positivo e non spero un senso superlativo; se mi tiro fuori e se il mio orizzonte lo faccio gestire in outsourcing dall’autoreferenza di una googlemap che – né più né meno delle geografie del potere più antiche – mi preconfeziona la realtà, mi visualizza Hic sunt leones quando anche solo per curiosità digito Utopia, mi fa girare il mondo ma senza capo-volgermi, risponde solo alla domanda: «Quanto è distante?» e non capirebbe se chiedessi: «Quanto è vicino?», mi fa navigare ma con gli occhi lontani dalle stelle, mi scolla dall’umanità… allora in questo caso sono il più vicino, sì, ma solo a un confine cieco che mi rende straniero per primo a me stesso.
Simona Melchiorre
Responsabile archivio e ricerca storica
Istituto delle Suore della B.V. Maria Regina del Santo Rosario – Udine
Se sei cristiano e hai capito cosa significhi non solo la creazione ma anche l’incarnazione, non hai dubbi di scelta tra le due categorie. Sei chiamato a scegliere quella che Cristo ha scelto: la prossimità. Per Cristo nulla e nessuno è estraneo. In Lui e per Lui tutto vive. La fede cristiana porta a questa lettura ed esige che nelle relazioni con il creato e con le persone se ne tenga un gran conto. Se non sei cristiano allora segui la regola che vale per tutti: “Tratta gli altri come desideri essere trattato tu”.
Premesso questo, i nostri limiti si scontrano con i limiti degli altri, le diversità possono spaventarci, la tentazione di chiuderci ed il pensiero del “non mi interessa” possono affacciarsi più o meno impellenti specie dopo esperienze graffianti. La fede cristiana ci indica il perdono quale costoso ed efficacissimo balsamo contro la peste dell’estraneità insieme ad un’indicazione preziosa: il rispetto della libertà di coloro che vengono indicati come “prossimo”.
Mai sostituirci! Aiutare, condividere, spezzare la vita per loro e con loro, spenderci attraverso tutte le opere di misericordia, ma mai sostituirci, mai coartare la persona. La vita del prossimo con il mistero che le è proprio si “accende” solo a contatto con una vita vissuta in pienezza. Buon cammino!
Sr M. Rosangela Sala
Superiora generale Immacolatine
Presidente USMI Liguria
Prossimo/Estraneo… Problemi di integrazione-problemi quotidiani di Comunità!
Sr Ortensia è cilena e, per qualche tempo, le è chiesto di fermarsi in Italia, a Roma; lei sente moltissimo la nostalgia della sua terra tanto che, in viale Aventino, dice che le pare di stare a Santiago; per farla distrarre me la porto in centro, a Campo dei fiori, facendo il giro della piazza, troviamo un fruttivendolo che ha anche prodotti esotici; vorrei far sentire l’urlo di meraviglia quando Sr Ortensia scopre degli avocado, tra i frutti! Ne acquistiamo uno e lei non vede l’ora d’arrivare a casa per gustarlo ma… a tavola troviamo Sr Irma, una brasiliana che quando vede l’avocado non nasconde il suo incredibile desiderio di gustarne un po’! Da buone sorelle se lo dividono a metà, una lo gusta con lo zucchero e l’altra con il sale e l’olio, secondo le tradizioni del loro Paese.
Non c’è stata mai lezione più bella ed efficace per me. Quel giorno imparai quanta attenzione occorrerebbe da parte di noi suore italiane, verso le sorelle che vengono da altre parti del mondo.
Ad una sorella del Burchina Faso mi capitò di chiedere di farci vedere una certa danza con i bastoni che loro fanno per invocare la pioggia, lei mi rispose: perché ciò a voi interessa?
Farci prossimo di queste sorelle, ecco. Non finiremmo più di dire poi dei problemi di lingua con le sorelle coreane, indiane, giapponesi. Quanta pazienza e quanta carità. Sono delle estranee per noi specialmente per quante non abbiamo mai lasciato l’Italia e pensiamo che tutto ruoti attorno a noi o, al massimo all’Europa. La vita religiosa italiana cambia, sta cambiando e l’integrazione è una cosa molto seria, d’ogni giorno. Ci è chiesto davvero di “uscire”!
Sr M Cristina Cruciani pddm
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