Mentre ricercavo un “incipit” convincente che mi introducesse nella redazione della postilla, mi sono chiesta se fosse proprio necessario scriverla “ex novo”, dal momento che i contributi del tavolo virtuale, soprattutto questa volta, già hanno offerto tutti gli elementi utili per una lettura critica del “binomio” prossimo/estraneo. Questa, almeno, è stata l’impressione che ha accompagnato la lettura e rilettura dei testi – una sorta di riflessioni pertinenti e di “appunti” interessanti per svolgere una relazione sul tema in questione – e che mi ha posto due interrogativi. Come mai, su questo tema così coinvolgente, i contributi hanno comunicato soprattutto riflessioni fondatissime ma senza intriderle del proprio vissuto, mentre su altri temi una “traccia” di esperienza personale era ben più evidente?
Perché quasi tutte le voci hanno sbrigativamente esaurito l’argomento “prossimo”, indugiando invece su “estraneo”?
Tento qualche interpretazione senza alcuna pretesa di “fare centro” e sapendo che rischio una valutazione piuttosto soggettiva. Forse perché anch’io provo un certo disagio, per esempio, a dire qualcosa di non scontato e generico sul “prossimo”? Perché l’essere diventati sempre più consapevoli che il prossimo non è l’altro – vicino o lontano che sia – ma sono io che mi faccio prossimo, non ha risolto né semplificato la questione posta dal dottore della legge. Non era più semplice fare un bell’elenco di chi è il “mio” prossimo? Un promemoria con i tanti prossimo-oggetto da soccorrere come buoni cristiani, ovviamente con prudenza, quando possibile, attenti prima al prossimo più prossimo e poi se c’è tempo … Invece il prossimo non possiamo costruirlo a tavolino, il prossimo non è neanche quello che incontriamo, ma soltanto chi decidiamo di incontrare, appunto “facendoci prossimo”.
Il card. Martini nella lettera pastorale «Farsi prossimo» (1985-1986) scriveva che nel testo lucano del “buon samaritano” la “novità” sta proprio nella sorprendente e rivoluzionaria concezione del prossimo. Infatti «solo l’evangelista Luca pone sulle labbra del maestro della legge una seconda domanda: “Ma chi è il prossimo?”. Gesù risponde raccontando la parabola del buon samaritano. Il prossimo non esiste già. Prossimo si diventa. Prossimo non è colui che ha già con me dei rapporti di sangue, di razza, di affari, di affinità psicologica. Prossimo divento io stesso nell’atto in cui, davanti a un uomo, anche davanti al forestiero e al nemico, decido di fare un passo che mi avvicina, mi approssima».
Tutto chiaro! Ma la prassi – per la mia parte lo ammetto – fa fatica a decollare sempre e con tutti. «Missione è avere coraggio di amare senza riserve»: è un’espressione della nota pastorale della CEI dopo il Convegno di Loreto (1985) che può anche riportarci al “farci prossimo” che richiede sempre un movimento di uscita da sé, mossi dal “coraggio” di andare incontro a tutti e di amare “senza riserve”.
Molto a proposito un contributo ha fatto riferimento al saggio dello psicoanalista Luigi Zoja “La morte del prossimo” richiamando che oggi «l’annuncio della morte del prossimo consiste fondamentalmente nella presa di coscienza che la parola “prossimo” stia perdendo nel corso degli ultimi decenni concretezza e profondità, divenendo un termine astratto e distante dalla vita reale. … Ciascuno rimane chiuso in se stesso, si “scollega” dai prossimi reali accanto a sé, per collegarsi ad altro, grazie ai tanti strumenti di comunicazione oggi a disposizione». Lo stare “insieme da soli”, sembra contraddistinguere molti aspetti della nostra vita, complici anche – ma certo non solo – le cuffie nelle orecchie. Già negli anni ’50 Cesare Pavese scriveva nel diario “Il mestiere di vivere”: «Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri»
In fondo, ogni scelta di bypassare l’incontro, il “corpo a corpo” con l’altro, dice una volontà di crearsi un proprio spazio, di delimitare confini precisi che nessun “estraneo” deve violare.
Prossimo/estraneo, dunque, si richiamano, convivono in ciascuno di noi, come tutti i contributi hanno lucidamente evidenziato, presentando «due com-promettenti possibilità di vivere, di guardare il mondo, di porsi nel mondo. L’essere prossimo, cioè non solo vicino ma il più vicino, o l’essere estraneo, non è mai uno stato assoluto dell’altro, ma dipende dalla mia posizione. Che non può essere statica, se mira a un orizzonte. Quindi implica un movimento, un farsi strada, e un far-sì. Se le cose di qualcuno mi interessano, mi toccano, mi faccio più vicino, e per questo sono disposto ad alterare il mio orizzonte, far-sì che, probabilmente deviando dalla strada ordinaria che sto percorrendo, le possa raggiungere, uscendo dal mio spazio e dal mio tempo».
Mi sono ricordata, a questo punto, una famosa battuta di una commedia dell’autore latino Terenzio – «Sono uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo» (Publio Terenzio Afro, Il punitore di se stesso) – che riporta la nostra riflessione al cuore della questione.
“I care!” – mi sta a cuore, mi interessa – il motto di don Lorenzo Milani pare un eco delle parole di Terenzio, ma da leggersi nella logica del “grande comandamento” di Gesù.
Oggi l’estraneo sembra prevalere sul prossimo, perché tutti, più o meno consapevolmente, siamo abitati da un senso di estraneità, tipica di chi non trova punti fermi di riferimento, non riesce a maturare un forte sentimento di appartenenza e rischia di vivere “da estraneo” nella sua stessa vita. Ciò di cui abbiamo più paura non sta “fuori” ma “dentro” di noi.
Marco Guzzi nel suo intervento ci ha invitati a un serio “lavoro interiore” che ci aiuti a «comprendere il nesso tra autoconoscimento e riconoscimento dell’altro dentro di me, e capacità di relazionarmi all’altro fuori di me»: un “percorso” che progressivamente ci liberi dalle paure di ciò che non conosciamo dentro di noi, per avvicinarci e farci prossimo a chi prima ci intimoriva o semplicemente pretendevamo di tenere molto fuori dal recinto della nostra vita.
Ma sul tavolo virtuale rimane un contributo che fa la differenza, l’unico che riporta un’esperienza di vita vissuta in una comunità religiosa che vive al proprio interno l’incontro-confronto quotidiano tra il “farsi prossimo” e il “sentirsi o essere percepito come estraneo” da parte di sorelle che provengono da diversi Paesi e contesti culturali. Si fa presto a dire, a mo’ di slogan per favorire l’integrazione, “stranieri ma non estranei”! Di fatto anche là dove si condivide la fede, il vangelo, il carisma, la missione … può accadere che la fraternità sia ferita da un senso di “estraneità” che non favorisce il “farsi reciprocamente prossimo”. Una sfida ma anche un’opportunità da cogliere e far evolvere, cominciando anche da un avocado o dalla danza della pioggia: “I care”! Certo che mi interessa.
“Farci prossimo” è cosa seria, richiede un impegno esigente e il coraggio di esporsi per la vita dell’altro. Per amore dell’altro, in noi e fuori di noi.
E le parole di don Primo Mazzolari, un testimone indiscusso del “farsi prossimo”, ci accompagnino nel cammino:
Ci impegniamo noi e non gli altri,
unicamente noi e non gli altri,
né chi sta in alto, né chi sta in basso,
né chi crede, né chi non crede.
Ci impegniamo
senza pretendere che altri s’impegnino,
con noi o per suo conto,
come noi o in altro modo.
Ci impegniamo
non per riordinare il mondo,
non per rifarlo su misura, ma per amarlo;
per amare
anche quello che non possiamo accettare,
anche quello che non è amabile,
anche quello che pare rifiutarsi all’amore,
poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore
c’è insieme a una grande sete d’amore,
il volto e il cuore dell’amore.
Ci impegniamo
perché noi crediamo all’amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci perpetuamente.
Azia Ciairano
Responsabile Ufficio animazione missionaria USMInazionale
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