Il silenzio & le parole


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Da alcuni anni ho a portata di mano un libro sul silenzio. Ci torno e ritorno. Qua e là ci ritrovo mie sottolineature e segni marginali. Frutto, in parte, della mia sensibilità, dei miei gusti, dei miei interrogativi del momento. Ogni mattina, spesso sul bus, prego i salmi; ne assaporo le parole; mi ci fermo, le confronto l’una con l’altra; cerco di scrutare cosa possono o vogliono dirmi; sono – questo è certo – sostanza saporosa per la mia mente. Vorrei lo fossero per la mia vita. Il ‘parlare’ delle persone, che salgono e scendono, il tintinnio delle ruote di un tram che passa, non mi disturbano affatto. E’ come se ci fosse silenzio. Ma ora, cosa dire sulla ‘parola’; cosa scrivere sul ‘silenzio’ in sole poche righe? Mi trema la mano. Sono termini – l’uno e l’altro – carichi di senso, quasi di mistero, perché di essi è intrisa la nostra vita dall’alba al tramonto.
Sono termini contradditori o, forse e meglio ancora, termini complementari? Ambedue le cose. Il silenzio è un fenomeno complesso, non facilmente decifrabile. E la parola? La parola è anzitutto strumento di relazione. Dovrebbe essere espressione di saggezza; l’esternazione di un sentire profondo, perché anello di congiunzione tra persona e persona, via di comunicazione che esige tutti i valori e tutte le leggi della relazionalità, pur consapevoli che nessuna parola può comunicare l’interezza del nostro essere. Ognuno è ineffabile, inesprimibile nella propria totalità. Scriveva Carlo Bini nel 1833: “La parola è un bel dono, ma non rende la ricchezza del nostro interno; è un riflesso smorto e tiepidissimo del sentimento, e sta alla sensazione come un sole dipinto al sole della natura”.
S. Ignazio di Antiochia scriveva: “Meglio è tacere ed essere che non parlare e non essere”. O, come scrive Susan Sontag – “la parola deve essere scritta solo quando essa è la sola che può essere detta affinché una data significazione venisse al mondo”… Non prima. Ogni parola deve essere detta – o scritta – ma soprattutto detta, soltanto quando essa occupa il posto che le compete, come la persona di cui è espressione.
Ogni parola ‘fuori luogo’ e ‘fuori tempo’ – quella degli altri, ma anche la nostra – fa correre rischi enormi, incommensurabili. Può procurare ferite non facilmente rimarginabili nella persona cui è diretta. La parola detta nel giusto modo e nel tempo idoneo può indurre gratificazione giusta e doverosa; far nascere nell’animo di chi ascolta pace e letizia. E quindi riconoscenza, gratitudine, empatia; si diventerebbe capaci di comprendere immediatamente i mutui processi psichici.
Come dirci, allora? Quali le parole giuste? quando è opportuno il silenzio? C’è un silenzio ‘che ha le stimmate del divino’ e c’è un silenzio uccidente, assassino. Il silenzio pieno e il silenzio vuoto. “Nessuna parola – ha scritto F. Sciacca – è ‘suggestiva’ senza silenzio”. Ma quando il silenzio è così fecondo da produrre una parola gradita, amata, cercata? Quando il silenzio è così maturante che diventa l’habitus in cui la parola spunta sempre profumata? Sono domande urticanti che interessano tutti: persone e comunità. Interessano me, te, la tua e la mia comunità. La persona giovane e quella anziana; l’indigente e il ricco. Pensiamoci, parliamone, con la libertà dei figli di Dio, benvoluti da Lui. Facciamo sbocciare, possibilmente, sempre e ovunque, parole ricche di grazia, profumate…
“Uomo che ami parlare molto, ascolta e diventerai simile al saggio. L’inizio della saggezza è il silenzio”. Lo ha lasciato scritto Pitagora (570 a.C–495 a.C.), circa 2500 anni or sono.
Parola e silenzio, dunque, insieme, ma sempre sotto la ‘scorta’ dell’amore perché nell’amore è condensato tutto il senso della vita.
                                       Sr Biancarosa Magliano fsp
                                      Direttore responsabile

 Il Silenzio è un balsamo e la migliore comunicazione quando ti senti amata e protetta. Il silenzio è la peggiore condanna quando ti senti carente, bisognosa e vuota.
Le parole sono un balsamo ed un suono magnifico quando uniscono come un filo che ci connette e nel quale vengono incastonate tante perle. Le parole possono essere armi di distruzione se hanno lo scopo di dividere, di invertire, di chiudere il filo della comunicazione … E diventano proiettili scagliati alla velocità del suono… che uccidono tutto ciò che vogliono colpire, prima di tutto la speranza e la fiducia.
Noi esseri umani abbiamo entrambe le arti. Le parole sono belle, le parole sono brutte.
Verbum caro fecit.
Le parole entrano nella carne, diventano carne.
Le parole sono cose, ci dice la tradizione ebraica. Dvarim significa ‘cose’ e ‘parole’.
L’atto performativo della parola, ma anche del silenzio. Il silenzio, presenza o assenza. Oppure il silenzio in quanto presenza trascendente, che va oltre le parole e le cose.
Se il silenzio crea imbarazzo, siamo da un’altra parte. Persi nei meandri della nostra mente. Se preghiamo e meditiamo il nostro silenzio diventa un discorso senza parole, un fluire di luce, colori, musica, odori, sapori, carezze…tutti i nostri sensi risvegliati e un tutt’uno con l’universo e il creato.
                                                 Daniela Carosio
                                                 Director Sustainable Equity Value Ltd.

Parola e Silenzio: opposti o complementari? Parole che si sprecano, destinate a riempire pagine di quotidiani letti in treno o in autobus, tra una telefonata e l’altra, divorati con la voracità di chi fa scorrere velocemente quelle parole perché non lascino alcun segno, che serviranno già il giorno dopo ad accogliere in un cartoccio il pesce – questo forse fresco – venduto sul banco del mercato; parole che feriscono e svuotano; parole twittate sgrammaticate; parole taglienti e vuote che sbattono in prima pagina uomini e donne, anche colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. E si avverte la nostalgia di quella parola pacata, costruttiva, capace di rimetterti in discussione, di scuotere le coscienze e far balzare le buone idee.
Un fiume di parole che rimandano al bisogno più naturale: il silenzio. Si riscopre che solo chi sa tacere può veramente parlare. Il vero silenzio non significa una mera entità negativa, tale da rimanere inespressa, ma un comportamento attivo, una commozione fervida della vita interiore, nella quale tale silenzio diviene padrone di se stesso. Solo da questa commossa serenità proviene alla parola quella forza silenziosa che la rende compiuta.
                                         Sr Anna Monia Alfieri
                                        Presidente FIDAE Lombardia

Oggi siamo avvolti e quasi assediati dalle parole, dalle immagini: pensiamo agli auricolari che alcuni hanno perennemente attivi per ascoltare musica, canzoni, telefonate, pensiamo alle immagini televisive o del computer con il quale si lavora e ci si diverte, magari ascoltando musica di sottofondo. Eppure forse proprio per questo assedio sonoro e visivo è ancor più necessario fare silenzio, o meglio essere silenzio interiore, creare cioè quel deserto che permetta di ascoltare non parole (chiacchiere), ma la Parola. La Parola di Dio che nel monachesimo aveva i suoi tempi “dedicati” nella preghiera, nella meditazione, nella lectio divina, oggi trova con difficoltà spazio nella giornata affollata, anche del religioso e della religiosa: ci sono sempre tante urgenze!
Parola e silenzio non si escludono, ma si nutrono a vicenda.
Allora si sente impellente il bisogno di luoghi di silenzio, di tempi di ascolto, oltre quello dedicato ai libri, per sentire quel “silenzio sonoro” del quale parla il profeta Elia a proposito del passaggio di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella liturgia, o per semplice nutrimento personale, è necessario soffermarsi a rileggere con gli occhi, o anche solo con la mente, quanto si è letto o ascoltato, per mettersi in relazione d’amore con il silenzio sonoro di Dio e per tradurre nella vita personale o comunitaria quanto il Signore della Parola suggerisce.
Tutto questo non viene spontaneo, nemmeno ai religiosi, ci vuole un esercizio, un allenamento, una ricerca, un desiderio della Parola che diventi cibo per l’anima e in contemporanea un altrettanto forte desiderio di silenzio per assimilare quanto letto o ascoltato.
Qualcuno avrà bisogno di isolamento, ma si può accogliere la Parola anche in gruppo, purché ci sia il silenzio interiore, cioè l’abbandono di altri pensieri per favorire l’ascolto.
                                       Don Marcello Lauritano
Centro culturale San Paolo

1976, giorni di settembre, Bordano del Friuli, terra di gente ritenuta di poche parole. Dalle viscere dei monti è franato addosso a quel che era rimasto di maggio un silenzio di troppo. Neanche più le campane. In una tenda da campo, decorata a rose optical, tre suore scrivono su fogli imbastiti: …È stata una fortuna vivere con quella gente. Ci siamo sforzate di fare qualcosa: scoperchiare tetti per recuperare tegole, recuperare mattoni, fare pavimenti in tende e cucine, togliere patate…Più di tutto siamo state con loro: parlano sempre della paura che hanno avuto, dei problemi che hanno. Hanno bisogno che qualcuno li ascolti…Dalle foto sembra che fuori, su uno sgabello di legno, il piccolo crocefisso di presidio alla tenda le stia sentendo. Il suo cuore ritorna con la mente in quel carcere di trent’anni prima, assieme al  poeta Hikmet che scrive alla moglie: In questa notte d’autunno sono pieno delle tue parole. Dalla tua testa dalla tua carne dal tuo cuore mi sono giunte le tue parole cariche di te, madre le tue parole, amore le tue parole, amica. Erano tristi, amare erano allegre, piene di speranza erano coraggiose, eroiche le tue parole erano uomini. È tentato di scendere nella tenda e leggere quella lettera anche a loro, per calmare i dubbi sul suo silenzio che sa potrebbero infiltrarsi tra compieta e bruma del mattino, spaccando non solo la terra sotto i piedi. Gli basterebbe staccarsi dalla croce. Ma non vuole: senza, non avrebbe più ragione di stare al campo. Sotto nuvole basse, vicino a filari dai frutti interrotti, con le braccia tese sulla traversa di legno e le reni schiacciate, anche lui affronta il peso della montagna, del tempo del silenzio, dell’umile affidarsi. Perché alla fine quella lettera comunque arriva. Per altre mani, per altre parole, viene letta oggi.
                                             Simona Melchiorre
                                             Responsabile archivio e ricerca storica
                   Istituto delle Suore della B.V. Maria Regina del S. Rosario Udine

Persone affidabili ma non solo a parole.
Ho trovato alquanto irritanti le parole contenute nella “lettera aperta ai giornalisti” scritta da una suora. Dall’alto del suo sentire, invita tutti i giornalisti, a onorare la loro “intelligenza e  dignità scegliendo di servire la verità vera”. Ma come, esiste una verità vera e una verità falsa? E tutta la categoria non usa intelligenza e dignità, o soltanto quelli che lei stigmatizza come insipienti? Penso alla sacralità della parola, da usare sempre con rispetto, soprattutto quando ci si innalza a paladini della verità. La parola va spesa anche per la denuncia, ma la denuncia autentica non fa di ogni erba un fascio, come nel caso della critica mossa ai giornalisti.
Di ben altro tenore è la parola usata da un ethic advisor che si propone di far comprendere a imprese, industrie e agenzie che la comunicazione deve basarsi su alcuni paradigmi etici fondamentali, perché l’etica nella comunicazione può apportare enormi vantaggi anche in termini economici. “Se tu come azienda crei i presupposti per un beneficio culturale del tuo interlocutore, non avrai più bisogno di sedurlo con le raccolte punti o coi pupazzetti in omaggio. Se tu ti mostri rispettoso nei confronti dell’intelligenza delle persone, esse avranno stima verso di te perché ti sei costruito un brand da persona onesta e affidabile” (Pietro Greppi).
I due esempi riportati offrono l’opportunità di riflettere anche sul valore del silenzio. Non di quello dettato dalla musoneria o dal risentimento, ma di quello carico di interiorità, libertà e serenità. Spesso, scegliendo il silenzio di  qualità noi costruiamo una nuova “credibilità” dentro e attorno a noi. E in definitiva, costruiamo i presupposti di una vita buona. La vita del Vangelo.
                                        Cristina Beffa
                                        Giornalista Professionista

E’ di oggi la notizia che l’inflazione “è diminuita”, non so domani, una cosa è certa: a livello di parole cresce inesorabilmente. Si ridicono le stesse cose infinitamente come fossero novità, vedi i TG, i programmi sportivi, i giornali… si parla, si parla, (o si sparla) ma cosa si dice? E per che cosa? È come andare a fare la spesa con tanta moneta ma non si compra quasi nulla perché vale poco, e la paura che un attimo di respiro faccia sfuggir di mano il tempo o impedisca di esserci se nessuno ti sente. Non importa che non si ascolti, sì, perché la parola spesso è fine a se stessa o pulpito di sé.
La parola è suono, è scrittura, ma anche foto, immagine, video, sms … è balsamo che lenisce, forza che stimola la fantasia, che crea rapporti, educa, rasserena. Può essere verità o falsità. E’ veleno, capace di uccidere, accusare, creare conflitto e divisioni. Abbiamo trasformato la potenza della parola in un fluire di parole, in frastuono mentre fuggiamo dal silenzio per paura della solitudine. Abbiamo indebolito quel suono che parla dentro, là dove solo la persona può entrare, là dove Dio attende per parlarci. Il silenzio, che è assenza di parole ma non di voce, è ascolto di ciò che la troppa parola soffoca o non riesce a tradurre. Un silenzio che interpreta e comunica sentimenti, che sa cogliere la parola del vento, il balbettare di un bambino, il discorso di uno sguardo, ma anche un silenzio muto che edifica muri, accusa, distanzia e intimorisce. Saggio è capire quanto dire una parola e quando silenziare, perché il silenzio è il luogo dove la parola diventa feconda. All’inizio era la Parola, quella Parola che nel silenzio di una notte è diventata Carne, la Parola di vita che attende chi l’ascolti, una Carne che alimenta e che nel silenzio di un sacrario attende chi gli parli.
                                     Sr Maria Luisa Gatto
                                    Serve di Maria Riparatrici  Ciconia-Orvieto
                                    g.mluisa@smr.it

Il nostro mondo è strapieno di parole e di immagini. Mai come in questi ultimi anni gli uomini sono stati bombardati da così tanti impulsi uditivi e visivi. Il nostro è però anche il mondo dell’incomunicabilità, del mutismo ostile, dell’analfabetismo emotivo. Chiacchiera e mutismo, infatti, sono entrambi figli dell’alienazione, e genitori di ogni forma di disperazione. E’ urgente perciò riportare le persone innanzitutto al silenzio, lo diceva già Kierkegaard a metà dell’800: se fossi un medico porterei subito le persone a curarsi nel silenzio.
Noi cristiani di conseguenza non dovremmo tanto accumulare troppe parole nei cuori già saturi delle persone, quanto piuttosto prima di tutto aiutarci ad assaporare il gusto dello svuotamento. Solo nel silenzio infatti possiamo re-imparare anche a parlare.
Noi non sappiamo ancora parlare, spesso le nostre parole fuoriescono in modo automatico, sono risposte automatiche, più o meno aggressive, più o meno difensive, ad altre frasi fatte. Ma la vera parola è sempre un atto creativo e libero, uno sgorgare, una rivelazione di ciò che ancora non sappiamo. Solo così comunichiamo veramente vita, e il nostro dire diviene nutriente.
Ebbene questa parola ultrasonica, in cui risuona la Parola creatrice, il Cristo in noi, solo nel più assoluto silenzio del nostro vecchio io può essere ascoltata.
                                    Marco Guzzi
                                    Poeta e filosofo