Mi trovo in un monastero: può esserci un luogo più congeniale per riflettere su “Il silenzio e le parole”? Qui, dunque, in questo grembo fecondo di silenzio che favorisce l’ascolto della Parola e invita a un uso sobrio e vigile delle parole, leggo, senza fretta e sostandovi sopra, i contributi del nostro tavolo virtuale.
E subito colgo, pur nella diversità dei testi, una straordinaria concordanza di pensiero e di sentimenti, a testimoniare che i partecipanti al nostro tavolo hanno indubbiamente riferimenti comuni e ben radicati nel loro vissuto.
Mi sento “una di loro”, in piena sintonia, confermata nelle mie convinzioni ma anche nella consapevolezza che ci vuole «un esercizio, un allenamento, una ricerca, un desiderio della Parola che diventi cibo per l’anima e in contemporanea un altrettanto forte desiderio di silenzio per assimilare quanto letto o ascoltato». È quanto leggo in un contributo che, come altri, mette in stretta relazione il silenzio e la Parola: non possiamo parlare delle “nostre parole” senza riferirci alla Parola di Dio di cui dovrebbero essere eco fedele.
Significativa la pagina su san Domenico che leggiamo nella seconda lettura l’8 agosto, memoria del santo: «Si dimostrava dappertutto uomo secondo il Vangelo, nelle parole e nelle opere. Durante il giorno nessuno era più socievole, nessuno più affabile con i fratelli e con gli altri. Di notte nessuno era più assiduo e più impegnato nel vegliare e pregare. Era assai parco di parole e, se apriva la bocca, era o per parlare con Dio nella preghiera o per parlare di Dio. Questa era la norma che seguiva e questa pure raccomandava ai fratelli».
Un testo illuminante di Benedetto XVI presenta invece il legame inscindibile tra il silenzio e le parole: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. Tacendo si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee. Si apre così uno spazio di ascolto reciproco e diventa possibile una relazione umana più piena» E a conclusione dello stesso messaggio aggiunge che «è necessario creare un ambiente propizio, quasi una sorta di “ecosistema” che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni»(Benedetto XVI, Messaggio per la XLVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione, 2012).
Tutto chiaro e convincente! Ma, ancora una volta, almeno per quanto mi riguarda, devo ammettere che nella vita quotidiana il rapporto sinergico e l’armoniosa corrispondenza tra silenzio e parola non sempre c’è e, comunque, funziona solo a “part-time”. Certo, abbiamo bisogno di creare spazi di solitudine e raggiungere luoghi che favoriscano il silenzio e l’ascolto della Parola per purificare le nostre parole, per dare loro “densità evangelica”, per ri-assumere tutta la responsabilità del nostro parlare e tacere nel dialogo con l’altro …
Ma il rischio non è, forse, quello di vivere questi momenti “altri”, indubbiamente “forti”, come piccole fughe dalla realtà feriale, come occasioni per scrollarci di dosso stanchezza e insofferenza della routine quotidiana e, talvolta, per fare confronti tra realtà di “natura e qualità ben diversa” – il monastero, ad es., e la parrocchia o la famiglia …- a discapito di quella che abitiamo? Sono i nostri “Tabor” su cui vorremmo restare per sentirci meglio “dentro”, mentre dovremmo scendere di corsa per comunicare – nel silenzio delle parole ma con la testimonianza della vita – in mezzo al rumore della “città” e all’indifferenza di tanti, al piccolo grande “caos” che ci abita, alla complessità della vita e nell’incontro con tutti, il dono inestimabile dell’incontro con Gesù e dell’ascolto della sua Parola: un dono ricevuto, gratuitamente, e da ridonare.
Per “tagliare”, definitivamente, ogni nostra lamentazione sulla mancanza di spazi di silenzio, ascoltiamo la voce di Madeleine Delbrêl, una grande testimone di contemplazione e di incarnazione, vissute “sulla strada”, in compagnia delle donne e degli uomini, soprattutto degli “esclusi”: «Il silenzio non ci manca, perché lo abbiamo. Il giorno in cui ci mancasse, significherebbe che non abbiamo saputo prendercelo. Tutti i rumori che ci circondano fanno molto meno strepito di noi stessi. Il vero rumore è l’eco che le cose hanno in noi. Non è il parlare che rompe inevitabilmente il silenzio. Il silenzio è la sede della Parola di Dio, e se, quando parliamo, ci limitiamo a ripetere quella parola, non cessiamo di tacere. I monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessario alla lode. Nella strada, stretti dalla folla, noi disponiamo le nostre anime come altrettante cavità di silenzio dove la Parola di Dio può riposare e risuonare. In certi ammassi umani dove l’odio, la cupidigia, l’alcool segnano il peccato, conosciamo un silenzio di deserto e il nostro cuore si raccoglie con una facilità estrema perché Dio vi faccia squillare il suo nome: «Vox clamans in deserto» (M. Delbrel, Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1988).
In un altro testo sulla solitudine, la stessa Delbrêl ci allerta su un malinteso senso e uso del silenzio e sulla responsabilità del parlare: «Il silenzio non ama la confusione delle parole. Sappiamo parlare o tacere, ma non sappiamo accontentarci delle parole necessarie. Oscilliamo senza posa tra un mutismo che affossa la carità e una esplosione di parole che svia la verità. Il silenzio è carità e verità. Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di noi stessi e non ad un’avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero di noi stessi. “Vi sarà chiesto conto di ogni parola”. Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato. Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrà seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi» (Aa. Vv., La solitudine, AVE, Roma 1966).
I nostri contributi hanno peraltro evidenziato che c’è un silenzio “buono” ma anche uno “cattivo”: usa proprio questi aggettivi anche Sabino Chialà, monaco di Bose, studioso di ebraico e siriaco, in una sua agile pubblicazione che si legge d’un fiato – Silenzi. Ombre e luci del tacere, Qiqajon, Magnano (BI), 2013² – e che propone una riflessione teorica ripercorrendo le testimonianze della Scrittura e l’insegnamento dei Padri e di altri che su questo tema hanno riflettuto, per individuare alcuni criteri che possano guidare nella comprensione del silenzio e nel discernimento della qualità del nostro silenzio.
A conferma dell’intreccio inestricabile tra silenzio e parola, Chialà mette in evidenza la “realtà parziale” del silenzio «nel senso che non è mai un bene in se stesso né un bene assoluto. Esso ha senso solo se coniugato con altro, se collocato nel suo tempo e indirizzato verso un fine che lo supera necessariamente. La parola lapidaria di Qohelet ci attesta questa sua qualità in maniera efficace: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qo 3,7). Al silenzio, dunque, è lasciato solo un tempo, e non tutto gli deve essere sacrificato […] Non è un fine ma uno strumento, e come ogni strumento è utile solo nella misura in cui l’artigiano che ne fa uso ha ben chiaro l’oggetto che intende costruire servendosi di quell’arnese. Proprio per evitare un’assolutizzazione indebita del silenzio, i padri della chiesa, che pure lo esaltano a più riprese, non mancano di relativizzarne l’importanza, ogni qual volta se ne presenti la necessità […] I Padri del deserto ammoniscono: “Abba Isidoro di Pelusio diceva: ‘Una vita senza parola può giovare più che una parola senza vita. Vi è chi, tacendo, è di giovamento; e chi, gridando, infastidisce. Ma se parola e vita concordano, formano una medesima immagine di qualsivoglia filosofia’.
Quindi nessuna assolutizzazione né della parola né del silenzio. Il problema è che silenzio e parola abbiano ciascuno il proprio spazio e, soprattutto, che siano abitati dalla vita, che siano cioè esperienze di vita e non di morte» (op. cit., 13-15). Non c’è, infatti, “il silenzio”, al singolare, ci ricorda Chialà, ma “i silenzi” al plurale. Esistono infinite sfumature del tacere. Alcune generatrici di vita, altre foriere di morte. “C’è silenzio e silenzio – scrive Chialà – anche se esteriormente l’atteggiamento non cambia”. Di qui la l’individuazione di rischi e requisiti che definiscono il “cattivo silenzio” e il “silenzio autentico”.
Sono davvero tanti gli aspetti da approfondire, ma non è questo il compito di una postilla!
Piuttosto vorrei concludere con altre due citazioni di due “maestri” della filosofia contemporanea, Gadamer e Lévinas, che ho trovato in un opuscolo sulla vita religiosa (L. Manicardi, La comunicazione nella comunità religiosa, Qiqajon, Magnano [BI] 2003).
Il testo di Gadamer mette a fuoco la responsabilità del parlare : «La parola pronunciata non è più mia, ma è abbandonata all’udire. Appartiene alla più grande responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a chi la ode» (H. G. Gadamer, La responsabilità del pensare: saggi ermeneutici, Vita e Pensiero, Milano 2002, 57-58).
La responsabilità del parlare non è altro che la responsabilità stessa che abbiamo verso gli altri e verso la costruzione comune che con loro intendiamo realizzare, nella famiglia, nella comunità religiosa, nella società. È la responsabilità di ogni comunità umana. Nella formazione alla comunicazione non-violenta si dice che la parola o è una finestra o è un muro: apre, mette in relazione, favorisce il dialogo o divide, ghettizza, esclude … A proposito Lévinas scrive: «Il linguaggio è universale perché è il passaggio dall’individuale al generale, perché offre le cose mie ad altri. Parlare significa rendere il mondo comune e creare luoghi comuni» (E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka book, Milano 1977, 74).
A questi testi … può solo seguire un pensoso silenzio e un coraggioso discernimento sul nostro “uso” della parola.
“Il silenzio e le parole”: il nostro tavolo virtuale ha avviato una ricerca, ha focalizzato aspetti importanti, ha comunicato esperienze … Ma il tema richiede ancora scavo, indagine, confronti. Soprattutto esercizio personale per comprendere e monitorare, alla luce della Parola, la qualità del”mio” silenzio e delle “mie” parole. Custodire il silenzio è anche proteggere la parola e salvarla dagli abusi che essa subisce.
Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it
Responsabile Ufficio Missioni Usmi Nazionale
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