“Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza significa accettare il rischio dell’assenza”. Lo scriveva Antoine de Saint-Exupéry…. Una affermazione inequivocabile, esperita ogni giorno nella propria realtà vissuta. Parlo, agisco, sorrido, zittisco e spesso – forse più di quanto vorrei – lacero i sentimenti altrui e gli altri stracciano i miei. E’ come un andirivieni multiplo che lacera e si vorrebbe in qualche modo riparare ma, spesso, senza esito positivo. Come scriveva una nostra collaboratrice il tema è parecchio scottante, anzi potremmo dire: rovente.
Di fronte a offese esistenziali profonde che non solo ti toccano, ma ti feriscono nel più profondo del tuo essere, della tua storia, della tua esperienza, si guarisce soltanto con un’altra ferita più profonda ancora, la ferita dell’amore: il perdono. Essa ti investe, ti inzuppa fino alle ossa e ti porta a vivere un’appartenenza reale a chi prima di noi e più di noi, ha perdonato: Cristo dalla croce.
Il perdono effettivamente rende liberi, leggeri; il perdono dato e ricevuto cancella la paura; ma soltanto il forte, il ragionatore è capace di perdonare. Soltanto chi sa guardare lontano, verso l’orizzonte ultimo, sa anche perdonare dal profondo di sé senza reticenze, senza distingui. Il debole si avvizzisce nella tristezza dell’ingiuria, dell’offesa ricevuta; nel chiuso della propria angoscia; il vendicativo può esplodere in gesti disumani e si rende pari, se non peggiore di chi lo ha offeso.
Penso a una autentica liturgia del perdono. Caterina di Russia scriveva: “Più l’uomo sa e più e meglio perdona”. L’abitudine al perdono, spesso richiesta dalle avventure piccole e grandi della vita, diventa necessità. E’ quel fermarsi, indugiare su di sé, rivedere la propria posizione di fronte all’altro, ripristinare valori forse andati in disuso. Urge, infatti, saper perdonare senza suscitare la rabbia della persona dalla quale abbiamo ricevuto l’ingiuria.
“Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto”. Lo ha detto papa Francesco nel primo messaggio dell’angelus del suo pontificato, il 17 marzo 2013.
“Volete essere felici per un attimo? Vendicatevi! Volete esserlo per sempre? Perdonate!”. E’ un consiglio di Henry Lacordaire.
Ad ognuno la sua scelta… Se perdonare – come diceva Oscar Wilde – è il ‘mestiere’ di Dio, chi è chiamato ad essere perfetto come Lui, può soltanto perdonare.
Sr Biancarosa Magliano
Direttore responsabile
Per-dono. Si potrebbe anche scrivere iper-dono: un regalo gigantesco, dalle proporzioni non umane, che arriva per grazia divina. Siamo capaci di perdonare se anzitutto ci sentiamo amati e perdonati dal Signore. Il contrario della rivendicazione ad libitum, dell’imporre le proprie ragioni sempre e comunque: violenza è anche questo voler prevaricare gli altri di default. Ma il perdono, se autentico e profondo, è un cammino non estemporaneo. Un percorso di liberazione interiore segnato dal dolore, dalla pazienza, dal silenzio. Un sentiero lastricato di incontri difficili, di sguardi pesanti e intensi: me l’hanno raccontato alcuni operatori pastorali impegnati nella riconciliazione tra vittime e carnefici. E una madre, che ha perso il figlio massacrato da un pedofilo, mi ha confidato con candore: «Il perdono, se lo si vuole, bisogna chiederlo. L’assassino di mio figlio non me l’ha mai chiesto, neppure i suoi genitori». Eppure lei è incapace di provare odio, rancore. Ha resistito alla tentazione della violenza, del risentimento che le avrebbe mangiato l’anima. Il dolore della perdita sempre in lei, come un lago nei suoi occhi. Ma la sua vita dice nei fatti che ha continuato ad amare, a donarsi. Una forma implicita di non lasciarsi schiacciare e annientare dal male ricevuto. Forse la forma più cristallina di iper-dono e di risurrezione scritta nella carne. A ricordarci che il Risorto continua a voler apparire con i segni visibili delle ferite nel costato, nelle mani e nei piedi.
Laura Badaracchi
Giornalista – Avvenire
Vendetta è una parola in cui si racchiude la parte più egoista e miseramente individualista dell’essere umano. Da una convinzione di offesa, oltraggio, torto che si ritiene aver subito ai danni della propria persona nascono la rabbia, il rancore, il risentimento, la terrificante volontà di voler vedere il proprio nemico piegato e annientato. Chi di noi, pur non essendo forse giunto al parossismo di un odio feroce, non si è mai sentito sopraffatto da sentimenti poco edificanti e astiosi nei confronti di qualcun altro? In questa attitudine così palesemente poco nobile si possono però annidare individualismi molto più profondi. Lotte interiori, autocoscienza e autoconoscenza dalle quali trarre lezioni per provare a rimettersi seriamente in discussione, crescere e maturare nella consapevolezza di voler migliorare il proprio modo di essere, orientandolo sempre al bene.
Il bene si rivolge agli altri così come l’amore ma tuttavia l’armonia delle cose vuole che per potersi stabilire una giusta corrispondenza con il mondo che ci circonda si debba prima di tutto partire da un benessere interiore, da una cura di sé che sappia trasformare la nostra individualità in apertura. Il perdono è uno dei passaggi più luminosi e sorprendenti che il cammino umano può compiere. Passa dalle strade impervie e insidiose dei nostri più deprecabili istinti, tra lo sterile deserto delle tentazioni vinte e l’illuminazione del riscatto in cui germogliano la fede e la speranza. Il perdono è amore edificato, è approdo e traguardo. La sua bellezza si riveste in misura proporzionale degli sforzi fatti per conquistarlo in autenticità di cuore. Oltre alla testimonianza del Vangelo, storie commoventi della letteratura come quelle di Hugo, Dumas, Tolstoj ci insegnano che l’amore profondo si può ergere ad di sopra di una società con i suoi limiti di ingiustizia e al di sopra delle nostre colpe di creature fragili e vulnerabili ed essere conquista ancor più salda e inamovibile se germogliato in contesti di sofferenza e disperazione.
Romina Baldoni
Biblioteca USMI
Ahimè, ahimè, che sangue è questo,
sulla soglia di pietra del sepolcro?
Che sono queste spade insanguinate,
abbandonate, lì, sul pavimento,
in questo luogo di pace?…
Così si lamenta un frate francescano, a Verona, davanti a una tomba di nobile famiglia. Dentro trova quattro ragazzi, tutti morti uccisi di morte violenta: Tebaldo Capuleti, Paride Della Scala, Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti. Un po’ più in là ce n’è anche un altro, Mercuzio Della Scala, assassinato dalla vendetta di Tebaldo, con un colpo a tradimento che si è insinuato sotto un gesto di perdono di Romeo. Morendo, con amara ironia Mercuzio osserva a Romeo che non c’è bisogno che una ferita sia profonda come un pozzo o larga come un portale di chiesa per essere mortale. Anche un graffio di gatto nel punto giusto basterà, non c’è bisogno d’altro. È la linea sottile tra realtà e apparenza, politica delle piccole emorragie diffuse, filo rosso tanto caro ai giochi di certi “saggi” anziani capifamiglia – che solo per comodità qui chiamiamo Capuleti e Montecchi – e contro cui ben poco sembra poter fare il Principe, tutore dell’ordine e della legge. Ma Romeo alla trappola di quel filo rosso confuso nel sangue dell’amico non riesce a darci un taglio netto, anzi ci inciampa in pieno, cadendo di nuovo nella furia cieca della vendetta. Così uccide Tebaldo e anche Paride, che si chiedeva: «La vendetta può dunque crescere oltre la morte?». Che risponderti, carissimo Paride?
È dai tempi di Elisabetta I la Grande che la vostra tragedia fa il giro del mondo grazie al genio di Shakespeare. Noialtri qui, del XX e XXI secolo, più modestamente ci siamo inventati le “giornate della memoria”, soprattutto dopo le tragedie della seconda Guerra dei Trent’anni (1915-1945). Eppure, guardati intorno… Non trovi anche tu ormai insopportabilmente imbarazzanti – per dirla con inglese eleganza – certe fiaccole tenute accese presso i monumenti ai caduti di guerre e terrorismi, ma soprattutto la facilità di poter confondere ancora, dopo tanti secoli e tante presunte lezioni della storia, il lamento di un francescano antico con quello di un suo confratello di Terra Santa di questi ultimi giorni? Non può che essere insopportabile, lontano dall’alibi di una quinta scenografica da teatro elisabettiano e troppo vicino a quel “Miren siempre adelante!” lasciato appena a maggio da Papa Francesco ai ragazzini di Betlemme. Ma a dir così, carissimo Paride, si rischia anche noi di inciampare nel filo rosso… Allora bisogna farsi luce…con quella di ben altro Sepolcro.
Simona Melchiorre
Responsabile archivio e ricerca storica
Istituto Suore della B.V. Maria Regina del Santo Rosario – Udine
Affrontare il binomio perdono/vendetta diviene quasi doveroso in questi tempi di continui conflitti politici in cui ognuno cerca di giustificare le parti in causa. Come è possibile soddisfare le esigenze evangeliche dell’amore ai nemici, del perdonare settanta volte sette, senza venir meno alle esigenze di giustizia dei più deboli, poveri e oppressi, e senza trascurare l’esigenza della carità anche verso i ricchi e gli oppressori? Gesù non è un ingenuo, non comanda la passività, non chiede di rinunciare alla lotta contro il male. Egli vuole mostrare che rispondere al male con la vendetta, fosse anche in nome della giustizia, non trasforma la società umana. Ci vuole il coraggio di porre un atteggiamento innovativo, un gesto creatore. E il perdono rappresenta questa innovazione. Perdonare e accogliere il perdono, spezzare la spirale dell’odio e della ritorsione sono gesti che imitano Dio creatore, rivelano il suo volto originale, manifestano gli effetti della vita nuova che abita in noi.
Ma come possiamo invocare il perdono e la riconciliazione tra i popoli se nel nostro microcosmo facciamo fatica a non coltivare dentro di noi piccoli rancori, sentimenti di odio e di rivalsa? Risuonano allora quanto mai attuali e vere le parole di Etty Hillesum nel suo Diario: “Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale”. E ancora: “Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo”.
Sr Nadia Bonaldo, fsp
Esperta in comunicazione
L’arte del perdono è così difficile, eppure così foriera di gioia e di crescita spirituale. Proprio perché atto di elevazione spirituale che chi ha subito un torto compie in assoluta gratuità, andando oltre il dono e instaurando un nuovo rapporto con colui che gli ha fatto un torto. Non può essere chiesto, né tanto meno imposto. E’ frutto di una scelta, tanto più dolorosa, quanto più foriera di nuova vita. Sottrae la vittima da un rapporto perverso con il proprio carnefice, chiede un distacco da una logica di distruzione tutta umana.
In questo momento in cui tante guerre fratricide stanno tormentando il nostro mondo, ci renderebbe tutto più semplice chiedere alle vittime di perdonare. Israele si difende dai razzi di Hamas. Possiamo considerare la reazione di Israele su Gaza come una auto-difesa, una rivendicazione di autonomia e sovranità. Hamas lancia anatemi di odio e di distruzione di Israele, grida vendetta per i torti subiti, minaccia Israele di distruzione e annientamento. Nel farlo espone i propri civili alla ritorsione del nemico Israele. Israele rivendica con la forza la protezione dei propri civili, li espone però ad un pericolo più subdolo e difficilmente controllabile, quello del terrorismo. Il conflitto sembra però interminabile e si riaccende per ogni scintilla di pretesto. L’unica speranza sembrano le persone che dall’una e dall’altra parte praticano la logica del perdono e rifiutano di vedere nell’altro il nemico.
I cristiani yazidi in Iraq sono l’olocausto innocente di una volontà identitaria e fondamentalista distruttiva di uomini che vogliono rivendicare le proprie origini religiose, politiche, identitarie. Fuggono, ma non sembrano volere manifestare progetti di vendetta. Non sono contro, sono semplicemente.
La vendetta produce spesso vendetta in una infinita catena di massacri e ritorsioni senza fine. L’unico atto che può porre fine alla vendetta è il perdono, attraverso un sacrificio, la rinuncia alla rivendicazione e un atto profondo di libertà.
Il perdono avvicina per questo tanto di più a Dio. Il Dio del Vecchio Testamento viene spesso descritto come un Dio vendicativo, ma anche come un Dio pronto al perdono dei giusti (come perora Abramo prima della distruzione di Sodoma e Gomorra). Il Nuovo Testamento si fonda sull’alleanza, sull’olocausto divino per la salvezza ed il perdono dell’intera umanità. Dunque Cristianesimo come religione del perdono e dell’amore, ma che si innesta sulla tradizione ebraica della giustizia e del rispetto della legge divina.La tradizione buddista dell’illuminazione vede un progressivo ritirarsi dell’io individuale in sintonia con l’io universale per praticare il perdono e prendere congedo dal desiderio di vendetta. Sia nella tradizione cristiana che in quella buddista perdonare richiede un salto di spiritualità notevole, se si riesce a compiere il salto si guadagna la gioia della pace e l’abbraccio con il divino. Non è un cammino facile e gli ostacoli sono sempre presenti nella nostra vita umana. Nel Padre Nostro benediciamo il Padre, chiediamo di sostenerci e invochiamo il perdono del Padre nella misura in cui noi riusciamo a perdonare e di non indurci in tentazione. Si tratta di un atto individuale come dicevo, difficile immaginare un atto collettivo di perdono, richiederebbe un livello molto elevato di spiritualità in tutti i membri di una collettività. Ci auguriamo che questo sia il nostro futuro. Sicuramente il perdono nasce prima di tutto nel nostro cuore e nel riappacificarci con noi stessi, nel chiedere al Padre il perdono, nel volere donarci quella serenità che deriva dalla libertà della tentazione di vendetta. La preghiera è un aiuto importante. Ne abbiamo bisogno come il pane quotidiano, da soli non bastiamo.
Daniela Carosio
Director Sustainable Equity Value Ltd.
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