Quando parliamo di perdono la prima cosa che ci viene in testa è un’offesa, magari una ferita grave, interiore più che fisica, dalla quale è difficile liberarsi, perché inaspettata o troppo pesante, senza pensare a una vendetta o almeno ad uno sfogo umano.
Ma facciamo un passo indietro, come si dice oggi, e chiediamoci come stessero le cose all’inizio della storia umana da Adamo in poi. Là troviamo proprio una violenza e un perdono, pensiamo al peccato originale, e ancor più al peccato di Caino, con Dio che protegge il violento dalla vendetta.
Il codice di Hammurabi sentenziava: “Occhio per occhio e dente per dente”.
Ci potrebbe sembrare una legge barbarica e arbitraria, ma in realtà era già un porre dei limiti alla vendetta, stabilendo esattamente una “vendetta” (cioè una giustizia) equivalente al danno subìto e nulla più, mentre spesso avveniva, e avviene ancora, di esagerare con violenze senza fine.
Gesù cita tale legge del taglione e la supera con il perdono, che non pensa affatto alla vendetta-giustizia, ma al superamento dell’odio verso il violento.
Ma questo perdono è facile e scontato? No, non è affatto né facile né scontato.
La parola è composta in realtà di due parti (“per” e “dono”) dove capiamo subito che si tratta di un “dono”, quindi non dovuto né meritato, gratuito, e dove il “per” vi aggiunge un rafforzativo per significare un dono grande, totale, il massimo dei doni, dono di una vita nuova immeritata.
Mettiamoci sotto la croce di Cristo e ascoltiamo quando dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Gesù non solo perdona, ma scusa pure quelli che lo stanno uccidendo, altro che vendetta! Arrivare a tali altezze non è da tutti, ma ci si può provare con un esercizio che richiede anni di lavoro interiore, oppure una santità notevole, come quella dei primi cristiani, pensiamo a santo Stefano, lapidato e primo martire.
L’esperienza più abituale è quella di una difficoltà e un tormento che può durare a lungo, anche tanti anni, qualche volta una vita intera, senza arrivare ad un effettivo e totale perdono dell’offesa e soprattutto della persona che ha sbagliato, che spesso è un familiare o un “amico”.
Passando all’esame della vendetta notiamo che si tratta di una forza prevaricatrice, cioè di un uso della libertà spesso oltre i limiti consentiti, al punto che anche le parziali e iniziali buone motivazioni diventano in seguito cattive per l’eccesso di forza usata. La casistica può essere infinita sia nel campo fisico, sia nel campo morale, pensiamo alla legittima difesa, che poi non sempre è legittima e adeguata.
Potremmo nuovamente chiamare in campo “Hammurabi” e Gesù Cristo. C’è una vendetta verbale, pesante quanto la violenza fisica, o psicologica (paura). Oggi poi c’è una diffusa paura di quanto possa accadere e paura del futuro incerto: anche questa è vendetta.
Il rispetto delle leggi interiori e delle leggi di vita sociale dovrebbe essere una tutela contro ogni forma di vendetta: sono regole dell’essere umano e regole del buon vivere insieme, dal rispetto della vita al rispetto per la diversità di opinione o di fede.
Verifichiamo una sottile vendetta o violenza contro ogni tipo di diversità, quasi questa fosse un disvalore, mentre è una vera ricchezza, che si tratti di cultura, di razza o di sesso.
In realtà provoca la vendetta il contrapporsi delle violenze e perfino delle diversità, il desiderio di prevalere sugli altri, stimati aggressivi o più deboli, perché hanno un livello di vita non adeguato.
Per evitare la vendetta o la violenza bisognerebbe riscoprire quella virtù cristiana, tanto dimenticata e disprezzata che si chiama umiltà, cioè giusta coscienza di se stessi e degli altri e insieme il riconoscimento di Dio come origine e Padre di tutti “che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa splendere ugualmente il suo sole sui giusti e sugli ingiusti”.
Concludiamo con una frase che ci pare significativa: “Quando perdoni ci si libera di una gabbia nella quale si era prigionieri e ti accorgi che il carcerato eri tu”.
Purtroppo si pensa sempre che dalla parte del torto ci sia soltanto chi ha sbagliato, ma c’è anche chi si sente “giusto” e non perdona: ricordiamo i due fratelli della parabola del Padre misericordioso.
Don Marcello Lauritano
Centro culturale san Paolo
L’offesa può essere una reale ferita inferta alla dignità della persona. A volte basta anche solo una parola per dimenticarci che l’altro è Figlio Amato del Padre, basta anche uno scherzo!
A volte l’offesa può nascere perché siamo diversi e quindi è diverso il modo di comprendere e intendere le parole. A volte l’offesa può addirittura essere inevitabile quando vengono denunciati comportamenti sbagliati, e come Gesù con i farisei, è necessario usare termini forti. Forse per questo è tanto difficile la correzione fraterna in comunità, perché finché non ci si accoglie come capaci di sbagliare, ogni correzione può essere recepita come una offesa.
L’offesa è una porta aperta verso due diverse reazioni: il rancore e/o il desiderio di rivalsa; oppure il perdono.
Non dimentichiamo che le porte del paradiso si sono spalancate per primo al buon ladrone.
Il Cardinale Van Thuân, con il suo amore disarmante è riuscito a convertire le guardie che dovevano sorvegliarlo, tanto che la sua stessa croce di vescovo era fatta del fil di ferro che gli avevano procurato le guardie.
Di offese alla sua dignità, durante gli anni del carcere, ne ha ricevute molte, ma grazie alla sua fiducia in Dio, al corpo e il sangue di Cristo bevuto dal calice della sua mano, ha potuto trasformare le offese in perdono, ossia in amore gratuito che si riversava su tutti, anche sulle guardie che dovevano sorvegliarlo notte e giorno.
L’offesa per il Cardinal Van Thuan è stata porta spalancata verso la vera Libertà, quella di continuare a rispondere con l’amore all’odio e all’offesa. Il perdono è in realtà l’unica arma che afferma la libertà e la dignità più grande che l’uomo possiede: quella di poter amare sempre e comunque gratuitamente.
Non è facile perdonare, ma in realtà Gesù con il perdono ci ha donato l’arma più efficace per riscoprire che la nostra dignità non può essere ferita, perché proprio quando rispondiamo all’odio e all’offesa con l’amore allora riscopriamo la nostra libertà e dignità di Figli Amati del Padre.
Il rancore al contrario ci chiude in una prigione che alla lunga corrode la vita dal di dentro e paradossalmente ci rende ancor più legati alla persona che ha potuto offenderci.
sr Maria Grazia Neglia
Figlie di S. Giuseppe del Caburlotto
Il bisogno di attestare di valere qualcosa a tutti i costi, attraverso l’uso del potere espresso in varie forme, porta l’individuo a rimanere agganciato alla sola rabbia che molte volte paralizza in sé tutti gli altri sentimenti positivi. Il sospetto, l’arroganza, l’aggressività, la prevaricazione, l’accusa, la litigiosità, la competitività, l’egoismo, l’individualismo, il narcisismo spesso sfociano nella violenza, comportamento che rimanda alla difesa esasperata di sé contro qualcuno.
Spesso delegittimando il diritto di esistere nella positività, la persona fatica a rimanere in contatto con la fonte della vita. Solo chinandosi sulla propria storia, nonostante le ferite, le infedeltà, la voragine del non senso, può scoprirsi abitato da Qualcuno che la guarisce, la comprende… Si svela vivente!
Sulla soglia del Mistero trova Dio che l’aspetta da sempre: allora incomincia a provare tenerezza per se stessa, ad apprendere pian piano l’arte del perdono. Nella quotidiana consapevolezza di essere accolta e amata da Dio così com’è, impara a tessere, come Gesù, rapporti fondati sull’amore profondo, che comprende e perdona persino chi ha tradito. Decide di non scagliare mai la prima pietra né su di sé, né sugli altri, sceglie di perdonare sempre.
Sr. Diana Papa osc
Che cosa vorresti fosse fatto a te, che cosa invochi da Dio quando percepisci il tuo limite o prendi coscienza d’essere impregnato di male, d’aver sbagliato? Quale giusto può ritenersi tale e misurarsi con la Giustizia di Dio? Se aspirare alla giustizia è auspicabile, invocare il perdono è molto più conveniente alla nostra condizione umana … Non c’è pace senza perdono.
…Due facce della medesima medaglia con cui ci si ripaga in prima persona, si è ripagati da altri e si può, a propria volta, ripagare l’errore altrui … si sceglie l’uno o l’altra a partire da quello che si è, dalla costruzione della propria personalità.
Se il male nelle sue forme inaccettabili grida vendetta al cospetto di Dio, chi se non Dio può chiederne soddisfazione … Suo Figlio -sulla Croce, per-dono e magnanimità divina, è eccellenza della sua auto-soddisfazione. L’infinitesima miseria dell’uomo e la sua impotenza nel contrastare ogni sorta di misfatto, delitto, oltraggio all’umanità stessa, hanno soltanto due possibilità di risoluzione: il perdono/misericordia o la vendetta/livore autodistruttivo.
Il perdono, dal latino medioevale (in Quintiliano, documentato nel sec. X ) è composto dall’intensivo ‘per’ e ‘dono’. Il latino classico usava in termine condonare, assolvere dalla pena, risparmiare, scusare… gesto umanitario e frutto di elaborazione psicologica, quando educazione al bene e generosità d’animo permettono di superare rancori e risentimenti, esso implica rinuncia a ogni forma di rivalsa, di punizione o di soddisfazione morale e materiale nei confronti dell’offensore suggerita dalla considerazione delle debolezze o delle difficoltà altrui a imitazione di Cristo… (Ef 4,32-5,1). La compassione e una sorta di benevolenza per l’umana condizione spingono a tendere la mano, a tentare di sollevare l’altro per guardarlo negli occhi e offrirgli possibilità di redenzione, a mettersi in ginocchio davanti a Dio e accanto all’altro, riconoscendosi simile a quel ‘fratello’ tanto ricoperto di miseria da sembrare irriconoscibile… La mente, se il cuore geme sotto la croce, chiede la grazia di rialzarsi, offre la sofferenza della prova perché anche l’altro possa comprendere e risorgere. Il perdono, necessita di radicale con-versione, è un cammino di conoscenza del Volto di Dio e dell’uomo, manifesta maturità di fede e di umanità… Nessun cristiano dovrebbe sperare il perdono di Dio senza chiedere scusa al fratello per il male commesso e riparare ad esso (1Cor 11,27)… la gratuità del perdono concesso non esime dall’umiliazione della richiesta esplicita e dalla sincerità della espiazione personale… (Mt 5,23-24).
La vendetta, invece, richiesta di risarcimento immediato, azione di rivalsa, riscatto imposto secondo logiche personali o di gruppo, è generata dal male nascosto nell’intimo dell’uomo… muovendo da remoto desiderio di giustizia sconfina nell’arbitrio, nel sopruso e nella sopraffazione, accettando la tentazione e la provocazione del male, s’insinua tra sentimenti e irrazionalità per trascinare in una vera e propria spirale sino ad assimilare l’offeso all’offensore, addizionando alla sofferenza per il torto ricevuto il tormento della rivincita e delle sue conseguenze: il degrado di sé, della propria umanità, la perdita di ragione, del rispetto e della stima, la rinuncia all’integrità di giudizio, a ponderazione, oggettività e valori comuni (sociali, umani, spirituali). La vendetta è pulsione autodistruttiva, di cui il rancore è occulto coltivatore … attecchisce su terreni di personalità minati dalle ferite, dalla mancanza di amore e di dignità personale e si sviluppa in ambiti deteriorati socialmente e culturalmente, in cui satana – il disgregatore- gestisce anime e interessi… chi rinuncia ad essa ritrova la gioia di una rinnovata liberazione da catene autoimposte, risorge dalle tenebre e risale dagli abissi alla luce, ritrova occhi, coscienza e lucidità per vivere e ricostruire… (Ef 4,7-11).
Concetta Sinopoli
Docente di Bioetica – Scrittrice
Primo Levi, lo scrittore torinese autore di Se questo è un uomo, ebbe a dichiarare a Simon Wiesenthal: “Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un ‘prezzo’ del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa di prima resta, e il prezzo (anche se è ‘giusto’) è pur sempre un’offesa a sua volta, ed una nuova sorgente di dolore”.
Non si possono leggere queste parole senza provare rispetto per chi, dopo aver patito inenarrabili tormenti fisici e morali da parte degli esseri umani, finisce per guardare alla vita con radicale pessimismo.
Del resto, sul piano strettamente “naturale” e “terreno”, ciò che Levi afferma poggia su un solido fondamento di vero. L’oltraggio perpetrato per mera crudeltà dall’uomo contro il suo simile è una peste. Ammorba la convivenza civile generando rancore e odio, che a loro volta producono una discendenza marcia e malata: altra violenza, e poi altro rancore e altro odio; e così via, in una spirale infernale senza fine, senza possibilità di redenzione e di perdono.
Eppure, con tutto il riguardo dovuto a Primo Levi e alla sua tragica esperienza, è innegabile che le sue drammatiche verità prorompono da uno spirito lucido e sofferente il quale, però, non ha incontrato Cristo, soprattutto Cristo sulla Croce. La Croce, infatti, è la sola diga contro cui il Male si infrange e si dissolve. Nel momento più amaro della sua vita terrena, oppresso da indicibili dolori, Gesù si rivolge al Padre e lo supplica di perdonare i suoi carnefici, “perché non sanno quello che fanno”. Apparentemente sconfitto, Cristo – al contrario – “regna dalla Croce”, intercedendo presso Dio per i suoi persecutori e spezzando il vortice diabolico dell’offesa e della vendetta.
Dalle origini fino alla fine dei tempi il Male si è imposto e si imporrà al mondo come una presenza inesorabile. Ma sul Golgota, una volta per sempre, Gesù ha indicato nella Carità il suo eterno rimedio.
Lorenzo Terzi
Archivista e Bibliotecario
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