L’elegia della vendetta
«Un giovanotto è stato accoltellato vicino alla stazione di Napoli da un gruppo di ragazzi del luogo perché aveva l’accento romano. Nel vibrare il colpo gli hanno gridato: “Questo è per Ciro”, con ciò attribuendosi una patente di vendicatori che nei loro codici deve risuonare particolarmente nobile. Ciro è il tifoso napoletano ucciso per strada a Roma da un ultrà. La morte di quel povero ragazzo ha messo in moto il meccanismo tribale che ci portiamo dentro come una maledizione: l’elegia della vendetta. Ce la iniettano a piccole dosi fin dall’infanzia: nei proverbi, nei film e nei telegiornali, che da decenni dedicano uno spazio inesorabile alla faida israelo-palestinese, dove a ogni brutalità segue una brutalità di segno opposto e tutti si sentono giustizieri, mentre sono anche carnefici» (M. Gramellini, Buongiorno, «La Stampa», Torino, 16 luglio 2014).
Fin qui Massimo Gramellini, vicedirettore del quotidiano torinese La Stampa: una sintesi lucida e amara di una situazione in cui tutti, consapevoli o no, siamo immersi, presi anche noi, proprio noi, dentro a quel “meccanismo tribale” che è la vendetta.
La vendetta: un piatto che va servito freddo
I contributi sul nostro tavolo virtuale, senza alcuna esitazione e raggiro, riconoscono nella vendetta il frutto aspro della «parte più egoista e miseramente individualista dell’essere umano». Quando siamo convinti di essere stati colpiti da un’offesa che ha gettato fango sulla nostra persona o di aver subito un grave torto, subito «nascono la rabbia, il rancore, il risentimento, la terrificante volontà di voler vedere il proprio nemico piegato e annientato».
E un altro contributo evidenzia come «il sospetto, l’arroganza, l’aggressività, la prevaricazione, l’accusa, la litigiosità, la competitività, l’egoismo, l’individualismo, il narcisismo spesso sfocino nella violenza, comportamento che rimanda alla difesa esasperata di sé contro qualcuno».
La psicologia insegna che chi subisce – o ritiene di aver subito – un’offesa pensa di curare la sua ferita e di alleviare il dolore vedendo soffrire il colpevole: di qui la ricerca del “come” ricambiare il torto, anche rinviando nel tempo la vendetta. Non a caso un proverbio recita che “la vendetta è un piatto che va servito freddo”.
Fino a quando il desiderio di vendicarsi diviene una vera e propria ossessione: chi lo prova non riesce a lasciarsi alle spalle una circostanza passata, seppur realmente difficile, progetta di dare sfogo alle proprie emozioni negative facendo del male senza preoccuparsene e senza riuscire a vedere la situazione con obiettività e razionalità. Ritiene di doversi fare giustizia a tutti i costi, una giustizia personale e arbitraria. E a volte, purtroppo, si arriva fino alla violenza.
Nella conclusione del libro di Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliegie, pubblicato postumo nel 2008, leggiamo: «Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione. Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono».
Se tutti, da una parte, riconosciamo che «la vendetta produce spesso vendetta e sbocca in una infinita catena di massacri e ritorsioni senza fine», dall’altra affermiamo con convinzione che «l’unico atto che può porre fine alla vendetta è il perdono, attraverso un sacrificio, la rinuncia alla rivendicazione e un atto profondo di libertà».
«Ma il perdono, se autentico e profondo – precisa un contributo – è un cammino non estemporaneo. Un percorso di liberazione interiore segnato dal dolore, dalla pazienza, dal silenzio».
La “via lunga e stretta” del perdono
E sul perdono rimando alla documentata riflessione dei contributi esposti sul nostro tavolo virtuale che hanno riconosciuto nella fede e nelle diverse tradizioni religiose la radice del “vero” perdono, perché «perdonare e accogliere il perdono, spezzare la spirale dell’odio e della ritorsione sono gesti che imitano Dio creatore, rivelano il suo volto originale, manifestano gli effetti della vita nuova che abita in noi».
Per questo ci auguriamo che i credenti, i cristiani, discepoli di Gesù, siano coerentemente inclini al perdono pieno e generoso, oltre il rischio di un perdono piuttosto formale. Perché anche la psicologia allerta che ci vuole chiarezza e consapevolezza d’aver sbagliato per chiedere perdono come per essere perdonati. Ci vuole un senso della verità sufficientemente oggettivo, che vada cioè al di là delle convinzioni personali del carnefice e della sua vittima. Perdonare vuol dire essere coscienti che le cose accadute non possono cambiare, quindi è inutile rimuginare: bisogna raccogliere i pezzi e ricostruirsi di nuovo e meglio, più forti di prima. Solo nell’ottica attiva di andare avanti costruendo dalle macerie si può arrivare a mitigare il dolore associato al ricordo dell’evento doloroso.
Chi perdona certo «ritrova la gioia di una rinnovata liberazione da catene autoimposte, risorge dalle tenebre e risale dagli abissi alla luce, ritrova occhi, coscienza e lucidità per vivere e ricostruire», e, ad un tempo, offre, a chi ha commesso l’offesa, qualcosa di importante come il rispetto e la generosità.
Una testimonianza ci aiuta a penetrare il senso profondo e le ricadute positive del perdono. Siamo in molti a ricordare la diretta televisiva della liturgia funebre di Vittorio Bachelet, il 14 febbraio 1980, due giorni dopo il suo assassinio all’Università di Roma dove insegnava, quando Giovanni, il figlio di 24 anni, nella preghiera dei fedeli disse testualmente: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Molti intuirono che in queste parole sobrie, radicalmente evangeliche, lette con voce ferma e tono mite, si trovava la risposta al terrorismo, quella che tutti cercavano. Qualche anno dopo un ex terrorista condannato all’ergastolo fece arrivare alla famiglia questo biglietto: «La testimonianza che diedero i familiari ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della nostra azione e della lotta armata. Le nostre certezze cominciarono a scricchiolare. All’ora d’aria del giorno dopo nessuno di noi voleva ricordare quel fatto. Poi uno dei nostri capi storici ci provocò sull’episodio e capimmo che tutti, dico tutti, ne eravamo stati colpiti. Quell’episodio segnò le nostre azioni da quel momento in poi».
Perdonare, dunque, non può essere semplice né scontato, neppure per noi! Non è soprattutto immediato. Ma impone un tempo prolungato, una riflessione approfondita, un coraggioso percorso dentro se stessi perché il cuore guarisca e ritrovi la pace, perché la mente si liberi da ogni pensiero di rivalsa o di vendetta.
Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi assassinato il 17 maggio del 1972, in una intervista a trent’anni dalla morte del marito, dichiarava: «Il perdono è un cammino interiore, lungo e difficile, fatto di alti e bassi, ma è l’unica strada. Ho insegnato da sempre ai miei figli a non odiare. L’odio cancella tutto, ti indurisce, ti logora, non ti permette di vivere, di ricostruire. Sarebbe una sofferenza, una tragedia in più. Io invece ho camminato in questa direzione obbligata, anzi potrei dire che sto ancora camminando».
Il perdono, tuttavia, non cancella totalmente il dolore e l’amarezza del passato, perché una memoria guarita non è una memoria cancellata.
Primo Levi, lo scrittore torinese autore di Se questo è un uomo, citato da uno dei contributi, facendo memoria della sua tremenda esperienza nel campo di concentramento, scriveva a Simon Wiesenthal: «Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un ‘prezzo’ del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa di prima resta, e il prezzo (anche se è ‘giusto’) è pur sempre un’offesa a sua volta, ed una nuova sorgente di dolore».
Eppure dobbiamo credere che perdonare ciò che pur non possiamo dimenticare del tutto, determina, nel tempo, un nuovo modo di ricordare più libero e più lieve.
Ma cosa vuol dire perdono?
Rita Borsellino, sorella di Paolo Borsellino, fatto saltare in aria da Cosa Nostra il 19 luglio 1992, nel 2007 ripercorre in uno scritto il suo cammino verso il perdono: «Cosa vuol dire perdono? Ho dovuto misurarmi con questa domanda terribile subito dopo la morte di Paolo. Mentre mi aggiravo tra le macerie della mia casa e dei miei affetti, un giornalista impietoso mi chiese: “Lei perdona gli assassini di suo fratello?”. Mi turbò profondamente quella domanda, mi obbligò a riflettere. Era difficile per me in quel momento anche soltanto prendere coscienza di ciò che stavo vivendo. Mi interrogai sui miei sentimenti e ringraziai Dio di non provare odio nei confronti di chi tanto male mi aveva fatto. Pensavo che il fatto di non conoscere il volto di quelle persone fosse la causa di ciò. E quando l’anno successivo fu catturato Totò Riina, il capo dei capi, e potei vederne le immagini trasmesse dai telegiornali, ancora una volta mi interrogai senza sapermi dare risposta. Fu mia madre, che a 85 anni aveva visto morire il figlio amatissimo e aveva vissuto l’esperienza terribile dell’esplosione, che sussurrò alle mie spalle: “Che pena mi fa quell’uomo”, illuminando i primi passi di quello che sarebbe stato il cammino difficile e bellissimo del perdono. Bisogna mettere insieme la testa e il cuore, bisogna essere capaci di vedere in chi ti ha fatto del male l’uomo, l’uomo con le sue colpe, i suoi errori, ma uomo da conoscere, da capire e alla fine da amare (cfr. Dossier. Storie di perdono, percorsi di riconciliazione, «Missione Oggi», dicembre 2007).
Una testimonianza che non ha davvero bisogno di commenti e che ci riporta alla sorgente del Bene, di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e alla sua immagine impressa nell’intimo di ogni uomo, dell’altro che incontriamo, sia dell’amico e come del nemico: sempre, soltanto e semplicemente un uomo, fatto a somiglianza e immagine del Dio Amore e, per questo, “da conoscere e amare”.
Ci aiuta a concludere il giornalista Gramellini, “immaginando” un gesto di perdono che rompa la spirale delle divisioni, della violenza, della vendetta e ristabilisca “l’equilibrio violato”
«Un po’ ovunque nel mondo, la vendetta viene non solo giustificata, ma considerata necessaria per ristabilire l’equilibrio violato. Chissà cosa succederebbe se una delle due fazioni, in Palestina come più modestamente sulla tratta Roma-Napoli, reagisse all’ennesimo agguato dicendo: “Vi perdoniamo”. Non potremo saperlo mai, probabilmente. Solo immaginarlo. Immaginare la sorpresa della controparte, lo scompaginamento di ogni schema prefissato, la vita che smette di essere un susseguirsi di azioni e reazioni per diventare un gioco diverso, dove l’uomo resiste all’impulso negativo e lo trasforma di segno. Non sarebbe una scelta molto più risolutiva di una banale vendetta, che offre soltanto un pretesto al prossimo oltraggio da vendicare?».
Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it
Responsabile Ufficio Missioni Usmi Nazionale
Commenti recenti