Forza/Debolezza Postilla critica

forza debolezza postilla critica

I contributi arrivati sul nostro “tavolo virtuale” si dipanano tutti attorno a tre motivi di riflessione:

1. forza e debolezza «inestricabilmente unite tra loro». Si tratta di un «binomio esistenziale, indivisibile» che accompagna la storia dell’umanità a cominciare dal conflitto tra i due primi fratelli, che vede il prevalere di Caino, il più forte fisicamente ma anche il più debole perché non sa accettare il proprio limite né la diversità del fratello;

2. forza e debolezza rivisitate alla luce della cultura attuale che attribuisce alla forza un significato radicato nella “logica mondana”, perché è forte chi non fallisce, chi fa carriera, chi ha soldi …: ogni “arrampicatore” è considerato “forte” perché si presenta come un “vincente” che sa raggiungere i suoi fini, giustificando l’uso di qualsiasi mezzo. E la debolezza? Meglio ignorarla o eliminarla perché «nella nostra cultura pare non esserci più spazio per chi è debole, per chi non è in grado di rispettare gli standard stabiliti come efficienti e vincenti»;

3. forza e debolezza colte come «due concetti che evangelicamente si capovolgono, come gli ultimi che diventano primi». La dialettica forza/debolezza porta a riferirsi a san Paolo che non solo riconosce e denuncia apertamente la propria debolezza (cfr 2Cor 12,10), ma soprattutto afferma che è proprio l’accettazione della debolezza e, in fondo, di ogni pretesa di controllare l’avventura della vita, che apre alla manifestazione della potenza di Dio (cfr Ef 1,19). Diceva il card. Martini «forte è colui che sa di essere debole».

Gli spunti sono molti e tutti interessanti. Mi limito a una veloce sottolineatura che colgo da un discorso – tutto da leggere! – che Papa Francesco proprio oggi, 22 dicembre, ha rivolto ai collaboratori della Curia vaticana, in occasione dello scambio degli auguri natalizi. Il Papa ha invitato a un esame di coscienza per confessare i peccati identificati, sulla scia dei Padri del deserto, come «quindici malattie o tentazioni» che rappresentano «un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale».

Due “malattie” – la decima e l’ultima –  possono essere ben inserite come un ulteriore contributo esposto sul nostro “tavolo” perché confermano e precisano come la “forza”, secondo la logica mondana, può camuffarsi sotto le sembianze della sottomissione e del servizio:

«La malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.

La malattia del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. È la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza!».

Nell’introduzione del suo discorso è ancora il Papa a ricordare che Natale «è l’appuntamento con Dio che nasce nella povertà della grotta di Betlemme per insegnarci la potenza dell’umiltà. Infatti, il Natale è anche la festa della luce che non viene accolta dalla gente “eletta” ma dalla gente povera e semplice che aspettava la salvezza del Signore».

 Non so se la scelta del binomio “forza/debolezza” è stata fatta cadere appositamente in questo tempo di preparazione al Natale per invitarci all’unico “confronto” che può svelarci che cosa significa per tutti i credenti la “forza della debolezza”: a Betlemme il nostro Dio si è fatto debolezza.

Tutta la dottrina paolina dell’abbassamento e dell’autoumiliazione di Cristo (cfr Fil 2,7) si condensa nella 3a antifona dei Primi Vespri del Natale: «Oggi il Verbo eterno, generato dal Padre prima dei secoli, ha umiliato se stesso, per noi si è fatto uomo mortale». La nascita di Gesù non può che sconcertare i grandi, i sapienti e i farisei, insomma i “forti” di tutti i tempi, ma si rivela in tutto il suo significato ai semplici, che come i pastori di Betlemme, sono, nella loro debolezza, disponibili e generosi o agli autentici “cercatori di Dio” che, come i Magi, scrutando i “segni della natura”, seguono fiduciosi la luce di una stella, aperti anche al confronto con la sapienza rivelata per vedere colmata la loro attesa.

Dalla “grotta” di Betlemme al Calvario la missione di Gesù è stata sempre all’insegna di questa logica. Non ha fatto della sua esistenza un continuo atto di debolezza consegnandosi al Padre, in ogni momento della vita,  attraverso la consegna agli uomini?

Certo non è facile accogliere il suo mistero di debolezza da parte di chi crede che la presenza salvifica di Dio nella storia debba passare per la via della forza e della potenza, piuttosto che per la “via stretta” della piccolezza e fragilità.

Pastori o magi – con chi potremmo identificarci? – anche oggi, possono incontrare Dio soltanto inginocchiandosi davanti alla mangiatoia di Betlemme e adorandolo nascosto nella debolezza di un bambino.

Bonhoeffer, il pastore luterano tedesco impiccato nel 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg, diceva che «Dio ci ha salvato in virtù della sua debolezza e non della sua onnipotenza». Ma possiamo anche dire che ci salva non solo in virtù della sua debolezza, ma anche della nostra, perché la nostra debolezza è la porta aperta attraverso cui Dio ci raggiunge e opera in noi.

C’ero anch’io il 7 aprile a Roma, nella parrocchia di San Gregorio Magno, quartiere della Magliana, a incontrare con le mie consorelle Papa Francesco in visita pastorale. Nel salone parrocchiale,  lontano dalle telecamere, ha incontrato ex tossicodipendenti, ex alcolisti ed ex detenuti assistiti dalle cooperative sociali attive nella parrocchia, rivolgendo loro una sua parola significativa: «Dove pensate che si trovi Dio, in chiesa? No, si trova nelle vostre debolezze».

Anche noi, oggi, solo riconoscendo la nostra debolezza e vincendo la paura di manifestarla, riusciamo a scoprire quello struggente “bisogno” di salvezza che ci porta a lottare contro le nostre autosufficienze, certi, come recita il prefazio III del Natale, che «la nostra debolezza è assunta dal Verbo».

E questo ci basta! Buon Natale.

Azia Ciairano
Responsabile ufficio animazione missionaria USMI nazionale