Mi affaccio ancora alla storia. Alla storia di or sono molti millenni. Quando il primo uomo, dopo aver già vissuto l’avventura della scienza e della tecnica dando il nome ad ogni essere vivente, di fronte ad un altro essere – molto diverso dai primi – tratto dalla sua costola – disse: “Questa volta è ossa delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché dall’uomo fu tratta”. Tutti gli elementi esigiti da un incontro vero: il riconoscimento dell’identità altrui, dell’alterità, della diversità, di un essere che ha un’origine differente dalla propria e l’accoglienza senza veti e senza discriminazioni. E’ uno sguardo amorevole, rispettoso, attento, che, mentre ammette il presente, apre al futuro, alla speranza, alla relazione. L’apparire di questa donna è una vittoria sulla solitudine; i dolori, le gioie, gli interrogativi non appartengono più a una sola persona; saranno nel cuore di ambedue, in una simbiosi perfetta.
E da allora incontri e – cosa che non avvenne nell’eden – scontri a non finire. A tutti i livelli dove è presente la persona umana con le sue potenzialità e le sue negatività; le sue verità da offrire e la capacità di accogliere le verità altrui; la sua capacità di attenzione, cautela, ascolto e quant’altro… in sintesi la sua capacità di amare e di servire al bene, alla giustizia, alla bellezza…
Papa Francesco ha denunciato più volte i molteplici volti dello scontro: critiche, lamentele, invidie, arrivismi, gelosie, parzialità. Per la Vita Consacrata egli – cultore della ‘cultura dell’incontro’ e che ha parlato de “la ‘mistica’ di vivere insieme” nella sua Lettera Apostolica auspica e ne precisa i dettagli.
“Mi aspetto inoltre che cresca la comunione tra i membri dei diversi Istituti. Non potrebbe essere quest’Anno l’occasione per uscire con maggior coraggio dai confini del proprio Istituto per elaborare insieme, a livello locale e globale, progetti comuni di formazione, di evangelizzazione, di interventi sociali? In questo modo potrà essere offerta più efficacemente una reale testimonianza profetica. La comunione e l’incontro fra differenti carismi e vocazioni è un cammino di speranza. Nessuno costruisce il futuro isolandosi, né solo con le proprie forze, ma riconoscendosi nella verità di una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla malattia dell’autoreferenzialità”.
Ma giungere a una vita vissuta nella quotidiana disponibilità all’incontro non è a portata di mano. Urge fare un allenamento di ascesi o, anche, di ascesa:
“Voglio amarti senza aggrapparmi a te,
voglio apprezzarti senza giudicarti,
voglio essere con te senza invaderti,
invitarti senza comandare,
averti senza sensi di colpa,
criticarti senza incolparti,
aiutarti senza insultarti,
se posso avere la stessa cosa da te,
allora possiamo veramente, incontrarci
e arricchirci reciprocamente” (Eric Berne).
sr Biancarosa Magliano
Direttore responsabile
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Non c’è alcun dubbio che la nostra civiltà sia urgentemente pressata a passare a forme sociali sempre meno belliche e sempre più relazionali.
Potremmo anzi definire il nostro tempo proprio come l’epoca di una svolta antropologica che ci sta facendo transitare da modalità preminentemente belliche di vivere le nostre identità (sessuali, sociali, nazionali, politiche, o religiose che siano), a forme tendenzialmente più relazionali, e quindi dallo scontro all’incontro, come regime portante delle relazioni interumane.
Stiamo comprendendo che la nostra tendenza istintiva alla difesa e all’attacco sorge quasi sempre da antiche paure, che ci chiudono in assetti psico-culturali a riccio, nei quali l’altro ci appare di per sé come un pericolo da contrastare o al massimo come un mezzo da asservire ai nostri scopi.
Tutto ciò è indubbio, ma non dobbiamo dimenticare che esiste un secondo pericolo nel nostro itinerario verso la verità e la giustizia, oltre a quello della tendenza bellica istintiva.
Ed è l’illusione di poter sempre evitare qualsiasi forma di scontro, l’idea, molto alla moda, che se saremo sufficientemente buoni e pacifici, non ci saranno più guerre o conflitti sulla terra.
Ebbene dobbiamo dirci con chiarezza che questa è una pericolosa illusione, è anch’essa in realtà una forma di difesa psichica, determinata da pavidità, da ipocrisia, o da pigrizia, che ci porta spesso a nasconderci e ad alienarci, non meno di quanto faccia la difesa aggressiva.
No, oggi più che mai, dovremmo ricordarci che a volte è proprio la santità che scatena gli scontri più duri, come Gesù ci ha mostrato.
A volte, se tu sei pacificato e saldo nella tua pace, troverai proprio per questo opposizioni di vero odio, e dovrai affrontare scontri di inaudita violenza.
In tal senso Gesù è, come sempre, estremamente realistico: ci insegna a non farci alcuna illusione, a sapere che siamo agnelli in mezzo a lupi, ad essere innocenti come colombe ma anche astuti come serpenti, a stare molto attenti cioè a chi offriamo le nostre perle, e a ricordare sempre che i discepoli della verità sono odiati e perseguitati regolarmente, e portano spesso la divisione tra le persone, perfino dentro le famiglie.
Chi non è più disposto ad uccidere, diceva Gandhi, deve essere disposto a morire.
Chi vuole la pace, deve essere disposto ad affrontare ogni tipo di scontro.
Dimenticare questa parte del problema, significa uscire dalla concretezza e dalla complessità della vita.
Un pericolo di ideologismo, magari pacifistico o buonistico, oggi purtroppo sempre più diffuso e politicamente corretto.
Ma nessuna ideologia pacifistica e nessun moralismo ipocrita ha mai costruito un solo rapporto per davvero pacificato.
Marco Guzzi
Saggista Scrittore
Papa Francesco parla spesso della necessità di una cultura dell’incontro, contrapposta a quella antitetica dello scontro. Tutt’altro che scontato, l’incontro autentico implica un coinvolgimento, il guardarsi negli occhi, il contatto dei corpi, la sintonia delle anime, l’accoglienza nel volto. E poi, sì, anche parole che esprimano empatia. Ma nell’incontro, come pure nello scontro, il linguaggio non verbale mi sembra cruciale, decisivo, ancor prima delle parole. Silenzi che esprimono la decisione di andare verso qualcuno o di respingerlo. O di ignorarlo, che equivale a considerarlo invisibile. L’incontro, per essere tale, esige un rapporto paritario e uno sguardo paritetico nella relazione. Non si può incontrare un’altra persona guardandola dall’alto verso il basso o aprendo le braccia in maniera paternalistica. Nell’incontro dico a chi mi sta di fronte, con il linguaggio verbale e non verbale: «Ecco, è un dono per me poterti conoscere, condividere del tempo con te, spartire un pezzo della mia vita proprio con te». Quanto sarebbe liberante riscoprire la bellezza dell’incontro vero, di relazioni autentiche.
Laura Badaracchi
Giornalista Avvenire
Una storia che la diresti apocrifa per questi giorni, se le solite task forces di Babbi Natale, scesi con luci psichedeliche e fameliche a caccia del bambino che è in te, non ti facessero venire così tanti dubbi sulla canonicità di certi palinsesti natalizi.
Una storia intercettata per caso in una sera di Tempo ordinario, su un canale di documentari natura-avventura per bambini: all’inizio qualche brivido da schizzinosa, ma alla fine una luce che mi balugina ancora sul cuore.
Una storia della notte, profonda e scura al punto giusto per ospitare una possibilità da cercare, e abbastanza perché una buona torcia elettrica possa far luce tanto quanto quella famosa stella, cometa, supernova o congiuntura planetaria che fu, sul confine sottile tra atteso e inaspettato.
Una storia in una palude tropicale dell’Indonesia, con un uomo e un serpente (e un paio di zecche). Ma eccola: l’uomo, arrivato fino in Estremo Oriente, non è un astronomo, né un astrologo e neppure un astronauta. Non segue stelle, né tracce di re. Di professione fa l’erpetologo: cerca e studia rettili. Cioè, è uno che, evidentemente, non solo non si accontenta di ciò che di solito si dice dei serpenti, ma che per conoscerli meglio sceglie di incontrarsi spesso e volentieri con loro faccia a faccia, mettendo in conto il rischio del confronto: con alcuni potrebbe essere scontro fino al rischio della sua vita. In questo caso, cerca il suo serpente di notte. Si muove con prudenza. Muove la torcia con discrezione. Si spinge tra le mangrovie. Nella palude cerca un serpente quasi mitologico. Tuttavia, su un albero, avvista intanto un altro tipo interessante, nottambulo e serpente anche lui, già noto e studiato, ma sempre meritevole di attenzione. L’erpetologo infatti non lo esclude dalla sua ricerca, anzi. Con movimenti esperti lo avvicina, lo ammira stupito, entusiasta lo fotografa, appassionato lo documenta. Il serpente, che rivela colori sgargianti, soffia un bel po’, gli fa capire che potrebbe attaccarlo, i denti scintillano nell’oscurità, ma non va oltre con i suoi convenevoli. L’erpetologo invece sì, lascia perdere per un attimo la polaroid, prende in mano la creatura e gli parla. E la creatura si dondola, si attorciglia, a suo modo corrisponde. Poi lo studioso riappoggia la creatura sul ramo. Ed è allora che con la sua torcia getta luce sulla permeabilità di certi confini, e ci dà una lezione in più, inaspettata, di quelle magistrali, quando la conoscenza diventa comprensione. Succede che quell’uomo nota qualcosa che insidia il serpente: sono due zecche ben piazzate dalle parti della coda. Mostra seria preoccupazione e non ci pensa un attimo: con mano tanto precisa quanto pietosa, libera dalle infestanti e mortifere ospiti quella creatura inconsapevole del pericolo che sta correndo e dell’aiuto che sta ricevendo, salvandole la pelle (almeno fino al prossimo attacco). Poi, soddisfatto e felice come un bambino, l’erpetologo con un colpetto buffo fa il solletico al serpente e lo lascia alla sua mangrovia, mentre lui prosegue la ricerca del gigante mangiauomini. Da scommetterci che se lo incontra è capace di togliere le zecche e fare il solletico anche a lui.
Esplorare alle radici del cuore umano, come si può esplorare tra radici di mangrovie, dove l’unico scontro ammissibile è quello contro le nostre paure, le nostre pigre ignoranze e i nostri pregiudizi: è così che si può lasciare che questa storia di presunti nemici per la pelle ci balugini sul cuore la sua luce di comprensione e misericordia, per orientare ogni incontro da tempo ordinario come un’Epifania.
Simona Melchiorre
Responsabile archivio e ricerca storica
Ist. Suore della B.V. Maria Regina del S. Rosario – Udine
Lungo questi mesi Papa Francesco ci ha introdotti nella “cultura dell’incontro” invitando proprio noi che ci definiamo cristiani a rifuggire la “cultura dello scontro”. Infatti non si è cristiani a tempo, bensì nella misura in cui ci si sa incarnare nella storia, negli eventi, nella società come quella novità che sa rileggere la storia di ogni uomo. Così ha fatto Gesù.
Le differenze – che spesso ergiamo a valori che alimentano la contrapposizione – al contrario sono e restano i luoghi e il tempo del confronto e dell’incontro.
«L’importante – sottolinea Francesco – è non cedere alla tentazione dello scontro, respingere ogni violenza. E’ possibile dialogare, ascoltarsi, progettare insieme e in questo modo superare il sospetto e il pregiudizio e costruire una convivenza sempre più sicura, pacifica ed inclusiva».
La cronaca ci consegna barconi intercettati con uomini stipati come oggetti e sfruttati da loro connazionali senza scrupoli; consiglieri comunali che ricambiano la fiducia degli elettori sfruttando proprio i luoghi della povertà – campi rom e sbarchi – per speculare; appalti viziati; cittadini sempre più tassati ormai alla soglia della povertà, perché il danaro pubblico non basta mai, dovendo riempire le tasche personali dei governanti… Ma la domanda è sempre la stessa: “in chi riporre la propria fiducia?”
Di conseguenza rischia di esaurirsi l’opzione favorevole dell’incontro e si cede all’incontrovertibile necessità dello scontro, alimentando lo spazio del conflitto e della povertà.
Eppure l’onesta esperienza e la riflessione pacata ci dicono che solo nell’incontro le cose che facciamo in scienza e coscienza sono irreversibili e costruiscono una società più giusta ed equa.
Sono convinta che sia importante tanto dentro la Chiesa quanto fuori, nella società, superare lo scontro a favore dell’incontro… Dentro, perché dobbiamo essere capaci di parlare l’uno con l’altro, ascoltando e favorendo il dialogo. Il senso del dialogo non va rintracciato in chi “vincerà”, ma nel fatto di camminare insieme. È un aspetto fondamentale nella Chiesa di oggi, una comunità dove c’è tanta varietà e dove si corre il rischio di polarizzarci, ritirandosi nei nostri gruppi. Ma la Chiesa può essere un modello anche per la società, diventando testimone del dialogo, dell’incontro e dell’accompagnamento. Dobbiamo ammettere che la società è molto divisa, ad esempio per quanto riguarda la politica e l’economia; la gente non si parla, twitta. È molto importante invece che tutti gli adulti – cioè le persone mature disposte a pagare di persona… – si assumano la responsabilità di quello che dicono e che fanno per il bene comune. Questo significa non chiuderci nelle nostre cerchie ristrette, nei nostri piccoli cenacoli, nei quali ci sentiremo auto-giustificati dalle nostre posizioni. Dovremmo invece procedere sempre ponendoci la domanda: “Come può la mia associazione, il mio gruppo, lavorare insieme con le altre associazioni per questo concreto bene comune?”. Tanto più se il nome di “cristiano” spunta dal biglietto da visita.
A noi la sfida dei coraggiosi, di chi si impegna a favorire l’incontro, soprattutto quando scomodo.
Sr Monia Alfieri
legale.rappresentante.ICL@marcelline.it
Nelle relazioni tra persone, anche quelle della stessa famiglia, ciò che fa la differenza tra incontro e scontro, è la capacità di ciascuno di mantenere la porta aperta all’altro e alla sua diversità.
Ma l’apertura suppone la fiducia nell’altro nonostante la sua diversità e originalità e, in certo modo, esige di essere disarmati e indifesi rispetto all’altro. Se c’è questo, sia nell’andare d’accordo, sia negli inevitabili disaccordi e divergenze di idee e di comportamenti si realizza l’incontro vero, altrimenti la relazione si trasforma in uno scontro più o meno manifesto.
Lo scontro, infatti, non si realizza necessariamente con azioni e reazioni violente palesi. A volte basta alzare il muro del silenzio e rendere, così, un incontro, scontro. È scontro anche rimanere ancorati alle etichette con cui classifichiamo l’altro a partire dall’idea che abbiamo su di lui/lei, per cui, anche se facesse “miracoli” nei miei confronti, io rimarrei granitico nella mia idea su di lui e allora, anche se apparentemente ci fosse un incontro, in realtà, nel profondo, la mia chiusura rende la relazione uno scontro.
La grazia dell’invito a perdonare, di cui Gesù ci fa dono è, in fondo, la capacità di disancorarci da una relazione negativa per aprirci alla possibilità che l’altro possa essere “nuovo” nei nostri confronti e nei confronti delle situazioni in cui vive. È un dare all’altro la possibilità di essere diverso da me, e la possibilità di riconoscere il bene che c’è nell’altro al di là dei miei pregiudizi su di lui/lei, per giungere a costruire incontri veri e fecondi.
Di fatto ogni incontro vero è fecondo, perché permette di far nascere nuove visioni della vita e di riconoscere i tanti volti della Verità.
Sr Mariagrazia Neglia
Suore di san Giuseppe Caburlotto
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