«In medio stat virtus» è la nota sentenza latina che mi è venuta in mente mentre leggevo i vari contributi del nostro “tavolo virtuale” sul binomio incontro/scontro: la ‘virtù’ posta tra due estremi che o sono da evitare o, almeno nel nostro caso, sono da monitorare perché non entrino in collisione.
Vogliamo creare una sentenza “ad hoc”, sia pure in un latino un po’ “maccheronico”?
«In medio stat dialogus!».
«Il dialogo – ho letto recentemente in un articolo di giornale – è incontro di persone, è incontro e scontro di idee, è il meglio e il più di una vita associata, dinamica e relazionata. Il dialogo sbroglia e salva insieme». C’è ormai tutta una letteratura sul benessere, gli stili sani di vita, la cura di sé e delle relazioni, che propone vari metodi per trasformare gli scontri in grandi opportunità di crescita reciproca attraverso l’esercizio del dialogo che aiuti a riconoscere le molte sfaccettature e le differenze che caratterizzano ogni persona e a farle dialogare tra loro in modo consapevole, senza aggressività né paura.
Dialogo: parola molto usata e anche “abusata”, ma anche parola-chiave per costruire, custodire, alimentare e rinvigorire ogni relazione tra un “io” e un “tu”, tra un “noi” e “gli altri” …
Il dialogo, allora, come il “luogo” in cui si prende coscienza del significato dell’incontro, che cresce e si consolida in un reciproco scambio di parole e di gesti che, mentre confermano le differenze, favoriscono anche un percorso verso la condivisione e la comunione di intenti e di progetti. E nel momento in cui l’incontro rischia di trasformarsi in uno scontro, il dialogo diventa il mezzo più efficace per affrontare la situazione conflittuale, individuarne le cause, cercare insieme le soluzioni.
Il premier Matteo Renzi, il 13 gennaio u.s., nel discorso all’Europarlamento, per la fine della presidenza italiana della Unione europea, diceva che «la parola chiave non è conflitto e scontro, è dialogo e incontro».
Si ripresenta qui l’eterno incontro-scontro tra il dialogo come espressione civile, culturale, politica e religiosa ed i suoi nemici più agguerriti e violenti: l’intolleranza, il fanatismo, il dogmatismo.
Ma detto così, sembra che incontro e scontro siano irrimediabilmente antitetici tra loro, considerati l’uno il contrario dell’altro, come si afferma anche in più contributi. E spesso «li si vive in questa accezione: si evita di cercare l’incontro per paura che finisca in uno scontro e, viceversa, per evitare lo scontro, si rinuncia all’incontro».
«E se invece – continua lo stesso contributo – concepissimo l’incontro/scontro come due facce della stessa medaglia? Non cioè un binomio, ma un’esperienza che per essere positiva deve contenerle tutte e due».
A ragione un contributo mette a fuoco come «“incontro” e “scontro” fanno riferimento alla medesima area di significato. Ambedue i termini indicano un “movimento verso l’altro”: con una valenza positiva, o almeno neutra, nel caso di “incontro”; con accezione negativa, di “conflitto”, nel secondo caso. È pur vero che non è possibile scontrarsi se prima non ci si è incontrati. Ed è anche vero, purtroppo, che scontrarsi sia la reazione più facile da manifestare a seguito di un incontro».
Un altro contributo evidenzia che «c’è sempre un “contro” in ogni incontro: uno stare di fronte che può anche irritare, deludere, ferire. Eppure la vita fiorisce ogni volta così, quando non ci si nasconde la realtà altra dell’altro. Il quale non è lo specchio del nostro narcisismo, ma una prospettiva unica sul mondo, è appunto davvero altro, non catturabile».
Mi sembra interessante quanto Mons. Joseph Cupich, neo-arcivescovo di Chicago, ha detto nel corso di un’intervista apparsa il 15 novembre 2014 sul sito del quotidiano La Stampa, nella rubrica “Vatican Insider”, a proposito della cultura dell’incontro: «Credo che la cultura dell’incontro, continuamente richiamata dal Papa, sia importante tanto dentro la Chiesa quanto fuori, nella società. Dentro, perché dobbiamo essere capaci di parlare l’uno con l’altro, ascoltando e favorendo il dialogo. Il senso del dialogo non va rintracciato in chi “vincerà”, ma nel fatto di camminare insieme. È un aspetto fondamentale nella Chiesa di oggi, una comunità dove c’è tanta varietà – e Chicago è un esempio – e dove si corre il rischio di polarizzarci, ritirandosi nei nostri gruppi. Ma la Chiesa può essere un modello anche per la società, diventando testimone del dialogo, dell’incontro e dell’accompagnamento. Dobbiamo ammettere che la società è molto divisa per quanto riguarda la politica; la gente non si parla. È molto importante che tutti gli adulti si assumano la responsabilità per il bene comune. Questo significa non chiuderci nelle nostre cerchie ristrette, nei nostri piccoli gruppi, nei quali ci sentiremo auto-giustificati dalle nostre posizioni. Invece dovremmo trovare un modo per lavorare insieme per il bene comune. Dunque, io penso che sia dentro che fuori, la Chiesa deve promuovere la cultura dell’incontro e dell’impegno».
Un linguaggio e una proposta che evocano e amplificano il magistero di Papa Francesco e che certamente interpellano con forza anche la vita consacrata in questo anno “speciale”: l’impegno a promuovere e a tradurre in gesti quotidiani, che profumano di vangelo, la “cultura dell’incontro” come impegno a debellare la “cultura (o anticultura?) dello scontro” ha una traduzione immediata e visibile nella vita fraterna a cui siamo chiamati come religiosi e religiose.
Quando il 7 novembre u.s. il Papa ha incontrato i partecipanti all’assemblea della CISM, in un passaggio del suo discorso, senza usare giri di parole, ha esortato i superiori ad «aiutare la Chiesa a crescere per via di attrazione, senza preoccuparsi di fare proseliti», a fare «fruttificare» il proprio carisma ed essere modello di fraternità «nella diversità» per tutta la società.
Alcuni termini sono evocativi del nostro confronto su incontro/scontro e suggeriscono come viverli anche nella missione pastorale della chiesa: la “preoccupazione di fare proseliti” può innescare un meccanismo di scontro tra civiltà, religioni, persone, per questo si deve «aiutare la Chiesa a crescere per via di attrazione», proponendosi come modello di fraternità «nella diversità». L’incontro, nel momento in cui le diversità si affermano, rischia sempre di passare allo scontro e soltanto un dialogo aperto, voluto, sincero può attutire i colpi e riportare armonia. Una fraternità nella diversità si costruisce ogni giorno nell’incontro ma anche nell’accettazione di uno scontro diretto che ci mette “a nudo” e ci costringe a uscire da noi stessi: il coraggio del dialogo, della parola scambiata per comprendere la ragione dell’altro, è la “via regia” per ricomporre i conflitti. E “la quiete dopo la tempesta” diventa un’esperienza vissuta, avvolta dalla luce di un lampo (l’incontro), ferita dalla scarica elettrica accompagnata dal tuono (lo scontro) e rallegrata dalla comparsa in cielo dell’arcobaleno bello di tutti i suoi “diversi” colori (il dialogo che ricuce e rinnova la fraternità evangelica).
Con quel suo linguaggio espressivo, a cui ci siamo allenati, il Papa, con sano realismo, ha allertato sul rischio che minaccia la fraternità e indicato una via di soluzione che passa dallo scontro all’incontro, attraverso un momento di dialogo “diretto”: «Per favore, che non ci sia fra voi il terrorismo delle chiacchiere. Cacciatelo via! Ci sia fraternità! E se tu hai qualcosa contro il fratello, lo dici in faccia … Alcune volte finirai ai pugni, non è un problema: è meglio questo che il terrorismo delle chiacchiere». Ogni commento è in più!
Una parola che faccia sintesi può dircela Michel de Certeau, citato in uno dei contributi del nostro tavolo virtuale: «Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro. Bisogna dunque, non una volta ma ogni giorno, rinunciare alla comoda convinzione che “si può sempre intendersi”, e uscire dai meandri sentimentali grazie ai quali si sperava di nascondere sotto certe frasi e certe precauzioni la realtà degli altri».
Anche a de Certeau, l’ideale della “vita fraterna in comune” è particolarmente caro, di quella vita in cui l’esperienza dell’incontro con gli altri stimola l’accettazione dei limiti della propria particolarità e nutre il desiderio dell’incontro con l’alterità e la sorpresa di Dio. Accettando di lasciarsi cambiare, ognuno può imparare a diventare più libero, ma anche più solidale con gli altri, con i quali costruirà, «l’unione nella differenza».
Un impegno esigente “mai senza l’altro” e “mai senza il confronto-scontro con la differenza dell’altro”. Provarci per credere!
Azia Ciairano
Responsabile Ufficio Animazione missionaria
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