DI CHE COSA STIAMO PARLANDO?
Vogliamo la verità … fuori la verità … facciamo luce sulla verità … dimmi in faccia la verità, cinema-verità … ci sono verità occultate … la verità viene sempre a galla …
Potremmo continuare all’infinito, tanto è usato e sfruttato il termine “verità” nel nostro linguaggio quotidiano, quando tentiamo di comprendere o dimostrare ciò che è vero in assoluto o relativamente a determinati fatti. E quasi sempre la “verità” è intesa come una meta da raggiungere: una meta chiara e definitiva. Un punto fermo, immutabile, appagante.
Ma di che cosa stiamo parlando? Perché prima ancora di addentrarci nel binomio servi/padroni della verità, dobbiamo intenderci sul significato che diamo alle parole e su quale intendiamo “zumare”.
Dalla lettura dei contributi mi sembra prevalga l’attribuzione di un senso decisamente positivo al termine “servo” contrapposto a “padrone”; infatti «il servo della verità nel senso più bello del termine cammina alla sua luce e, umilmente, si lascia da essa condurre. Rifugge dal sentirsene padrone: espressione che richiama possesso, manipolazione, dominio quasi fosse lui a definire la stessa verità». E ancora «Servizio, una parola che racchiude un tesoro di straordinaria potenzialità: servizio è azione, è ricerca, è vitalità; è cammino verso la realtà, verso l’altro, innanzi tutto verso se stessi. Al contrario, pensare di essere padroni di una verità a misura di uomo ci rende ‘fissati’ e autoreferenziali e ci porta fuori strada, mentre la verità ci si mostra come un processo organico, come una rivelazione continua, entro la quale la creatività umana svolge un ruolo da protagonista».
Ecco un piccolo ma significativo “puzzle” degli interessanti contributi esposti sul tavolo virtuale che ci introduce in un approfondimento della verità come processo, cammino aperto e mai concluso, ricerca appassionata più che presuntuoso possesso.
Scriveva Einstein negli anni ’50: «A mio avviso ogni uomo è libero di scegliere la direzione del proprio sforzo e di trarre conforto dalle meravigliose parole di Lessing secondo cui la ricerca della verità è più preziosa del suo possesso» (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino 1965).
E a proposito della “direzione da dare al proprio sforzo”, che è impegno generoso e determinato di cercare la verità, ho riscoperto un testo di Elio Vittorini, scrittore del ‘900 che si è distinto anche per una impegnata “militanza” culturale: «Io non ho mai aspirato “ai” libri, aspiro “al”‘ libro, scrivo perché credo in “una” verità da dire, e se torno a scrivere non è perché mi accorga di “altre” verità che si possono aggiungere, e dire “in più”, dire “inoltre”, ma perché qualcosa che continua a mutare nella verità mi sembra esigere che non si smetta mai di ricominciare a dirla. C’è una questione di vita o morte nel giro del nostro mestiere. Si tratta di non lasciare che la verità appaia morta. Quello che non deve mai venir meno è il nostro sforzo di intrattenerla, comunque, tra noi uomini. E anche l’errore può essere questo sforzo. Anche l’abiura e l’apostasia. Ma se mancasse, per un tempo, questo nostro sforzo, noi avremmo perduto ogni bisogno di averla. L’avremmo vista com’è da morta sulla faccia dei nostri ultimi antenati; e non vederne che questo, il caduto, il finito, senza poter sentire insieme com’è in noi la sua vita ci renderebbe annoiati di essa, e indifferenti ad averla ancora, a cercarla ancora» (E. Vittorini, Prefazione a “Il garofano rosso”, Mondadori, Milano 1948). Il “mestiere” dello scrittore ha, dunque, a che fare con una “questione di vita o morte”: tocca al narratore “non lasciare che la verità appaia morta” ma piuttosto impegnarsi, anche a costo di sbagliare, per “intrattenerla tra noi uomini”. Se sentiamo la “vita della verità” pulsare in noi, ne siamo attratti e continuiamo a cercarla.
Tento di commentare e approfondire il testo di Vittorini con una citazione, certamente “altra”, che porta la firma del Papa emerito Benedetto XVI ed è tratta da una riflessione rivolta ai suoi ex allievi riuniti a Castelgandolfo per un seminario estivo (2 settembre 2012):
«Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi. Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo “non-avere-la-verità”. Come nessuno può dire: ho dei figli – non sono un nostro possesso, sono un dono, e come dono di Dio ci sono dati per un compito – così non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra».
LA VERITÀ SI DÀ A NOI COME UN CAMMINO E UNA VITA
Benedetto XVI conferma, dunque, che non siamo possessori della verità, ma piuttosto afferrati da “lei”: un pronome personale che ci rimanda alla Persona di Gesù. Come, infatti, non fare memoria della autorivelazione di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6)?
Gesù è il rivelatore del Padre agli uomini, non perché comunica ad essi una verità astratta su Dio, ma perché egli stesso, con le sue parole e le sue opere, riflette e illustra la realtà di Dio e la trasmette mediante il rapporto personale che instaura con i suoi discepoli. In un’udienza generale (15 maggio 2013) Papa Francesco, riferendosi alla domanda di Ponzio Pilato – «Che cos’è la verità?» – evidenziava come Pilato non fosse riuscito a capire che “la” Verità era davanti a lui e a vedere in Gesù il volto della verità, che è il volto di Dio.
Infatti, la Verità, che, nella pienezza dei tempi, «si è fatta carne» (Gv 1,14), è venuta in mezzo a noi perché noi la conoscessimo. Per questo la verità non si afferra come una cosa, la verità si incontra. Non è un possesso intellettuale ma un incontro con la persona stessa di Gesù, pieno di grazia e di verità.
Nel magistero di Papa Francesco sono davvero molti i riferimenti al nostro intrigante “binomio”, ma almeno su uno vale la pena portare la nostra attenzione per convincerci – se ce ne fosse ancora bisogno – di rinunciare a farci “padroni” della verità per orientare tutto il nostro impegno a farci “servi” e “servi-discepoli” della Verità: «la verità si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita». La citazione è tratta dalla lettera di Papa Francesco – pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’11 settembre 2013 – che, rispondendo a precise domande di Eugenio Scalfari sulla “questione seria” della fede, richiama con forza che l’enciclica Lumen Fidei – di cui Scalfari aveva pubblicato una sua presentazione sul quotidiano – non solo vuole «confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi – come Scalfari – si definisce “un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth”».
Un passo della lettera è specialmente “in tema” con la nostra riflessione:
«… (lei) mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa».
Alla lettera del Papa, il giornalista Scalfari risponde il giorno dopo con una affermazione che si conficca come spina pungente nella coscienza di noi credenti: «Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell’uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d’argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spezzano i vasi d’argilla».
I “vasi di piombo” non potremmo identificarli con le nostre “povere” ma presuntuose certezze con cui troppe volte, anche nelle espressioni più feriali della nostra vita e delle nostre relazioni, abbiamo umiliato e spezzato “vasi d’argilla” che pure contenevano domande serie, nostalgia di una Verità- Persona, di un incontro personale con il “figlio dell’uomo”?
Ma cedo alla tentazione di citare un altro “mix” di brevi pensieri dell’allora card. Jorge Bergoglio raccolti in una antologia di scritti sull’educazione, redatti tra il 2008 e il 2011 (J.M. Bergoglio, La bellezza educherà il mondo, EMI, Bologna 2014). Un contributo da esporre in bella vista sul nostro tavolo virtuale!
«Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale». Ma, avverte il Papa, «la verità è sempre ‘ragionevole» e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma ‘logos’ che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice». E ancora: «La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice ‘possesso della verità’ rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa». Un testo su cui è davvero utile sostare per liberarci da ogni tentazione di “farci padroni” della verità … E perché non leggere il libro per intero?!?
FARE LA VERITÀ …
«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»: così Gesù nel dialogo con Nicodemo (Gv 3,19-21).
Prendo spunto dagli appunti di una lectio tenuta dal biblista don Bruno Maggioni, per “non concludere” ma tenere aperta la nostra riflessione. Il testo del Vangelo ci dice che non è Dio che ci giudica, ma siamo noi che ci giudichiamo. E il giudizio non è soltanto un fatto futuro, ma presente: giorno dopo giorno ci costruiamo tenebra o luce, ciechi o vedenti. E le tenebre possono divenire così fitte da essere poi impermeabili alla luce. È come di un uomo che resta chiuso a lungo, in una stanza buia; posto di fronte alla luce del sole, chiude gli occhi accecato. Si è abituato alle tenebre e non sopporta la luce; si è assuefatto alla menzogna e non comprende la verità.
Nell’animo dell’uomo che opera il male può stabilirsi una tale connivenza con la menzogna che la verità viene rifiutata proprio perché verità. È ciò che Gesù dirà ai Giudei (Gv 8,45): «Poiché dico la verità, voi non mi credete; se dicessi parole menzognere, quelle che voi volete sentire, mi credereste». Il Vangelo è convinto che l’agire condiziona il comprendere. Chi ha il disordine in casa non apre la finestra, perché non vuole che le sue opere cattive vengano smascherate. Chi fa il male vuole giustificarlo. Demolisce la verità e la deride. Si difende. Gesù dimostra di essere un profondo conoscitore del cuore dell’uomo. Ha ragione: solo una vita corretta permette di aprirsi alla verità. Per scorgere la verità – non una verità qualsiasi, ma una verità che impegna la vita, come la verità religiosa o sociale o politica – non basta l’intelligenza: occorre la pulizia del cuore e molta libertà.
Si noti la precisazione delle parole di Gesù. Non dice: chi cade nelle tenebre, ma chi «ama» le tenebre. Il verbo amare indica amore, preferenza, attaccamento, scelta consapevole. Non è dunque semplicemente questione di fare il male, perché può accadere anche di fare il male per debolezza, quasi un incidente che però non denota una scelta di fondo. Non è questo che impedisce di giungere alla verità. Gesù pensa invece a coloro che amano la menzogna, la scelgono, la giustificano con ragioni apparentemente plausibili. Un’altra precisazione: Gesù dice «fare la verità». Non conoscere, ma fare. E questo perché la verità di cui Gesù parla non è un complesso di idee da imparare, ma un progetto di vita da vivere, facendoci servi-discepoli di Gesù “via, verità e vita”.
«Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi» (M. Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi, Milano 2012). Una paura che il giornalista Gramellini smaschera, una paura che può assalire anche noi, inducendoci a isolarci e cercare rifugio nei “vasi di piombo” di convinzioni costruite a tavolino, mentre la verità si svela nell’incontro e si nutre di dialogo.
La “questione” rimane aperta e induce a continuare la ricerca della verità. Con umiltà e fiducia.
Azia Ciairano
Responsabile Ufficio Animazione Missionaria
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