giugno 23, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
La delegata di Azione Cattolica per le beniamine aveva un gran libro per la Messa e da quello ci leggeva in italiano ciò che il parroco diceva all’altare voltandoci le spalle. In
alto sull’arco dell’abside c’era, ed è tutt’ora lì, il dipinto di un Agnello in piedi, con il nimbo crociato, sgozzato, il suo sangue è raccolto i un calice; ha anche una bandiera da vincitore. Ho compreso dopo molti anni quanto fosse bella quella immagine tratta dal Libro dell’Apocalisse che congiungeva la terra al cielo.
Il libro di Ninetta era un messalino di quelli che cominciavano a circolare negli anni ‘50 del secolo scorso per l’impegno dell’Azione cattolica e sulla scia della riforma liturgica cominciata da papa Pio XII. La Messa era detta “dialogata” poiché cominciavamo a rispondere e dialogare con il celebrante. Il Vangelo e le altre letture ci venivano lette in italiano mentre il celebrante le leggeva in latino sottovoce. Cominciò lì la mia avventura con la Liturgia; guardando quel librone mi dicevo: chissà quando potrò averne uno. Ripensandoci mi è venuto in mente quanto il papa Francesco ha detto in questi giorni in una omelia: quando il Signore affida una missione, prepara la persona per essa.
Quando entrai tra le Pie Discepole avevo appena terminate le elementari, la mia voglia di imparare era insaziabile. In Cappella, tra i libri che leggevano le suore trovai un volume intitolato: l’Anno Liturgico, l’Autore era un benedettino francese, Prospère Gueranger che, seppi dopo, fu, nell’ottocento, un grande attore del Movimento liturgico e abate di Solesm.
La domenica le suore che erano giovani, tanto disciplinate e facevano lunghe prove di canto, cantavano la Messa in gregoriano, avevano un grande libro: L’Usualis, in cui c’erano Canti di ingresso, Antifone e Salmi per tutte le domeniche e feste dell’anno con la musica gregoriana. Imparai così testi indimenticabili, alcuni introiti che tornavano ogni anno: la prima domenica di Avvento, Natale, Pasqua, alcune domeniche particolari. Ci vennero dati anche i messalini delle edizioni paoline con il testo latino e la traduzione italiana accanto e allora potevamo capire ciò che si cantava, inoltre le nostre maestre ci facevano piccole meditazioni proprio sui testi della liturgia del giorno, spesso sulle antifone, le orazioni, i graduali.
La liturgia ci andava formando.
Quando ero Novizia a Roma era in corso il Concilio Ecumenico Vaticano II, evento che, ora mi dico, valeva la pena vivere solo per aver vissuto quel Concilio! A Natale il dono di Gesù Bambino fu la Costituzione liturgica e il Decreto sui mezzi di Comunicazione, i primi documenti prodotti dal Concilio. Avevamo una santa e simpatica suora che ci teneva le lezioni di liturgia spiegandoci una marea di rubriche ma, dato ciò che accadeva intorno, io intuivo che la liturgia doveva essere altra cosa. Al termine del Noviziato ci chiesero di scrivere che cosa ci saremmo sentite di fare; io scrissi testualmente, per quel che potevo caprie a 16 anni: “Studiare liturgia per insegnarla agli altri”! Poteva sembrare un atto di presunzione. Spesso ci penso, la missione era già scritta dentro, ci si nasce, penso. La strada fu lunga: ci fecero frequentare il liceo per avviarci ad essere forse futuri medici di una clinica per sacerdoti, poi dopo la maturità mi mandarono all’Università cattolica per iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza. Frequentai contemporaneamente l’Istituto superiore di scienze religiose che era nella stessa Università, per conoscere il Signore, la sua Parola, la liturgia, l’insegnamento e la storia della Chiesa. Il professore di storia della Liturgia era Mons. Enrico Cattaneo che insegnava anche alla facoltà di Lettere ed io non mi persi nessuna delle sue lezioni. Imparai così l’affascinante storia del Movimento Liturgico che era confluito nel Concilio e così aveva potuto produrre la Costituzione liturgica ed avviare la più grande riforma liturgica della storia della Chiesa. Terminate tutte queste cose fui mandata all’Ufficio liturgico del Vicariato di Roma. Ero circondata da maestri buoni che spesso potevo consultare per dare risposte a chi si rivolgeva al nostro ufficio. Era Cardinale Vicario Ugo Poletti, un Pastore buono che fece di Roma una Diocesi unita. Egli conosceva e visitava tutte le parrocchie. Era fiero in particolare di una cosa: aver portato le suore negli uffici del Vicariato, a quel tempo eravamo in nove, impegnate nella catechesi, nella carità, nelle missioni, nella liturgia …
Il mio capoufficio fu Mons. Luca Brandolini, il primo italiano laureato al Pontificio Istituto Liturgico di Roma a Sant’Anselmo, fondato nel 1961, aveva svolto la sua tesi di laurea su Ludovico Muratori uno dei precursori, come Rosmini, del rinnovamento della liturgia. P. Luca appartiene alla Congregazione della Missione fondata da San Vincenzo de’ Paoli per la formazione del clero e l’evangelizzazione dei poveri, era confratello ed amico di Mons. Annibale Bugnini suo grande amico e maestro che in quegli anni fu Segretario del Consilium per l’esecuzione della Costituzione liturgica e quindi Segretario della Congregazione per il Culto divino. Di Mons. Bugnini sarebbe lungo dire; in comunione con il papa Paolo VI, lavorò intensamente per attuare il Concilio, guidando la revisione di tutti i riti sacramentali, in particolare del Messale e Lezionario, sino alla Liturgia delle Ore. Soffrì molto ma fu un servo fedele, buono e generoso.
In Vicariato, il nostro Ufficio si chiamava: “Centro pastorale per la liturgia e i sacramenti”. Era stato appena costituito con questo aspetto pastorale e il nome era un programma anche se si doveva sempre mettere insieme il fatto che i sacramenti sono poi liturgia! Mons. Brandolini, dalla mente aperta e con coraggio, mi spinse a studiare e specializzarmi nella Liturgia dato che un altro prete non ce lo avrebbero dato in Ufficio. Egli, finché poté, fu anche parroco il che giovava non poco alla credibilità dell’applicazione della riforma che cercavamo di accompagnare nelle parrocchie. Cominciammo a curare i Ministri straordinari della Comunione che il Cardinale Poletti definiva una rete di carità che poteva giungere dove preti e religiosi non potevano, portando la Parola, l’Eucaristia, la carità e la presenza della Chiesa nelle case di malati e anziani. Poi venne la volta del Centro dei Ministeri presso la chiesa di San Teodoro al Palatino, il Cardinale ripristinò il Diaconato permanente e un bel gruppo di giovani uomini divennero Accoliti e Lettori istituiti. Nella formazione ci aiutò molto Il Pontificio Istituto Liturgico con il Corso di Liturgia Pastorale che noi del Vicariato sostenemmo ad ogni costo. Nel frattempo, un po’ per volta frequentai, lavorando e studiando, la specializzazione e raggiunsi la licenza in Sacra Liturgia al Pontifico Istituto Liturgico S. Anselmo. I professori dell’Istituto ci aiutarono generosamente ad organizzare incontri di formazione anche per presbiteri in particolare sul Lezionario e l’Omelia. Inventammo anche la pubblicazione di un agile foglietto di informazione e formazione che chiamammo “Liturgia Culmine e fonte”, esiste ancora oggi ed è un consistente e bel mensile curato dall’Ufficio liturgico di Roma.
In quegli anni tra il 1975 e metà degli anni ’80, accompagnammo l’applicazione della riforma liturgica nelle circa 315 parrocchie di Roma, oggi forse sono di più. Nel frattempo aiutammo anche altre Diocesi in Italia con convegni e incontri, abbiamo collaborato con l’Ufficio liturgico nazionale ed altri organismi come il Centro Azione Liturgica (CAL) e l’Associazione dei Professori di Liturgia.
Nel 1984 le mie superiore mi affidarono la Rivista “La Vita in Cristo e nella Chiesa”, un mensile di liturgia fondato dal Beato Giacomo Alberione ed edito da noi Pie Discepole. Lasciai l’Ufficio liturgico di Roma per avere, come dire, uno sguardo sulle Chiese d’Italia. Alcuni maestri, amici e collaboratori ci hanno aiutato in questi anni a spaziare su tutti gli argomenti, in primo luogo a presentare la Parola di Dio spiegando il Nuovo Lezionario, poi l’iniziazione Cristiana in particolare la Messa, gli altri sacramenti, l’arte in tutte le sue forme compreso il canto e la musica, i paramenti, l’arredo delle chiese, i ministeri… Accanto alla Rivista numerose altre iniziative ci hanno fatto anche viaggiare in molte Diocesi italiane, organizzare corsi di formazione per lettori, sacristi, per religiose insieme all’USMI nazionale.
Tutto questo personalmente mi ha impegnata a studiare sempre, ad essere credibile perché i destinatari del nostro servizio potessero fidarsi in maniera assoluta del nostro insegnamento. Per questo il confronto con tanti professori e teologi è stato continuo. Con umiltà mi pare di poter dire di aver contribuito, con le mie sorelle, a far entrare e a far amare la liturgia della Chiesa in tante parrocchie, case religiose, monasteri a favore di diaconi e molti, molti, laici e laiche che ne hanno tratto tanto beneficio spirituale. Accanto alla liturgia e per una maggiore verità ed efficacia, per anni ho studiato la Bibbia anche sulla terra di Gesù per quel poco che ho potuto.
Personalmente oggi essa è la luce più grande, per essa ho compreso meglio, in particolare la Messa, che è stata la realtà cui ho dedicato più tempo. Ho imparato che la liturgia non è esterna alla nostra persona ma è la nostra stessa vita, tutta data, consegnata, come quella di Gesù.
Non c’è un istante della nostra esistenza che non sia culto a Dio anche quando dormiamo in obbedienza al nostro essere creature. Tutto è donato. Chi impara la liturgia non si appartiene più; essa è poca cosa, è fragile. E’ come l’Incarnazione, scandalizza e appare stoltezza, ma è sapienza di Dio.
In questi ultimi anni mi sono trovata spesso ad insegnare come disporre fiori nelle nostre chiese, cosa che offre l’occasione per insegnare la liturgia, tutta; ebbene, mi pare
che questa piccola arte ci aiuti ad entrare in maniera bella e forte nel Mistero di Dio, nella mistica della liturgia, poiché ricostruendo il giardino dell’incontro nuziale con Dio, con Gesù risorto, si può condurre il popolo, sposa del Signore, alla comunione sponsale con lui, in attesa delle nozze eterne.
La Liturgia ci accompagna dalla nascita alla morte, ci fa desiderare le realtà di cui è anticipo e segno e quando ci ha introdotti ci lascia: là essa non ha nulla più da dire perché la realtà subentra al segno. E la Realtà è molto più bella del segno; non ci sarà più, per esempio, l’Eucaristia, perché le Nozze si compiono, non sono più soltanto caparra e promessa.
Ascoltando gli inviti di papa Francesco, sento di poter dire davvero che per me le periferie esistenziali sono tutti coloro che non sanno cosa sono i sacramenti, non sanno partecipare alla Messa, non sanno cosa sia la cresima, il matrimonio, l’unzione sacra, il sacramento del perdono… Ne ho tante attorno a me di queste periferie, sono tanto vicine, mi chiedono di uscire ogni momento, tutto il giorno!
Sono immensamente grata al Signore per avermi fatto l’onore, direi dalle prime ore della mia giornata, di lavorare nella sua Vigna, la sua Chiesa Santa, a servizio del popolo di Dio sacerdotale e proprio perché esso sapesse vivere come Gesù, nostro unico Sacerdote, a gloria di Dio Padre, nello Spirito Santo.
Sr M Cristina Cruciani, pddm
giugno 4, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Recentemente il Centro Studi USMI ha pubblicato un bel libro che raccoglie la storia di “religiose coraggio” (Francesco LAMBIASI, Innamorate e felici. Dieci storie di donne consacrate). E’ un libro che si legge con gusto e con commozione perché trasuda vita, dedizione, sacrificio, gioia.
Non è però del libro che vorrei parlare (anche se ne consiglio vivamente la lettura), ma del titolo, che mi ha subito affascinato. “Innamorata e felice” vorrei che fosse il titolo da dare alla mia lunga vita che sta per varcare la soglia dei cinquant’anni di professione religiosa.
Cinquant’anni. Quanti! E quanta grazia! Quanti doni! Ma anche quante fragilità e pigrizie… tutte farina del mio sacco, ma che mi hanno aiutato a fare quel cammino interiore (il più lungo della mia vita) che sto ancora percorrendo fin che Dio vorrà. Arrivata a 76 anni si sente che l’ultima tappa è vicina e se ne intravede l’orizzonte, si ha bisogno di più fede, di più preghiera, di più solidarietà… per non avere paura.
La mia vita religiosa si è snodata, dopo il periodo della prima formazione iniziale e degli studi, in tre tappe: l’insegnamento e le responsabilità accademiche per circa 40 anni e il servizio al Dicastero per la vita consacrata per circa otto anni. Ora, da circa un anno, sono a Concesio (Brescia) nella casa Natale di Paolo VI.
La prima lunga tappa della mia vita a contatto con studenti laici e religiosi di tutto il mondo nelle Pontificie Università e Facoltà romane (l’Auxilium in primis, poi l’Università Salesiana e il Claretianum) è quel “primo amore” che uno si porta dentro come ricchezza e che non si dimentica mai. Ancor oggi, quando entro in una Università mi sento a casa e saluto tutti i giovani che incontro, come se fossero i miei studenti di un tempo. Qualcuno di questi certamente avrà pensato: “E chi è questa che ci saluta e noi non l’abbiamo mai vista? Ma io questi giovani li ho visti e li conosco perché me li porto nel cuore sempre come don Bosco. Mi ricordo di una sua frase che ho fatto mia: “Basta che siate giovani perché io vi ami”.
Io credo molto nella scuola, nell’università come palestra di formazione di vita. Papa Francesco, in Piazza S. Pietro, ha detto recentemente a 300.000 studenti: “Non facciamoci rubare l’amore per la scuola”. E ancora: “L’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa, o arricchisce o impoverisce, o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, del bene e del bello”. “E questo – ha spiegato – avviene attraverso un cammino ricco, fatto di tanti ingredienti. Ecco perché ci sono tante discipline! Perché lo sviluppo è frutto di diversi elementi che agiscono insieme e stimolano l’intelligenza, la coscienza, l’affettività, il corpo”.
Da Salesiana educatrice non posso che sottoscrivere pienamente queste parole. Grazie Papa Francesco!
Quanto mi ha arricchito anche il contatto con religiose o laici/laiche educatrici, innanzitutto nella mia comunità e poi nei diversi Paesi del mondo: Italia, Europa, America Latina, Medio Oriente, Estremo Oriente… A tutto questo vanno aggiunti le Settimane sociali dei cattolici italiani, i Convegni della Chiesa italiana, il Sinodo di Roma e i Sinodi dei Vescovi, gli incontri al Ministero della Pubblica Istruzione e tanto altro. Un impegno a 360 gradi e con gioia sempre. Quanta fiducia mi è stata data e quanta responsabilità da parte mia! Signore, perché a me?
Quante volte sono partita con la valigia in mano e le “sudate carte” in borsa per offrire conferenze ed esperienze frutto dei miei studi e delle mie riflessioni… Ho vissuto – fino a un anno fa – in una comunità internazionale e ho appreso a valorizzare le risorse delle diverse culture. La solidarietà dell’Africa, la profonda spiritualità dell’Oriente, la dedizione ai poveri che caratterizza i popoli dell’America Latina, la forza propositiva e missionaria dell’Europa e dell’Italia, la terra più bella del mondo… Vivendo a contatto con persone di culture diverse si conosce maggiormente la propria cultura e si impara ad apprezzare ciò che è diverso, si resta stupiti di fronte alla magnanimità di Dio che arricchisce dei suoi doni tutta l’umanità e vuole che ci doniamo reciprocamente questi doni.
Poi, all’improvviso, è venuta la chiamata di Giovanni Paolo II. La nomina mi ha colto di sorpresa. E’ proprio vero che Dio non finisce mai di stupirci con le sue sorprese, che sono sempre grandi atti di fiducia, anche quando non siamo in grado di capirlo subito. Ho ubbidito con fede e fiducia e lentamente ho imparato a vivere questa nuova obbedienza.
Don Bosco e Madre Mazzarello ci hanno insegnato ad amare la Chiesa, l’hanno amata e servita con tutte le proprie forze e noi Figlie di Maria Ausiliatrice siamo chiamate a percorrere le loro orme. Ogni giorno, andando in ufficio e attraversando la Basilica di San Pietro, mi soffermavo a guardare il quadro di madre Mazzarello e la statua di don Bosco (che casualmente sono posti l’uno di fronte all’altro) e chiedevo loro di darmi quell’amore alla Chiesa e al Vicario di Cristo che ha caratterizzato la loro vita e li ha portati a spendersi totalmente e con gioia per l’educazione dei giovani, in particolare dei più poveri.
Il mio servizio nella Congregazione per la Vita consacrata è stato un gesto di fiducia del Santo Padre non solo nei miei riguardi, ma verso il mio Istituto e uno stimolo per ogni Figlia di Maria Ausiliatrice a rinnovarsi nella fedeltà al Vicario di Cristo e nell’adesione sincera e generosa ai suoi insegnamenti.
Ogni nomina, ogni chiamata, ovviamente, comporta una responsabilità. E noi donne religiose dobbiamo farci apprezzare proprio per il senso di responsabilità, per la serietà, la competenza, l’impegno serio e costante nel lavoro, la cordialità e l’accoglienza e in primis, ovviamente, per la fedeltà al Magistero e la consapevolezza che ogni nomina significa la richiesta di un servizio di evangelizzazione. Dobbiamo essere testimoni credibili e gioiose del Signore nel nostro servizio, immagini trasparenti di Lui sempre e ovunque.
Quanto ho goduto della vicinanza al Santo Padre, del servizio diretto alla sede Apostolica! Dopo San Giovanni Paolo II, c’è stato Benedetto XVI. Un grande Papa, il quale, forte della mitezza evangelica – come ha scritto Padre Piergiordano Cabra (uno dei miei maestri, che ho ritrovato qui a Brescia, operoso come mai, nonostante il grave male che lo affligge) – ha invitato ripetutamente i consacrati alla parresia, al coraggio e alla franchezza di servire il Signore che dà la sua gioia a coloro che lo seguono. Una parresia non contro qualcuno, ma per testimoniare l’amore di Cristo e per Cristo. Egli stesso ne ha dato un chiaro esempio, annunciando la verità senza fanatismi, propugnando la fede nel rispetto della ragione, promovendo la gioia senza chiudere gli occhi sulle miserie umane. E rinunciando al momento opportuno.
Un’altra cosa vorrei dire riguardo a questo periodo della mia vita. Fin dal momento della nomina, prima ancora che fosse pubblica, iniziai a guardare le religiose e i religiosi, le monache e i monaci e tutti i consacrati e le consacrate con un altro occhio. Con uno sguardo preferenziale, con il cuore, come si fa coi membri della propria famiglia, con le persone care, con i propri amici.
Certo, questo nuovo servizio cambiò radicalmente la mia vita. Mi mancava la convivenza quotidiana con gli studenti e con le giovani religiose. Mi mancava la mia comunità (che per me era la più bella del mondo, anche se ne conoscevo dal di dentro le fatiche…).
Il nuovo compito comprendeva diverse incombenze, una diversa dall’altra e tutte nuove, ma non esclusivamente “da tavolino…”. Dietro ogni documento, ogni lettera, ogni pratica ho sempre visto un volto, un Istituto, una storia, una gioia, un dolore… E, servendo i miei fratelli e sorelle consacrati, ho imparato che la vita consacrata è “dentro” la vita della gente, porta il peso dei suoi problemi, delle sue gioie, dei suoi sogni…; che la mia vita nel “cuore della Chiesa” era comunque un servizio ai giovani, ai giovani a cui mi manda la mia missione di salesiana…: quelli entusiasti delle GMG e quelli delle periferie che patiscono la fame e l’abbandono…
Mi ha fatto del bene incontrare anche persone consacrate sofferenti e provate, capaci di valorizzare il dolore e la fatica e di reagire alla tentazione dello scoraggiamento con determinazione e dignità. E’ stata una grande scuola per me, perché non mi perda mai nei rivoli delle problematiche senza senso o delle sofferenze inutili…
Quando il 15 ottobre 2012 terminai il mio servizio come Sottosegretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata, concludendo il saluto di congedo citai – adattandola – una affermazione di Ferruccio De Bortoli nella prefazione a un libro sul Cardinal Carlo Maria Martini (Storia di un uomo, di Aldo Maria Valli). Egli riporta un proverbio indiano che il Cardinale cita nel suo libro Le età della vita. “Nella prima età si studia, nella seconda si insegna, nella terza si riflette e nella quarta si impara a mendicare”.
Oggi, in questo 2014, per quanto riguarda la mia vita, alle porte dei 76 anni, penso di trovarmi sul crinale tra la terza e la quarta età. Riflettere e mendicare è l’esperienza che il Signore mi chiede di fare in questo nuovo tratto di cammino. Per questo invoco da Dio forza e vigore e da coloro che mi vogliono bene aiuto e vicinanza.
Lasciando il Dicastero non senza soffrire, confesso che nei sette anni e cinque mesi del mio servizio ho vissuto un tempo felice, ricco di esperienze, di conoscenze, di interscambi, di incontri con tante persone, che hanno fatto più bella e ricca la mia vita… Anche i superiori e membri tutti del Dicastero, diversi per nazionalità, competenza, incarico, età, esperienza, mi hanno dato molto, tanto, immensamente di più di quanto io non abbia saputo dare.
Di quanto ho vissuto e ricevuto in questo servizio ringrazio il Signore e ciascuno dei membri del Dicastero, per la fiducia e la simpatia che mi hanno donato, nonostante l’esperienza – per la prima volta – di avere un sottosegretario donna, per di più lombarda con un carattere schietto e poco dolce. Un grazie speciale anche perché ogni membro del Dicastero mi ha insegnato con la vita a mettermi a disposizione, a solidarizzare, a guardare con pace i problemi nella certezza che Dio prova perché ama e che sempre possiamo e dobbiamo sognare – anche per la vita consacrata – un futuro che lasci spazio alla potenza di Dio e alla forza costruttiva delle beatitudini.
Mi sostiene il salmo 83/84, che recito ogni mattina:
Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio.
Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente,
anche la prima pioggia l’ammanta di benedizioni.
Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion.
Ti chiedo, Signore, che nel mio cammino futuro cresca – per Tua grazia – il mio vigore.
E ora eccomi a Concesio, nella casa Natale del grande Paolo VI, presto beato. E’ il Papa della mia giovinezza, dei grandi incontri dell’Azione cattolica allo stadio di San Siro a Milano. E’ il Papa della Evangelii Nuntiandi e della Gaudete in Domino.
Di quello che mi è richiesto so ancora troppo poco. Sto imparando e tanti mi insegnano con pazienza e generosità. Ovviamente “Roma” mi manca… ed è normale. Come diceva San Giovanni Paolo II, bisogna vivere Roma e io l’ho vissuta veramente.
Anche qui le cose da fare sono molte e varie: la custodia della casa natale, l’accoglienza dei pellegrini, la collaborazione con il Centro di Studi e ricerche Paolo VI, la collaborazione con l’Opera per l’educazione cristiana, il servizio alle parrocchie e, … per non dimenticare il passato, il servizio agli Istituti di vita consacrata e ai monasteri (le monache occupano un posto speciale nel mio cuore perché da loro ho ricevuto e ricevo molto), quando sono richiesta. Non c’è tempo per annoiarsi o per rimpiangere… E poi, come mi scriveva un santo padre Passionista del Dicastero, anche qui c’è un Signore da adorare e ci sono fratelli e sorelle da amare. E questo mi basta e mi dà gioia.
Ora ci prepariamo alla beatificazione di Paolo VI e fervono già i preparativi. Voglio vivere intensamente questo periodo di grazia e guardare avanti.
Dulcis in fundo: siete tutti invitati a Concesio. Venite presto.
Sr Enrica Rosanna, fma
maggio 14, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
La storia ecclesiastica sarda del primo Novecento è stata segnata da una straordinaria figura di mistico evangelizzatore: il Servo di Dio Giovanni Battista Manzella, missionario vincenziano, apprezzato e amato come apostolo della carità.
Giovanni Battista Manzella, di origine lombarda, nasce a Soncino il 21 gennaio 1855 (Cremona), cresce in una famiglia semplice di modeste condizioni economiche che tuttavia esprime una fede robusta ed una carità ampia e fruttuosa soprattutto nei confronti dei poveri e degli ultimi: il giovane Manzella assimila ben presto tali sentimenti che risuonano nella sua anima trasparente per sfociare, in età adulta, nella vocazione religiosa.
Il Servo di Dio Giovanni Battista Manzella
Non realizza subito il suo desiderio per contribuire all’economia familiare con il lavoro, inizialmente di materassaio; frequenta le scuole tecniche (è un appassionato di disegno e matematica) e svolge a lungo l’attività lavorativa in un negozio di ferramenta, dove, in seguito ad una “voce interiore”, ha la conferma della sua chiamata a servire Dio nei poveri e nei peccatori.
Il suo ardente amore per Dio e la sua ansia redentrice per i peccatori trovano la loro naturale canalizzazione nel carisma vincenziano che incarna con vera passione, soprattutto in quella tensione caritativa verso i poveri che saranno sempre la sua primaria disperata preoccupazione. Così si esprimerà alcuni anni dopo, già prete della missione in Sardegna, nel bollettino “La Carità” da lui stesso fondato e curato:
La Carità non deve essere una virtù qualsiasi in noi, ma la prima virtù e deve essere esercitata con tutte le potenze dell’anima, con tutte le energie del corpo, con tutto il nostro cuore. Finchè c’è una miseria al mondo io non devo riposare tranquillo (“La Carità”, 1928).
Il 25 febbraio 1893 è ordinato sacerdote e dopo aver ricoperto diversi incarichi nella sua Congregazione della Provincia di Torino, viene destinato alla Casa della Missione di Sassari: il 14 novembre del 1900 il Servo di Dio approda in
Sardegna in uno dei periodi più drammatici della vita isolana per la realtà umana, sociale, religiosa di estremo degrado e per la povertà, materiale e morale, a tutti i livelli e in tutti gli stadi.
Da questo momento in poi non conosce tregua e per trentasette anni il missionario vincenziano percorre la Sardegna in lungo e in largo con i più svariati mezzi (anche a piedi!); nessun ostacolo lo può fermare in questa sua ricerca appassionata del povero, nel cercare e nel trovare sempre nuove e creative soluzioni, per la promozione umana e spirituale dei “poveri più poveri”.
Che cos’è la carità? E’ un raggio di luce che lotta continuamente fra tante tenebre, tra miserie senza fine, dolori senza nome (“La Carità”, 1927).
In questa infaticabile e ininterrotta opera evangelizzatrice spende tutte le sue energie fisiche e spirituali, per dedicarsi all’apostolato in diversi ambiti: predicatore delle missioni popolari, formatore del clero, direttore di anime, ispiratore e realizzatore di molteplici opere caritative.
Il povero diviene la ragione prima del suo apostolato in cui contempla il Cristo agonizzante e crocifisso; in esso contempla l’amore misericordioso del Padre traducendolo in gesti concreti di carità fraterna.
Il povero rappresenta Gesù e se io consolo Gesù salgo alle origini donde deriva ogni bene (“La Carità”, 1924).
Dalla mistica contemplazione del povero e dalla sua geniale e dinamica creatività, nascono e vengono da lui stesso promosse le istituzioni caritative, sorte in ogni angolo della Sardegna, a vantaggio delle categorie più trascurate ed emarginate: ospizi, orfanotrofi, asili, assistenza dei poveri a domicilio, assistenza ai carcerati e tante altre forme di aiuto ai poveri e ai sofferenti.
Vero conquistatore di anime, il Servo di Dio non perde occasione per opporre la sua “parola di fuoco” al subdolo e infiltrante paganesimo materialista e filo-socialista, con cui in più occasioni, nel corso delle predicazioni delle missioni popolari, si confronta per argomentare con l’unica autentica parola: il Vangelo.Così scrive nel 1928:
Il linguaggio più bello della Chiesa di Dio è la carità. Questo è il segno per cui i cristiani di tutto il mondo si conosceranno (“La Carità”, 1928).
Per tale motivo promuove il Movimento Cattolico e contribuisce alla fondazione del periodico settimanale “Libertà” e del periodico mensile “La Carità”.
Nel 1909 conosce Angela Marongiu, mistica sassarese, e ne diviene il suo direttore spirituale; solo dopo alcuni anni fonda insieme alla sua figlia spirituale, ispiratrice del carisma
e preziosa collaboratrice orante nell’apostolato missionario, l’opera “manzelliana” più singolare: una comunità religiosa, la cui spiritualità trae origine dal mistero dell’agonia di Gesù nel Getsemani, con espressione apostolica finalizzata all’evangelizzazione e alla promozione umana dei poveri e degli ultimi.
Nel 1927, nella solennità di Pentecoste, nasce ufficialmente nella Chiesa sarda l’Istituto delle Suore del Getsemani .
La santità di vita di questo infaticabile apostolo del Vangelo è sintetizzata nelle parole dell’Arcivescovo Mons. Arcangelo Mazzotti – a quell’epoca Pastore della Diocesi Turritana –che hanno trovano il consenso di tutti: “Era l’incarnazione di quanto vi è di grande e di nobile, l’incarnazione della carità e della misericordia …. Esempio sublime di perfetta carità e povertà”.[1]
Il suo dinamismo missionario non conobbe sosta nemmeno in tarda età, consumando tutto se stesso per guadagnare a Dio il maggior numero di anime possibili, servendo Dio nei poveri e alleviando ogni genere di sofferenza.[2]
E’ carità squisita l’amare i poveri, i disgraziati, i ragazzi più abbandonati, i traviati dall’errore: l’amore suggerisce mille forme per manifestarlo (“La Carità”, 1924).
Padre Manzella muore a Sassari il 23 ottobre 1937, dopo alcuni giorni di agonia circondato dall’amore delle suore, dall’affetto e dalla stima di tante persone che accorrono da tutta la Sardegna, quando si diffonde la notizia della sua morte.
Egli è sempre vivo nella memoria dei sardi e soprattutto lo è nel loro cuore; attualmente le spoglie mortali del Servo di Dio si trovano nella Cripta della Chiesa del SS. Sacramento in Sassari e sono oggetto di venerazione quotidiana da parte di numerosi devoti e fedeli che si affidano alla sua intercessione e preghiera, nell’auspicio di poterlo indicare al più presto nella Chiesa come modello di santità e di evangelizzatore, il cui linguaggio è fatto più di gesti di misericordia che di parole predicate sulla misericordia.
«In questa complessa situazione, dove l’orizzonte del presente e del futuro sembrano percorsi da nubi minacciose, si rende ancora più urgente portare con coraggio in ogni realtà il Vangelo di Cristo, che è annuncio di speranza, di riconciliazione, di comunione, annuncio della vicinanza di Dio, della sua misericordia, della sua salvezza, annuncio che la potenza di amore di Dio è capace di vincere le tenebre del male e guidare sulla via del bene. L’uomo del nostro tempo ha bisogno di una luce sicura che rischiara la sua strada e che solo l’incontro con Cristo può donare. Portiamo a questo mondo, con la nostra testimonianza, con amore, la speranza donata dalla fede! La missionarietà della Chiesa non è proselitismo, bensì testimonianza di vita che illumina il cammino, che porta speranza e amore» (Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale 2013).
Sr. Maria Carmela Tornatore
Suora del Getsemani
srcarmela.get@tiscali.it
[1] Queste parole sono state pronunciate dall’Arcivescovo al termine della Messa da requiem in die obitus il 24 ottobre 1937, giorno immediatamente successivo alla morte del Servo di Dio.
[2] Anche San Giovanni Paolo II, nel corso della visita pastorale in Sardegna, accenna allo “zelo apostolico del Padre Giovanni Battista Manzella”, cfr. ‹‹Osservatore romano›› (21-22 ottobre 1985) p.5.
aprile 9, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Lettera al P. Francisco Palau, OCD
Padre Francesco, io ti voglio bene e tu lo sai.
Ti sono grata perché mi hai permesso di far parte della tua famiglia religiosa: il Carmelo Missionario. Presso di te, con te, ho capito di più e meglio la Chiesa, mia Madre. Ho potuto così entrare in contatto con la sua bellezza e cogliere l’ampiezza del suo sguardo che abbraccia l’intera umanità: Dio e il prossimo. Leggendo i tuoi scritti e soffermandomi su di essi per la meditazione ho capito che tu sei una persona che sa pregare (di preghiera) sullo stile di Teresa di Gesù, che sei un predicatore infaticabile, tenace, un vero ‘missionario apostolico” instancabile… Come te, io ho sentito la voce che, con forza, mi diceva: “va’, io ti mando” e sono partita. Fin quando mi è stato possibile, mi hai immesso su strade diverse per un servizio missionario in Perù, Cile, Venezuela. Ti sono immensamente grata. Questa esperienza è stata un vero dono per me.
Padre Francesco, ora ti scrivo dalla mia terra, il Cile. Per me è una terra sacra e benedetta. La sua ‘geografia’, – una lunga e angusta striscia di terra – mi parla dell’austerità della vita, di ‘passi’ che mi permettono di ‘passare’ facilmente dalla montagna al mare, dall’arido deserto del nord ai fertili boschi del sud. L’alta ‘cordiliera’ mi fa pensare alle vette della santità raggiunte da Teresa delle Ande e Alberto Hurtado. Il suo mare aperto – l’oceano – mi parla di ampi orizzonti, di profonda voglia di navigare, come lo sperimentavi tu da El Vedrà. La sua bandiera riporta, su un cielo intensamente azzurro, una stella bianca: Maria del Monte Carmelo, nostra patrona-madre-sorella-compagna e amica. La sua letteratura mi fa ricordare Gabriela Mistral, donna semplice, capace di riflessione profonda, vicina alla sua gente e alla natura, amante dei bambini, ma soprattutto di Dio.
Padre Francesco, il Cile è una terra di cantori della divinità, di religiosità popolare; una terra che ama i balli folcloristici, gli altari di famiglia, le processioni belle come quelle che organizzavi tu a Es Cubells in onore della nostra Madre, la Vergine delle Virtù.
Padre Francesco, tu mi sei venuto incontro la prima volta a Viňa del Mar, durante la festa della ‘cueva’, nel Natale del 1961. Quelli furono il momento e il luogo in cui la conosenza si trasformò in amore e l’amore in sequela. Sono passarti 64 anni da quando Tu sei giunto come missionario in Cile e vi hai portato un carisma di amore ecclesiale. Le radici sono ora ben solide, non ne dubitare. Dal Nord al Sud noi, tue figlie, siamo presenti in piccole comunità, “chiese domestiche”, come ci volevi tu. Noi ti amiamo e cerchiamo di traformare in vita il mistero ecclesiale. Perdonaci per tutte quelle volte che non lo viviamo in pienezza, con la generosità richiesta.
La mia vita sta declinando e io sento che continuo ad amarti, forse ora con un amore oiù concreto, fatto più di opere che di parole, anche se debbo confessarti che sento ancora il bisogno di parlare di te, di farti conoscere e di condividere la cristallina bellezza di quella che tutti amiamo: la Chiesa.
In questo stesso momento ho la percezione che una forza – non certamente mia – irrompe nella mia intimità e io mi riconosco recettiva verso di essa. E’ la grazia di Dio che mi rinnova, mi spinge ad accogliere il presente con realismo e coraggio e mi fa intravvedere con serena generosità il futuro. Come te, io sento che la mia vita è ‘il minimo’ che io posso offrire a Dio in cambio del suo amore.
Padre, ti sono riconoscente perché tu hai immesso nel mio cuore l’illusione e la volontà di capire l’uomo e di capire Dio attraverso quella via che tu mi indichi come la più sicura: la via dell’amore. Ti chiedo perdono perché non sempre vi sono stata fedele.
Mentre celebro le Nozze d’Oro della mia consacrazione a Dio nella tua famiglia – le Carmelitane Missionarie – tu mi sei sempre presente e io ti prego per me con amore e gratitudine. Ammetto con gioia che la tua testimonianza è stata la guida su cui ho impostato la mia vita di religiosa: “In Cristo, con Maria, per la Chiesa”. Con gioia credo che così è stato e così è.
Voglio concludere questa lettera esprimendoti con filiale fiducia un desiderio: la fedeltà di Dio sia l’unica cosa che risplende in tutto il suo nitore nella mia vita e nella vita delle mie sorelle. Vorrei che questo obiettivo si traducesse in un rinnovato impegno nella ricerca della giustizia del Regno di Dio, nell’amare con tenerezza i nostri fratelli e così camminare umilmente con il popolo davanti a Dio.
Padre Francesco, benedicimi e concedimi la grazia di saper sempre ascoltare la tua voce: essa è un’eco sonora e precisa della voce di Dio che continua a dirmi di mettere a tacere la mia persona; mi sarà così più facile trovare il luogo su cui può mettere le sue radici la fraternità: l’umiltà. Aiutami, anche, a procedere decisa nella ricerca del volto di Cristo, scolpito sul volto di ogni uomo: il Cristo totale. E nello stesso tempo guardo con occhio contemplativo Maria, la stella e Madre della mia vocazione.
Sr Lucia Villanueva
Carmelitana missionaria
marzo 25, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
In questi primi giorni di marzo 2014 ho partecipato al raduno mondiale delle consacrate svolto a Castel Gandolfo presso il centro di “Chiara Lubich.”
La presenza di consacrate, circa trecento, provenienti non solo dall’Italia ma dai cinque continenti Cina, Corea, Camerum, Congo, Usa, Brasile, Francia…) ha creato un clima di mondialità e di singolarità della chiamata. Dio chiama quando e dove vuole!
A Lui la gloria e la gratitudine sempre.
La tematica dell’incontro “L’amore reciproco: cuore del Vangelo” mi ha attratto; risponde al mai sopito interesse per la vita spirituale e agli impulsi di riflessione interiore ispirati a un’autentica esperienza spirituale condivisa, alla solidità della spiritualità che si aggancia con coraggio alla vita quotidiana.
L’Amore reciproco richiede dinamismo interiore, volontà decisa di riuscire, fiducia di farcela fondata non sulla propria abilità, ma sicuramente sulla fede in Dio; si percepisce quel dinamismo che ti spinge a lavorare per l’umanità e il regno di Dio con diligenza, generosità, gioia, con energia fisica e spirituale; si gusta il lavoro gratuito e perseverante nella vita quotidiana, sperimentando la sicurezza e la forza dello Spirito che conduce la storia.
Quando si accoglie il comandamento nuovo di GESÙ “amatevi gli uni gli altri” consegnato ai suoi nelle ore dell’ultima Cena, ti trovi sempre davanti ad una nuova scelta di sapore umano e allo slancio che viene dallo Spirito; dal profondo del cuore ti senti rinnovata con una forza che ti spinge a non arrenderti mai davanti ai “no” e non cedere alla paura del giudizio altrui che ti abbatte con la pretesa di condizionarti, oppure cedere alle frequenti tensioni del vivere insieme.
Avverti quel dinamismo interiore che viene dall’alto, cresce con forza e si oppone al tuo “io”, ti rende serena e libera; la dimensione spirituale che vivi con Lui ridimensiona la realtà che ti circonda anzi, la stessa, diventa inversamente proporzionale e la complessità della vita presente sminuisce per incanto.
Abbiamo ascoltato all’incontro varie persone consacrate che, nella specificità, hanno trattato in breve la meta del cammino di santità; nessuno può e deve sentirsi escluso, ognuno può sperimentare utilmente il principio dell’ “amore reciproco, cuore del Vangelo”. Più volte viene ribadito che è necessaria la conversione personale e comunitaria per stare in linea con il vangelo; noi persone consacrate, dobbiamo essere esempi viventi di reciprocità sincera ed evangelica; non possiamo procrastinare il dono dell’amore, non possiamo trascurare circostanze propizie per imitare lo SPOSO celeste e seguirlo ovunque Egli vada.
La presenza di Maria Voce – EMMAUS – presidente attuale del movimento dei Focolari e sostituta di Chiara Lubich, diventa testimone vivace e trasparente dell’amore reciproco; ci ha fatto toccare con mano, non solo la bellezza del volersi bene veramente secondo il Vangelo ma, nella semplificazione della vita, ha reso ancor più visibile il suo sguardo sereno; le sue parole, fluide come un fiume, hanno convinto che è possibile costruire quella reciprocità con le persone nella vita di ogni giorno ed è possibile, avendo Gesù in mezzo, costruire la fraternità in modo autentico e sempre.
Occorre riconoscere il bello e il buono che Dio compie continuamente nella nostra vita, riconoscere il suo passaggio, trattenerlo nel cuore e insieme vivere ogni attimo con gratuità, renderlo visibile semplicemente nella propria esistenza. Gioiose ed entusiaste sono state le razioni delle presenti. Non è possibile arrendersi alla fatica ordinaria, avere la certezza che Lui ama stare in noi e risponde prontamente con amore gioioso ad ogni cenno di richiesta.
sr M. Alfonsa Fusco
delegata dell’USMI
Diocesi S. Benedetto Tronto (AP)
marzo 7, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Raccontare di me? Io racconto spesso a me stessa, le mie fantasie, le mie utopie, i miei desideri, i miei compromessi, le mie insicurezze, i miei esiti o i miei fallimenti. Ma
raccontare di me ad altri non è la stessa cosa. Ci sta di mezzo la mia immagine, la mia privacy, le mie paure, le mie fragilità, i miei segreti, anche i miei talenti, e l’opera di Dio in me è vero … in fondo però, non mi piace, ma ci provo.
Nella mia famiglia ci sono stata bene, anch’io, come tutti, qualche rimprovero posso fare ai miei genitori. Sono stati figli di una epoca e la loro preoccupazione in primo luogo era quella di insegnarmi a comportarmi bene, a non fare o far fare brutta figura, a studiare per un domani, un po’ meno mi hanno aiutato a far crescere la mia identità. In ogni modo, sono loro infinitamente riconoscente, perché mi hanno voluto, mi hanno amato e mi hanno favorito una infanzia e una adolescenza serena.
Quando ho incominciato a sentire il desiderio di essere me stessa, e quindi a voler fare delle scelte personali ecco l’evento, la circostanza che ha fatto dare una svolta alla mia vita. Per essere sincera, è stato un puntiglio che ha favorito la mia conoscenza delle FSP ed è a questo punto che tutto cambia. Un po’ di lotta interiore e poi la decisione di botto. Non ho sentito una voce speciale, ma sono entrata a far parte delle FSP con una scelta personale; sono così entrata in una autostrada nella quale mi sono avventurata, decisa e quasi cosciente di quello che facevo. Nelle autostrade la possibilità di ritorno non è ad ogni passo, così sono andata avanti senza timori o rimpianti, scoprendo invece novità di vita, percorsi entusiasmanti e panorami meravigliosi. O meglio, si, un rimpianto l’ho sentito: la rinuncia a una famiglia mia, a bimbi miei. Ogni volta che lo sentivo, era motivo di offerta; ne risultavo sempre felice, e lo sono ancora.
La prima parte del percorso mi ha portato ad Alba. Aria di convento, ma tanta gioia genuina, vera. A Roma sono approdata per il noviziato, con l’attesa di chissà quali regole severe, quali mortificazioni, e quanto tempo in ginocchio. Mi ha sorpreso la normalità, la semplicità. M. Nazzarena è stata la maestra di vita. Di lei ricordo, non l’insegnamento teorico, ma la sua accoglienza semplice e sincera, il suo esempio di essenzialità e “buon umore”, con il quale condiva anche le cose serie. Saggia astuzia per far registrare meglio nella mente ciò che si doveva ricordare.
Nel noviziato si usava aiutarci nella conoscenza di noi stesse indicando le une alle altre i difetti emergenti. Ne ricordo due: le piace guardare fuori dalla finestra, e non mangia il pane se non è fresco. Non so perché non ricordo gli altri, e ce n’erano almeno una decina! Di questi due, che non ho drammatizzato, a distanza di anni penso che non erano difetti, ma un qualcosa che nascondeva valori positivi. Il primo mi ha portato a desiderare di guardare sempre oltre il mio piccolo mondo, di aprirmi agli altri, di voler scoprire realtà diverse, valori di vita nuovi, a desiderare di conoscere sempre meglio l’ALTRO, conoscere gli altri, conoscere me stessa. Ad appagare il mio desiderio, senza saperlo, certo, è stata M. Tecla, quando mi ha invitata ad attraversare l’oceano inviandomi in Colombia. Il secondo, mi accompagna ancora nel desiderio sempre vivo di “nuovo”, di dinamico, di fresco.
A Bogotà avvenne il mio primo approccio con un’altra cultura. Arrivavo carica del mio bagaglio di civiltà, di superiorità e di qualche conoscenza teologica. Desideravo aiutare quella gente povera, considerata meno civile, e martoriata dalla guerriglia rurale già in azione nel lontano 1955. Avevo in valigia tutte le risposte pronte. Non pensavo che mi sarebbero state cambiate le domande. Con tutta la delicatezza possibile, come formatrice, ho cercato di comunicare, insegnare, proporre, esigere … Qualcosa attaccava. Ma in maggioranza erano testate contro un muro. Imparata la lingua, ho capito qualcosa in più. Ho capito che prima di tutto era necessario cercare di conoscere la loro storia e le storie personali; era necessario cercare di capire la loro cultura, il loro modo di guardare la realtà, di considerare eventi e persone… il mio bagaglio, le mie conoscenze, alle quali ero afferrata, non rispondevano adeguatamente. Oltre al fatto che nulla potevo fare senza l’ALTRO. In questa ricerca, durata anni, non giorni o mesi, qualcosa in me si è andata sciogliendo e mi sono trovata conquistata e coinvolta io stessa. Non è stato facile cambiare, rinunciare alle mie sicurezze. Qualcosa resisteva dentro, in lotta con il desiderio di essere una di loro, come Gesù che si è fatto uno di noi. Mi sono lasciata fare e ho scoperto valori e ricchezze che potevo assumere perché non toglievano nulla a quello che ero, in cambio mi arricchivano di ciò che non avevo.
Quando credevo di aver capito qualcosa, di aver assunto una mentalità meno legata a regole e leggi nate con me, conservando i valori essenziali; quando avevo imparato a star bene in questa nuova realtà, sono stata chiamata a guardare ancora fuori dalla finestra. La Paz (Bolivia) mi ha accolto con il suo panorama da fiaba, specialmente di notte, adagiata in un altopiano, sotto un cielo azzurro profondo, con il “nevado dell’Illimani” da sfondo, e con la gente vestita con grandi gonne dai mille colori. Ero sempre in Latino America e credevo di essere ormai esperta. Mi sono dovuta ricredere. Ho trovato una comunità più immersa apostolicamente nel mondo indigena, ma in se ancora italiana. Qui mi raggiunse la brezza del Concilio Vaticano II, della Conferenza di Medellin. Tempi belli di rinnovamento, ruminato, macinato e condiviso con le religiose e i religiosi nella ricerca di una espressione della fede e della missione sempre più vera e autentica. Arricchito il mio bagaglio con questa esperienza e desiderosa di farlo vita, ecco che si apre un’altra finestra: Buenos Aires. Sempre Latinoamerica, ma quanto diversa!
Nei miei primi giorni, in questa altra LA, trovandomi in un incontro tra sorelle, invitata a dire come mi sentivo, senza pensare molto dissi che per la terza volta mi trovavo sradicata e smarrita, capivo che avrei dovuto prima guardare, osservare, capire e solo dopo avrei potuto sentirmi a mio agio, e in condizioni di dire, di collaborare, di fare qualcosa. Veloce e illuminante è stato il gesto della mia vicina. Prendendomi il braccio e tenendolo stretto mi disse “Grazie! È questo che vogliamo. Non vogliamo che tu venga a portarci qualcosa. Vogliamo che prima ci conosca, per poi poter dialogare e lavorare insieme”. Queste parole sono calate a fondo, mi hanno permesso di mettermi in atteggiamento di osservazione e accoglienza. Ancora una volta sono stata invitata a guardarmi dentro, a mettermi a confronto, a cambiare parametri, a far morire qualcosa per far posto alla “novità” che mi era offerta ancora.
Non finiscono qui le mie finestre. Bogotà mi riaccoglie e torno a camminare sui passi già fatti. Ritrovo, oltre alle persone nuove, persone conosciute, persone amiche, ma diverse da come le ho lasciate. Io non sono la stessa, perché la storia mi ha trasformato, loro non sono le stesse, perché il tempo le ha aiutate a crescere. Ci raccontiamo le nostre storie e ci scopriamo più umane, più mature, più padrone della nostra vita, più solidali, più desiderose di camminare insieme.
Ancora una finestra: il rientro in Italia. Doloroso e comprensibile solo a chi l’ha vissuto. Non è un rifiuto per la mia terra, per la mia gente, è lo strappo di dentro che duole. Il cuore è debole. Non rimpiango; ancora una volta ho trovato chi mi ha aiutato a crescere, chi mi ha formato per il rientro, non fisico o di luogo, si trattava del rientro in un ambiente, in una cultura che avevo lasciato molti anni prima, ma che non era la stessa. E ora sono qui. Forse si potrà dire che con tanti cambi e trasformazioni non sono più io. Assolutamente no. Sono sempre io, felice di questa vita vissuta così. Un’altra vita così non la vorrei, perché l’ho già vissuta. E’ una utopia, ma se ne avessi un’altra vorrei partire dalla esperienza di oggi, e continuare a crescere; vorrei una vita più autentica, più vera, più libera segnata da motivazioni mature, attenta al cammino dell’umanità, sempre piena di stupore per l’appassionante forza creatrice di Dio e sempre nella ricerca della “novità di vita”. E’ sempre desiderio di pane fresco, di “novità”. E’ sempre voglia di guardare oltre.
Ora, parafrasando A. Solzenicyn, posso dire: “mi volto indietro, e mi riempio di stupore guardando la strada percorsa dall’inizio fino ad ora, e rendo grazie al Signore, perché mi ha dato la gioia di scoprirmi sempre nuova, la gioia di crescere e di comunicare un riflesso della sua luce”.
Ho sentito gioia raccontandomi. Per chi mi legge forse sono stata poco interessante. Il mio racconto può sembrare superficiale. Si lo è. Il racconto vero, quello del mio rapporto con Dio, quello dell’opera sua in me è il “segreto del Re”.
Oggi mi sento come un pulcino che dà le ultime beccate per uscire dal guscio. Non ho finito di nascere.
Sr Teresita Conti, fsp
febbraio 20, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Appartengo alla Congregazione delle Suore di Nazareth, che è stata fondata il 19 marzo 1948 presso Paduavapuram nell’Arcidiocesi di Ernakulam, Kerala, India.
I nostri padri fondatori si sono impegnati a riscattare le famiglie dal loro pietoso degrado e a trasformarle seguendo il modello della Santa Famiglia di Nazareth.
Lo scopo istituzionale della mia Congregazione è quello di partecipare alla missione di Gesù il Nazareno, adoperandosi per il benessere spirituale, religioso, economico e sociale della famiglia che è la cellula base della società umana, soprattutto degli emarginati e degli indifesi attraverso l’adozione di misure efficaci in relazione alle disposizioni della Chiesa e alle esigenze delle persone bisognose.
Come delegata della Congregazione ho avuto l’opportunità di visitare le famiglie, ascoltare la popolazione e lavorare per loro come sorella di Nazareth.
Durante il mio apostolato ho avuto la possibilità di comunicare con le famiglie, per migliorare insieme l’educazione dei bambini e per esaudire i bisogni delle madri.
Ci sono tante possibilità per i bambini non desiderati e per le ragazze madri e cooperare con le istituzioni affinché si trovi una soluzione alle loro esigenze. Questo mi ha entusiasmato immensamente donandomi una gioia interiore che ricordo ancora…
E’ stata per me un’esperienza dolorosa lasciare il mio paese quando i miei superiori mi hanno comunicato che dovevo recarmi a Roma per studiare; lasciare il paese in cui abitavo, abbandonare le tradizioni e le persone che amavo… Ma essendo investita di un ministero religioso ho obbedito alla volontà di Dio attraverso i miei superiori.
Quando sono giunta in Italia sono stata accolta nella comunità “Religiose di Nazareth”;
consorelle gentili e disponibili le cui amorevoli cure mi hanno aiutato a superare tutte le paure e i pregiudizi circa la nuova cultura. Mi sono adattata alle nuove situazioni e grande è stata la mia soddisfazione quando riuscivo a comunicare con le persone.
Ho conosciuto famiglie senza figli instaurando con loro un ottimo rapporto e li ho invitati a fare visita al nostro Istituto in India esortandoli ad adottare i nostri bambini.
Ho visto il rapporto d’amore che si è instaurato tra i bambini adottati e le nuove famiglie, ho cercato di far superare loro le prime difficoltà dovute ad una nuova situazione familiare, culturale e sociale.
Durante gli ultimi due mesi in cui sono stata in India, ho saputo che ci sono tante altre famiglie che stanno adottando orfani dal nostro istituto attraverso varie agenzie.
Ora sto pensando di programmare un incontro tra tutte le famiglie che hanno adottato bambini della nostra comunità per consentire loro di conoscersi pur vivendo in diverse città d’Italia.
Dopo i primi anni di vita in Italia vorrei dare loro la possibilità di conoscere e visitare i luoghi dove sono nati e cresciuti primi di essere adottati.
Come diceva Papa Giovanni Paolo II, “Nel piano divino, la famiglia si costituisce come una vita umana perfetta e di amore. Pertanto, la famiglia ha l’obbligo fondamentale di preservare, manifestare e trasmettere l’amore ” (Familiaris Consortio.17).
Quando sono arrivata in Italia pensavo di essere sola ed ero certa di sentire la mancanza di qualcosa di prezioso per la mia vita, come l’amore e la cura e l’affetto dei miei cari. Ho anche avuto tanta paura sull’adattamento alla nuova cultura e alla gente; ma ho poi imparato molto dalla cultura italiana e mi sono arricchita nel contatto con le persone. Posso anche dire che se c’è amore puro di cuore, si è in grado di superare gli ostacoli, perché l’amore cerca gli altri, li ammira e li aiuta a passare il tempo per conoscersi e condividere senza quantificare il costo. A questo punto posso dire come diceva San Paolo nella lettera ai CORINZI 13 4-7 :
“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; {l’amore} non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.”
sr Preetha Varajilan
gennaio 23, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Suor Rita Giaretta: osare la speranza trasforma persino i rifiuti
di Lorenzo Maria Alvaro
La fondatrice della Comunità Rut di Caserta racconta in questa intervista la sua esperienza “dei tanti sud del mondo” da cui ripartire per cambiare il sud.
La fondatrice della Comunità Rut di Caserta, Suor Rita Giaretta, vive il sud da 18 anni. In particolare il mondo della tratta e dello sfruttamento della prostituzione. Proprio nel cuore di quella che oggi è tristemente nota come la Terra dei fuochi. Quel tratto di Campania in cui a farla da padroni sono i rifiuti non le persone. In occasione dell’uscita del suo nuovo libro, “Osare la Speranza” scritto a quattro mani con Sergio Tanzarella. Ecco il racconto che suor Rita fa del suo meridione, tra amore, speranza e rivoluzione.
Lei è vicentina di origine, ex infermiera è sindacalista Cisl. Poi cos’è successo? Cosa l’ha portata a Caserta da suora?
Facendo l’infermiera e la sindacalista, nel percorso per capire un progetto di vita per me, mi sono sempre impegnata per la condizione della donna. Sentivo infatti che i diritti non erano mai acquisiti. Poi ho incontrato le suore orsoline e ho visto che erano impegnate in questo ambito. Mi sono sentita bene. Ho capito che era il mio posto e la mia strada. Così ho lasciato il ragazzo e il lavoro e son partita. Così è iniziato il mio percorso. Da 18 anni, con un mandato della Congregazione, mi trovo qui a Caserta.
Si può “Osare la speranza”, che è anche il titolo del suo ultimo libro, in un territorio che vive difficoltà enormi come la Campania?
È la nostra parola d’ordine. non è solo uno slogan. È pratica. Perché la speranza va praticata. E testimoniata. Non pensavamo, arrivando dal nord, che questi territori fossero così piegati, così in ginocchio. “Osare” vuol dire continuare nel quotidiano a vivere la speranza. Stare dentro al territorio giorno per giorno e amare la gente. Cercando insieme di tirare fuori il meglio. Non servono i grandi discorsi. Si rischia il disinteresse e la rassegnazione. Bisogna invece credere che a partire da noi, e senza aspettare più nulla dalle istituzioni, sia possibile cambiare. Altrimenti continuerà la logica del favore che spalanca la porta allo stile camorristico e uccide il bene comune.
Il sottotitolo del libro dice che “la liberazione viene dal Sud”. Liberazione da che cosa e perché viene dal sud?
Perché a partire dai giovani e dalle donne che incontro qui, se trovano punti di riferimento, c’è la possibilità di far nascere un riscatto. Sento che è possibile. Basta guardare nel nostro piccolo cosa siamo riusciti a fare. Abbiamo raccolte donne-rifiuto abbandonate per strada e le abbiamo fatte diventare giovani imprenditrici sociali. Parlo di questa liberazione: delle donne, dei giovani e dai rifiuti. Parlo di umanità liberate. Il sud è anche simbolico non solo geografico. Il sud è la strada, il lavoro che perdi. La liberazione non può partire da chi sta in alto e non ha problemi. Ma proprio partendo da quello che è sotto il segno del fallimento che può partire un vero cambiamento. Solo dai tanti sud che abbiamo intorno, dagli ultimi.
Lei ha fondato a Caserta la Comunità Rut che si occupa di donne sole o con figli in situazione di difficoltà e vittime della tratta. Perché?
Sapevamo di dover camminare al fianco di donne in difficoltà. Ma non è nato come un progetto fatto a tavolino. Non siamo partite dal nord con un progetto in tasca. È nato tutto dal basso. Girando, incontrando le persone e vivendo il territorio. E quello che succedeva ha fatto crescere la comunità. Abbiamo deciso di lasciarci condurre dalla storia. E la storia ci ha portato sulla strada dalle vittime della tratta. E così, un 8 marzo di tanti anni fa, ci fu la prima ragazza che ci chiese aiuto e salì in macchina con noi. Ci rendemmo disponibili all’accoglienza. L’abbiamo portata a casa e abbiamo aperto la comunità. 350 ragazze sono passate da allora. 350 cammini di liberazione. È la grande famiglia di Casa Rut.
Possiamo dire che come per queste donne si tratta di sfruttamento del corpo allo stesso modo in quelle terre avviene lo sfruttamento del corpo del territorio?
Certo. È lo stesso.
C’è chi, come Don Maurizio Patriciello, ha fatto della sensibilizzazione sul tema dei rifiuti la sua missione. Cosa pensa delle manifestazioni che si susseguono sulla Terra dei fuochi?
È molto positivo. Perché si sapeva di questa realtà. Si è sempre saputo. Il processo che si è avviato è molto importante. Per fortuna che questo movimento è cresciuto. Ma bisogna stare attenti perché anche le nostre istruzioni sono inquinate. Il rischio è che cavalchino l’esigenza di bonifiche per fare altri soldi. Come le notizie del decreto legge di Letta di prima di Natale sull’intervento in queste zone. Non basta manifestare ma bisogna essere vigili e non scendere mai a compromessi. Da cittadina posso chiedere solo che si smetta di parlare di bonifiche. È difficile che sia possibile bonificare, i siti sono enormi e non ci sono le risorse. Quindi che comincino a parlare almeno di messa in sicurezza. Che vengano messi in moto processi e percorsi perché questo territorio sia sicuro. Noi amiamo questa terra.
Ci sono solo limiti in questa terra?
Certo che ce ne sono. Non si può amare solo i limiti. Ci sono tante belle persone. Forse scoordinate ed etichettate con pesantezza. Ma deve tornare l’orgoglio del sud. Persone che se aiutate possono fare molto. Rifiuti che diventano risorsa. Il sud non è scarto. Al nord riusciamo a valorizzare anche una pietra. Qui veramente hanno capolavori, terre fantastiche. L’unico regola è che non bisogno venderla. Bisogna amarla come diceva Brigantini, da sposi non da amanti usa e getta. Bisogna seguirla, coccolarla. Non stuprarla. Quante lacrime ho raccolto di giovani che vorrebbero impegnarsi qui ma non gli è permesso. Quante risorse sprecate.
Può raccontarci uno degli episodi che più l’hanno colpita’
Ogni storia diventa cara. Quelle che più mi hanno colpito sono quelle delle ragazzine minorenni. Di 15 o 16 anni. Queste piccole creature buttate sulla strada. Una addirittura incinta. Quando ce l’hanno portata il bimbo era finito nel mercato nero dei bambini. All’inizio non ce l’ha detto perché si vergognava. L’ho capito io per caso, fermandomi lì alla sera con lei sul ciglio del letto. E vedevo come cullava il suo peluche. E le era sfuggita la parola “mio figlio”. Quando le ho chiesto se aveva un figlio è scoppiata a piangere. E così è saltata fuori tutta la storia. Alla fine siamo riusciti a ritrovare il bambino che, guarda caso, quando ho accompagnato la mamma le è andato subito in braccio come sentisse il legame. Un’emozione unica. Alla fine siamo anche riusciti ad avere la tutela. Oggi questa ragazza ha 24 anni, è sposato ha un altro figlio e lavora. Una storia che dimostra come non bisogna mai abbandonare la speranza. È come il respiro.
Papa Francesco parla di una Chiesa che deve farsi abbraccio e lenire le sofferenze. E dei religiosi dice che devono essere pastori con addosso l’odore del gregge. Deve essere importante per una come lei un Pontefice così…
Più che novità mi sento di respirare. Ci spinge ancor di più nell’impegno. Sono i temi che mi sono cari. I gesti che fa mi trovano in sintonia. È bellissimo. È il Vangelo. Prima soffrivo perché sentivo una Chiesa che non riusciva a dare entusiasmo, affetto e tenerezza a questo Vangelo e mi arrabbiavo. Non è una novità sta solo praticando il Vangelo. E io sono contenta. Dovremmo essere tutti così. Sono felice che ci sia lui, sono incoraggiata. Sentiamo che qualcuno ci ha preso per mano. L’ho incontrato il 20 di settembre a Santa Marta, gli abbiamo raccontato di noi. Ci ha incoraggiato ad andare avanti. Sono con voi. L’amore deve vincere.
Di lei parlano come della suora che combatte Camorra e racket. Ha paura?
Non ho tempo di pensarci. Non mi passa neanche per la testa. Troppo forte la spinta nel dare vita. Non la vivo. Ogni tanto sento rabbia, indignazione e frustrazione. Paura mai. Chi vive e porta il Vangelo non può averne.
gennaio 10, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Come legge la società di oggi, soprattutto i ‘giovani’ di oggi.
Ci sono tante società quanti sono i contesti culturali. Tuttavia il fenomeno della globalizzazione, pur con accentuazioni diverse,
avvicina le diverse culture con caratteristiche che in qualche modo le rende omogenee, almeno apparentemente. Molte società, soprattutto occidentali, sono segnate dalla crisi di fiducia nella vita e nel futuro, presentano segni di stanchezza, fanno fatica a scommettere sui giovani e sulla famiglia, mancano di una vera e propria visione, attivano relazioni spesso solo funzionali e stentano a favorire nei giovani progetti di autentica realizzazione umana. In queste società prevalgono le leggi di mercato che promuovono la cultura dello scarto. A soffrirne sono specialmente le persone fragili: i poveri, i bambini, i giovani, le donne, gli anziani, i disoccupati, i migranti.
Non mancano, tuttavia, segni positivi che accendono la speranza. È proprio dalla situazione in cui è sprofondato, che l’uomo di oggi può risorgere, risvegliarsi, prendere in mano il proprio destino, alzare gli occhi verso l’orizzonte e riprendere il cammino.
Nei giovani c’è una rinnovata voglia di esserci, di contare, di incidere sulle scelte, di essere artefici del proprio avvenire. Purché ci siano educatori pronti a fidarsi di loro che li accompagnino in un percorso che si presenta in salita, ma che porta in alto, spinge ad alzarsi in piedi.
Come Superiora generale di un Istituto presente nei cinque continenti, ho potuto visitare molte opere educative e sociali gestite dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ho incontrato giovani di diversa età, provenienza, cultura, religione: giovani aperti, impegnati nella ricerca della verità e del significato da dare alla loro vita, ma anche giovani che percepiscono la fatica di sentirsi protagonisti vivi e attivi nel loro contesto. Le esperienze si differenziano per l’ambiente e il vissuto personale che li ha segnati in positivo o in negativo.
Ci sono giovani impegnati in un sereno e consapevole cammino di crescita umana e cristiana, e giovani toccati da antiche e nuove povertà; giovani indifferenti verso la vita che navigano nel relativismo mettendo tutto sullo stesso piano. Ma dove tutto ha il medesimo valore, niente ha veramente valore. La crisi esistenziale può rischiare in questi casi di prendere stabile dimora nel loro cuore. Tuttavia l’esperienza più forte e interpellante è che in questi giovani i sogni e le speranze non sono spenti, ma solo sopiti.
Essi desiderano essere attivamente coinvolti nelle decisioni che li riguardano, avere futuro. Hanno nostalgia di una famiglia come ambiente di identificazione e di autostima. Mirano a cercare un posto nella società che sia corrispondente alle loro attitudini, aspirazioni e preparazione. Credono in una giustizia sociale dove non ci siano poveri, esclusi, emarginati, sfruttati. Amano confrontarsi con adulti significativi, capaci di testimoniare quei valori che spesso sentono proclamare, ma poco vedono incarnare. Sognano un futuro in cui poter vivere relazioni di qualità che permettano a giovani e adulti di parlarsi con libertà e di crescere insieme nell’avventura della vita: una vita piena che solo l’incontro con Gesù, che è la Vita, può donare.
Non si tratta soltanto di vaghe aspirazioni. Non sono pochi i giovani impegnati nel volontariato che sanno farsi prossimo, considerano ogni essere umano come volto da amare, rispettare, proteggere, tutelare nella sua dignità e nei suoi diritti inalienabili. L’incontro con la precarietà, la debolezza, la povertà e le violazioni persistenti dei diritti umani fondamentali dà una nuova prospettiva, cambia i parametri di riferimento. Spesso diventano più fiduciosi e aperti alla vita, pronti a riconoscere i suoi doni, capaci di accorgersi degli altri, di capire le cause della loro sofferenza ed emarginazione.
Anche la partecipazione alle Giornate Mondiali della Gioventù rivela una generazione per tanti aspetti inedita: disposta a marce, fatiche, adattamenti, capace di interagire con varie culture e di arricchirsi della diversità, in grado di alimentare grandi ideali, di creare una rete di interscambio proficuo in cui condividere i valori evangelici, ritrovare o rinnovare la gioia dell’incontro con Gesù.
Cosa proporrebbe per una pastorale vocazionale ‘efficace’ oggi.
Parlerei piuttosto di una pastorale vocazionale feconda, trattandosi del mistero dell’azione di Dio nel cuore umano. Egli è il vero protagonista nel chiamare i giovani di oggi a seguirlo. Ma sono convinta che Dio vuole aver bisogno della voce umana per fare sentire la sua chiamata.
Una pastorale vocazionale feconda non può che far leva su comunità vocazionali, formate da religiose/i e laici insieme: comunità come “luoghi dell’essere” dove ciascuna/o esprime la sua personale vocazione nella gioia di esistere e nella realizzazione della missione. Queste comunità sono “strada per l’incontro” dove i giovani si sentono accompagnati nella scoperta del progetto di Dio su di loro. Sono inoltre ”spazio di vita” nel quale tutti avvertono di essere coinvolti in un percorso la cui méta è la felicità. Compagni di viaggio nel percorso sono: religiose, laici e giovani, ciascuno con la propria unicità; la gioia è l’orizzonte in cui si cammina e la bellezza è dappertutto, perché la bellezza è nello sguardo credente.
Condizione essenziale per attivare questi spazi di vita, di gioia, di felicità è una comunità fortemente radicata in Gesù; una comunità carismatica animata dallo spirito di famiglia dove si vive con dedizione la propria vocazione e si testimonia, uniti, la gioia di una fedeltà operosa.
La proposta è dunque quella di ripensarsi non come comunità di sopravvivenza, ma come comunità dove si vive con passione e speranza, protesi a cogliere che cosa lo Spirito ci sta dicendo oggi e dove vuole condurci. Il futuro non può essere preventivato con semplici calcoli umani, ma accolto nel passaggio di Dio che sempre ci interpella e orienta il nostro sguardo a cogliere le sue sorprese.
La pastorale vocazionale va promossa a partire dalla rivitalizzazione dei membri, creando un ambiente dove si vivono relazioni umanizzanti, si testimonia la bellezza dell’incontro con Gesù che anche oggi ci rende capaci di generare, se siamo disposti a fidarci di Lui, un ambiente aperto alla vita e alla gioia e perciò interpellante.
Ci sono diverse forme di animazione vocazionale, ma la più feconda è quella legata alle narrazioni di vita, al volto, al gesto che configurano una vera e propria cultura vocazionale del “Vieni e vedi!”. È innegabile che Papa Francesco col suo modo di essere, di incontrare la gente, di parlare, di agire costituisce il più efficace contagio vocazionale, da cui possiamo prendere esempio. La pastorale vocazionale è l’esito di tutto il processo di pastorale giovanile impegnato ad aiutare ogni giovane a discernere il Progetto di Dio sulla propria vita.
Cosa significa oggi la Casa costruita a Mornese per una animazione alle religiose dell’Istituto
Mornese, per noi FMA, è la casa-simbolo dove tornare per ritrovare la freschezza carismatica. È luogo del cuore dove immergerci per rivivere l’esperienza delle nostre prime sorelle. Povere di beni materiali e di cultura libresca ma ricche di ardore apostolico, hanno saputo abbracciare gli ampi orizzonti proposti da don Bosco e dar vita a una Famiglia religiosa a servizio dell’educazione cristiana delle giovani. Maria Domenica Mazzarello, prima Superiora generale dell’Istituto, seppe animarlo attraverso una guida saggia, fedele e creativa secondo il progetto di don Bosco.
Nel 1877, a soli cinque anni dalla sua fondazione, l’Istituto salpava gli oceani per l’America latina. Da allora si è diffuso gradualmente nei cinque continenti. Attualmente siamo presenti in 94 nazioni con 1414 case. Così, da un piccolo seme è cresciuto un grande albero che ha esteso i suoi rami fino agli ultimi confini della terra. Don Giacomo Costamagna, direttore salesiano del Collegio di Mornese, che don Bosco inviò poi missionario in America, scriveva con nostalgia: “Noi abbiamo gli occhi della mente e del cuore rivolti a Mornese. È così piccolo questo paese, è un nonnulla questa casa, eppure per noi è il centro della vita”. Ecco Mornese: un piccolo paese, una semplice casa punto di riferimento vitale per l’Istituto delle FMA. Guardare a Mornese è un ritorno alla sorgente perché Mornese è luogo di unità e di comunione dove respirare il genuino slancio degli inizi, sperimentare lo spirito di famiglia e sentirsi cittadine del mondo; una realtà dove locale e universale, piccolo e grande, intimo e aperto ad ampi orizzonti si uniscono in sintesi. Per questo ogni FMA si sente allo stesso tempo cittadina di Mornese e cittadina del mondo, si percepisce in continuità con la scintilla ispiratrice che ha dato vita al nostro Istituto, si reimmerge nel corso della sorgente dello Spirito per attingere vita e gioia e aprirsi al futuro di Dio.
Mornese è il simbolo della casa, icona dai molteplici significati, che intendiamo costruire in ogni ambiente dove viviamo e operiamo. La casa rappresenta lo spirito di famiglia: uno stile di rapporti caratterizzato da semplicità, freschezza, immediatezza; uno spazio per i sentimenti, per l’arte del prendersi cura, specialmente dei più piccoli e deboli; un luogo di preghiera e di raccoglimento, ma anche una finestra aperta sul mondo, un punto di invio missionario.
Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, ci ricorda che la prima caratteristica della comunità ecclesiale è una Chiesa in uscita missionaria, tanto più capace di raccogliersi nel Cenacolo della preghiera, quanto più disposta ad allargare i suoi orizzonti al mondo intero e a farsi prossimo sulle strade del mondo. È una Chiesa pervasa dalla gioia di annunciare Gesù. “Essere con i giovani casa che evangelizza” è appunto il tema del nostro Capitolo generale XXIII, che si celebrerà da settembre a novembre 2014. Vogliamo focalizzare questi aspetti tipici del nostro carisma: la casa come famiglia, radice degli affetti più veri e dei valori condivisi, dove si attinge forza e coraggio per uscire ed evangelizzare, in comunione con tutta la Chiesa e in interazione con altre Famiglie religiose, con il coinvolgimento di laici e giovani, considerati non solo destinatari dell’annuncio, ma protagonisti da cui lasciarci evangelizzare il cuore.
Per il suo significato simbolico, da alcuni anni osiamo proporre l’esperienza mornesina anche ai laici e ai giovani. Mornese è la casa dell’amor di Dio che non ha perso il suo fascino.
Cosa significa oggi guidare una Congregazione sparsa nei 5 Continenti: bellezza, fatica …
È sicuramente un sfida impegnativa ma anche un dono grande per il respiro universale che allarga gli orizzonti ed è fonte di gioia profonda. Come Superiora generale sono impegnata ad essere segno visibile di comunione servendo nelle sorelle il disegno di Dio secondo il carisma salesiano e le esigenze dell’ora attuale. La mia responsabilità principale consiste nell’essere vincolo di unità per l’Istituto assicurando fedeltà dinamica al carisma in continuità con la nostra Confondatrice, S. Maria Domenica Mazzarello. Si tratta di una responsabilità condivisa, in particolare, con le sorelle del Consiglio generale. Comunione, coinvolgimento, sussidiarietà, corresponsabilità sono dimensioni fondamentali per governare privilegiando la relazione e il dialogo, valorizzando la ricchezza della nostra famiglia internazionale e suscitando nelle FMA una rinnovata passione per la missione educativa in un tempo storico che chiama a porre segni chiaramente leggibili di amore preventivo. Il servizio di animazione a livello mondiale comporta gioia e speranza, ma anche responsabilità e fatica. È motivo di gioia l’aver ricevuto in consegna il miracolo di un Istituto unito nonostante la sua espansione, diverso nella ricchezza delle varie culture in cui si esprime, orientato decisamente alla ricerca di una rinnovata fedeltà nel vivere le esigenze del vangelo e del carisma, convinto della necessità di essere casa che evangelizza con la parola e con la testimonianza di vita.
I giovani che incontro nelle mie visite sono un grande dono che aiuta le FMA a mantenere un cuore sempre giovane, capace di aprirsi alle novità della vita e di donarsi totalmente con loro e per loro con l’entusiasmo e la creatività dell’amore. Il moltiplicarsi di laici attratti dal carisma salesiano costituisce una grande speranza e una forza straordinaria, sopratutto quando sappiamo creare sinergia e metterci in rete.
Vi sono poi le piccole gioie quotidiane che provengono dalla testimonianza di FMA che vivono in modo luminoso la loro vocazione. Sorelle felici che nutrono un forte senso di appartenenza e tornerebbero a scegliere di diventare FMA se dovessero rinascere. Le sorelle anziane e malate sono preziose banche spirituali a cui so di poter attingere specialmente nei momenti di discernimento. Personalmente mi sostiene sapere che la vera Superiora dell’Istituto, come diceva don Bosco, è Maria Ausiliatrice e che io ne sono soltanto la Vicaria, dunque una figlia docile e attenta, capace di affidarsi e di fidarsi, di condividere e collaborare con tutto il Consiglio generale.
È innegabile la fatica di guidare un Istituto così vasto: la sua unità esige un lavoro di tessitura quotidiana di fili di comunione, rispettando la diversità delle situazioni, assicurando che la linfa del carisma continui a scorrere genuina e che il Sistema preventivo sia non solo un metodo di educazione, ma una spiritualità. Il dono di nuove vocazioni é un segno dell’attualità del carisma. Sentiamo la responsabilità di accompagnarle perché vivano felici la loro chiamata e rappresentino un arricchimento per tutto l’Istituto. Insieme con i laici, con le/i giovani siamo consapevoli di mettere oggi i colori all’abbozzo del progetto che don Bosco aveva iniziato con Maria Domenica Mazzarello: un’avventura appassionante.
Ci avviamo verso il Bicentenario della nascita di don Bosco, nostro Fondatore. La speranza è quella di far rinascere in ogni FMA lo slancio del da mihi animas cetera tolle che bruciava nel suo cuore e in quello di S. M. D. Mazzarello, convinte che le sfide e l’impegno di individuare nuovi cammini di profezia trovino la loro base nella motivazione profonda di essere con e per i giovani segni dell’amore preveniente del Padre, casa che evangelizza con la vita: una casa, spazio di incontro con porte e finestre aperte per entrare, ma anche per uscire, così da incontrare le/i giovani e far sì che essi stessi diventino casa per altri giovani, soprattutto i più poveri. Ringrazio il Signore per i miracoli che opera ogni giorno nella nostra piccolezza. Mi auguro che la vita dell’Istituto sia un irradiare gioia e speranza in mezzo alle giovani generazioni dei cinque continenti, preparando, attraverso l’educazione, una umanità che sia famiglia secondo il sogno del Padre.
Madre Yvonne Reungoat fma
dicembre 17, 2013 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
“Raccontiamoci…”: accolgo questo invito nella certezza che il racconto della propria storia, della propria vita, delle scelte, del Sì pronunciato possa far bene a chi legge e fa certamente bene a chi scrive.
E’ bello fermarci e raccontare… e con la mente torno ai tempi della mia infanzia quando era consuetudine stare insieme e soprattutto ascoltare quello che i nonni e i genitori ci volevano lasciare come insegnamento di vita.
Desidero iniziare proprio da qui il mio “racconto” perché è proprio nella famiglia che la storia di ognuno di noi ha inizio. Una famiglia numerosa la mia, sono la quinta di otto figli, dove il lavoro agricolo ha caratterizzato le giornate e dove la responsabilità del quotidiano era condivisa perché tutti partecipavamo, nella misura possibile, alle attività della casa. Lo stile della nostra vita come si può immaginare è sempre stato molto semplice, uno stile sobrio caratterizzato dalla condivisione, dalla corresponsabilità, dalla gratitudine a Dio che sempre ha provveduto alle nostre necessità.
Non ho mai pensato che la vita religiosa potesse essere la risposta alle mie inquietudini, alla ricerca di realizzare un progetto che avrebbe dato senso e significato alla mia vita. Sognavo da piccola di diventare un medico, forse per i numerosi problemi di salute che ho avuto, forse per un desiderio inconscio di poter essere di aiuto a chi stava male… poi da “grande” nella concretezza delle possibilità e dello sbocco lavorativo che avevo scelto, sognavo di aprire un’attività propria. E intanto il Signore continuava il suo pensiero su di me… ma io non lo intuivo… fin che un giorno ho conosciuto la realtà, lo spirito, lo stile di vita dell’Istituto delle Suore Rosarie.
E’ stato davvero come un cadere da cavallo, nel senso che lì ho scoperto un altro mondo che però in qualche modo richiamava lo stile che avevo assunto e fatto mio in famiglia: la semplicità.
In famiglia fin da piccoli i nostri genitori ci facevano pregare insieme, soprattutto nei mesi di maggio e di novembre, la preghiera del Rosario. È la preghiera con cui siamo cresciuti, quella che ci ha uniti proprio come la corona del Rosario, quella che ci sostiene e che ci incoraggia nei momenti di dolore e di fatica. È la nostra preghiera e credo che proprio per questo il Signore mi abbia voluto chiamare a far parte della famiglia delle Suore Rosarie.
Sono già vent’anni che ho risposto sì a Dio e in questi anni ho potuto conoscere la fedeltà con cui Dio mi ama, la sua pazienza nell’attendere che in me si compia la Sua volontà, il suo amore che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,7).
Dopo i voti perpetui ho avuto il dono di vivere un’esperienza di tre anni in Bolivia e in Cile. L’incontro con altre culture e con altri stili di vita mi ha aperto un orizzonte di speranza anche se all’inizio non è stato facile accogliere e far proprie tante situazioni di disagio, di povertà, di abbandono. Penso che non siamo mai pronti ad affrontare tali situazioni e che sia quasi naturale sentirsi impotenti davanti al pianto di bambini o di mamme che non hanno ciò di cui sfamarsi o quanto necessario per affrontare piccoli o grandi problemi sanitari. Durante l’esperienza in missione ho incontrato molte persone, molti bambini, molti giovani desiderosi di essere accolti, ascoltati, accompagnati. È il nostro impegno di donne consacrate: portare a tutti, nel servizio, il messaggio di Gesù, un messaggio di condivisione, di vicinanza, di comunione, di affetto, di preghiera perché come ci dice papa Francesco “la vita cresce e si sviluppa nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri” (Ev. Gaudium).
Gli atteggiamenti educativi che caratterizzano la nostra opera di suore Rosarie sono espressi nel documento d’Istituto del 1925 e ripresi nella Regola di vita:
“… le Rosarie si guarderanno sempre come formanti una stessa famiglia. Metteranno quindi una cura speciale perché tra esse regni sincero e costante lo spirito di nostro Signore… tanto da essere davvero e sempre un cuor solo e un’anima sola… Chiamate da Dio ad essere educatrici, le suore Rosarie avranno presente che devono tutte concorrere a quest’opera, ciascuna a seconda del proprio ufficio e delle proprie forze…”
In questo stile desideriamo riaffermare con sempre maggior consapevolezza la nostra missione: essere strumento e risposta alle aspirazioni più profonde dell’infanzia e della gioventù, specialmente di chi è meno amato e formare personalità umane e cristiane capaci di affrontare responsabilmente la vita e di assumere il proprio ruolo nella società e nella Chiesa.
Attualmente siamo impegnate nelle scuole dell’infanzia e negli orfanotrofi, nelle scuole elementari, nelle parrocchie, nella catechesi. Negli ultimi anni, anche in “case-famiglia” che accolgono minori in difficoltà, su segnalazione dei Servizi Sociali Territoriali.
Ora il mio servizio, oltre ad incarichi di responsabilità nell’Istituto, è nella realtà della casa famiglia dove accogliamo giovani ragazze che per diversi motivi sono momentaneamente allontanate dal loro nucleo familiare. A loro offriamo il nostro essere donne e madri, nel desiderio di portare nella loro vita piccoli semi di speranza, di bontà, di futuro, affinché possano essere loro stesse a intraprendere il loro cammino con il bagaglio costruito e arricchito anche attraverso la sofferenza.
Il motto delle nostre prime madri “La mano all’opera, il cuore a Dio” è ancora attuale e ci vivifica ancor più oggi, quando molti segnali di condivisione e solidarietà responsabile rendono più urgente il bisogno di conservare e formare il cuore attraverso il valore sociale e storico esclusivo del messaggio evangelico.
Suor Flavia Prezza
Istituto Suore B. V. Maria Regina del Ss. Rosario