gennaio 2, 2015 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Il mio primo Natale da volontaria in carcere
Il giorno di Natale, giovedì 2014, nella casa circondariale di Rebibbia è stata celebrata la Santa Messa presieduta dal cappellano don Nicola Cavallaro, coadiuvato dal diacono Luigi Barbini. Tre sono le parole donate ai presenti dal celebrante durante l’omelia: parola, gioia e vita. Sinteticamente: la parola deve essere usata per dire bene dell’altro, la gioia deve servire per condividerla e diffonderla, la vita deve essere apprezzata, custodita e donata.
Il 25 dicembre è un momento sempre molto atteso dai detenuti e vissuto con intensità di sentimenti, espressi concretamente con dei presepi da loro costruiti con arte e a tema. Tra gli altri mi ha molto colpito la rappresentazione della Terra dei fuochi, luoghi destinati allo smaltimento di rifiuti speciali, con discariche abusive, siti inquinati … storie vere e sofferte da molti di loro provenienti da quei territori, tombe di molti familiari e amici.
A Natale anche il carcere diventa più umano perché in molti vogliamo fare qualcosa di buono per rendere meno pesante la vita di chi vi è dentro. Allora organizziamo regali, pranzi e andiamo a stare con loro, a condividere quello che è concesso portare all’interno del carcere. Sono gli unici momenti di ‘evasione’ che permettono a questi nostri fratelli di trascorrere qualche ora senza il peso della solitudine che accorcia ancora di più i metri della cella.
Dietro le pesanti porte di un carcere, che si chiudono una dietro l’altra, sempre con lo stesso suono metallico, sempre con lo stesso ritmo apatico, ci sono però delle persone i cui nomi spesso sono dimenticati e che non di rado noi dette “persone perbene” preferiamo indicare solo come meritevoli di pena. Spesso siamo talmente impegnati a giudicarle da non ricordare nemmeno che quei reclusi rimangono delle persone consapevoli del loro errore e della loro pena che dignitosamente scontano con la speranza nel cuore di poter restituire un giorno quanto a loro di bene è stato fatto. E’ davvero significativo e commovente constatare quanto questo loro desiderio si stia già incarnando all’interno del carcere.
Chi incontra questi fratelli, come sta accadendo a me da qualche mese, ha da imparare molto specie in termini di solidarietà, fraternità, condivisione. Lo stesso modo di gestire l’essenzialità, fatta dello stretto necessario, del minimo indispensabile, colpisce e disorienta chi ha tutto e crede di avere poco o niente. Molto c’è da imparare da chi è privato del meglio, la libertà, Tutto, in questo spazio ristretto e controllato, parla di accoglienza, fatta di un cordialità, di una semplice stretta di mano, di un abbraccio fraterno, di un “ritorni presto, mi raccomando”. Sarà la semplicità, la gratuità dei loro gesti a conquistarti, a farti desiderare di stare a lungo con loro, da farti venire, nel mio caso, il “mal di Rebibbia”. E’ misterioso, ma quando esci da quel luogo di pena ti sembra di essere un’altra persona, più serena, più libera interiormente, più vera, più, più ….
Suona quindi strano sentire sempre più spesso da gran parte della nostra gente che non ce la fa, che non sa come arrivare alla fine del mese quando a Natale nelle nostre tavole abbonda il superfluo condito paradossalmente da molta insoddisfazione, scontentezza, mancanza di gioia. Se tutti noi potessimo avere il privilegio di visitare le persone carcerate che in un silenzio carico di rumore in cui nemmeno quell’unica fetta di panettone riesce a lenire per qualche secondo la voce amara che li accompagna ogni secondo della loro vita, quella della loro coscienza, forse dovremmo solo dire “Grazie, Signore, perché ci hai risparmiato da simile esperienza”.
Che il Signore apra le nostre menti a riflettere su questa particolare fragilità collaborando magari con qualche iniziativa che arrivi a scaldare il cuore di chi la vita l’ha privato di un pane, di un tetto, della libertà. Certi che facendo questo sarà il nostro cuore il primo a beneficiarne.
Se un Dio ha accolto la nostra umanità e si è fatto uno di noi nascendo a Betlemme, come possiamo noi rimanere insensibili, indifferenti e sordi all’udire quel vagito di un bimbo che ha preso carne tra di noi e che chiede per primo di essere accolto, accudito, amato in questi nostri fratelli ristretti che sono la “carne di Cristo!?
Sr Emma Zordan
Referente carceri Usmi Nazionale
dicembre 22, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Scoprire un ideale nel volto di persone realizzate è come aver trovato un “TESORO”! Così è capitato a me!
Nella mia fanciullezza ho incontrato due persone felici di essere di Dio: una Suora e un Sacerdote! E tutto è partito da lì: guardando la vita del giovane cappellano della mia parrocchia e della giovanissima Suora “Figlia di San Giuseppe” che operava nella Scuola Materna. Mi entusiasmava essere nella Chiesa locale un segno di “freschezza”, come erano loro, per dire a tutti che vivere da cristiani è bello e ne vale la pena!
Questo lo stimolo iniziale provocato proprio da due vite che già assaporavano la consacrazione con entusiasmo. Ciò mi ha fatto partire con “una marcia in più”: la GIOIA di sentirmi scelta nella gratuità, senza mio merito!
E’ scattato così un GRAZIE fatto PREGHIERA: la Messa del mattino, nonostante la distanza, il freddo, la neve… i primi tentativi di meditazione… Piano piano si allargava l’orizzonte e la consapevolezza, pur limitata, di una risposta: essere un “SEGNO” di una realtà che ci sovrasta, ossia dell’AMORE di un DIO che si china sulla sua CREATURA e la predilige.
Vivevo vicino al fiume Piave e, con l’ingenuità infantile, scendevo nelle “grave” e con un bastoncino scrivevo ovunque sulla ghiaia: “DIO, TI AMO!”. Gesti adolescenziali che esprimevano, però, che Qualcuno stava trovando spazio dentro di me.
La scelta poi, tra le Figlie di S. Giuseppe. Certo, conoscevo solo loro, eppure mi è parso subito di essere sul binario giusto: quello spirito semplice di vivere la fede senza sovrastrutture, mi piaceva. L’idea di trasmettere nell’ambito educativo quei valori che avrebbero formato la persona aiutandola a diventare adulta mi entusiasmava, tanto da rendermi disponibile nell’Azione Cattolica e affiancandomi nell’insegnamento del catechismo. Non conoscevo ancora la figura meravigliosa del Fondatore, ma ne percepivo lo spirito incarnato nelle sue Figlie. Questo mi è bastato per facilitare la scelta, senza dubbi verso altre direzioni.
Avevo un “SOGNO nel CASSETTO”: la MISSIONE! Sognavo l’Africa, i “moretti”, le foreste da attraversare per portare il Vangelo: desideravo partire con solo tre cose: il VANGELO – il CROCEFISSO e gli SCARPONI! ma gran parte della mia vita è passata fra i banchi di scuola in Italia! Eppure ho sempre vissuto con questo spirito in attesa che prima o poi il Signore mi avrebbe fatto questo dono! E quando ho smesso di “sognare” perché il tempo era passato, mi è arrivata la proposta. Una gioia incontenibile anche se in quel momento dovevo fare i conti con l’espressione più “tagliente” di Gesù: “Lascia che i morti seppelliscano i morti, tu vai”. In quel tempo anche la mia mamma si stava preparando a partire! E sono partita! Un’esperienza di qualche anno: bella, bella, bella! Non per quello che sapevo o potevo fare, ma essere lì come “SEGNO” di un AMORE che si fa fratello, amico, compagno di viaggio, in quelle PERIFERIE, come dice Papa Francesco, che attendono una PRESENZA di ETERNO.
Sr Virginiana
Figlie di san Giuseppe del Caburlotto
dicembre 11, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Cristo ha fissato lo sguardo su di me. Mi ha amata ed io non ho saputo resistere al suo amore. E’ stato un incontro, un’esperienza così profonda che non dimenticherò mai. E’ da quel
giorno che la mia vita è cambiata, il Signore ha messo nel mio cuore una gioia che nessuno poteva donarmi, nemmeno l’amore di una persona; solo lui mi bastava e mi basta. Subito ho avvertito che mi chiedeva qualcosa, ma ero confusa. Nella mia vita non avevo mai pensato di diventare suora, anzi il mio sogno era quello sposarmi, e qualche volta ci scherzavo su, anche perché molti mi vedevano come una suora, e a quanto pare il Signore mi ha presa sul serio. Mi sono fatta seguire da un sacerdote per due anni, approfondendo e cercando di capire che cosa Cristo volesse da me.
Che cosa mi ha spinto a scegliere la vita religiosa? L’amore di Cristo. Sentivo un forte desiderio di ricambiare il Suo amore; ero sempre inquieta; Lui mi attirava sempre più a sé, finché un giorno decisi di lanciarmi nel buio, perché non sapevo a cosa sarei andata incontro… Ci vuole tanto coraggio; molte volte si lotta, ma il Signore dà la grazia e la forza necessarie a lasciare tutto per ritrovare il tutto: “Gesù”… Ed è la GIOIA!
Ringrazio Dio per l’esperienza di formazione che sto facendo qui all’USMI perché mi accorgo che sto amando di più la mia vocazione. Questo percorso mi ha fatto crescere nel campo
umano e spirituale, mi ha donato di conoscere in modo più profondo Dio e allo stesso tempo me stessa. Una cosa molto bella è poter condividere con altre novizie la gioia della sequela Christi. Una grande ricchezza per me anche l’incontro con persone di varie culture… Camminare insieme unisce di più. Quando si ama non si guarda la nazionalità, la lingua, la cultura ed io ho potuto sperimentare questa bellezza e ricchezza che porterò sempre nel cuore. Questo cammino ha cambiato il mio modo di relazionarmi, grazie a tutti i docenti perché ognuno di loro ha nutrito la mia anima; con le loro testimonianze mi hanno fatto innamorare di più della vita che ho abbracciato. Ringrazio molto tutti i responsabili e collaboratori di questo centro di formazione per il servizio che compiono per il bene di tutte noi… per la nostra formazione.
Suor Larissa Romano
Suore del Sacro Cuore di Gesù di Ragusa
novembre 26, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Mi presento…
Sono una voce! Una delle voci che nei passati duecento anni di storia, hanno cantato le meraviglie di Dio, unendosi al coro dell’umanità intera, qualunque fosse il modo culturale,
linguistico o teologico con cui il Signore della storia dei cuori umani venisse lodato. Ho cantato con i grandi rappresentanti degli innamorati di Dio: ho cantato con RABI’A, la giovane schiava musulmana che usava declamare le sue poesie mistiche, al suono del flauto,dicendo: “O Dio, del cuore mio l’anelito. Tu ben conosci… Sol al servizio tuo brilla di luce e di gioia l’occhio mio!” Ho cantato pure nel coro dei GURU, gente in continuo cammino, per offrire la voce di Colui che chiama continuamente alla vita d’amore dalle profondità del cielo interiore. Ho adorato la SS.ma Trinità nel profondo del mio cuore, inneggiando a Lui con la parola più alta della preghiera hindù, ripetendo, insieme a loro: “OM! OM! OM! che è il più alto gemito d’amore della preghiera hindù.
Sono una voce, una piccola voce che, con le Sorelle della “Piccola Congregazione delle Suore Oblate di S. Luigi Gonzaga”, come amava chiamarci il nostro venerato Fondatore, don Giovanni Battista Rubino, quando 200 anni fa ci aveva fondate per cantare la “PAROLA” a tutti coloro che hanno incontrato, nelle stazioni più sperdute dell’Asia, nelle capanne povere e assolate, nelle strade dell’Oriente e dell’Occidente, quel Cristo, Parola Vivente che si fa scoprire in ogni volto umano, in ogni relazione d’amore come in ogni crocevia di strade. Duecento anni di grazia, di gioia, di scoperta, di tanti incontri; 200 anni di fatica per i passi fatti, di tanta gioia per le relazioni umane scoperte, di tanti momenti adorativi nella quotidiana Eucarestia, capace di riempire la vita e di dare al cuore la scossa dell’amore, che rende possibile il superamento di ogni difficoltà e ci rimanda continuamente a Lui.
“Porta il peso del mondo con te e vedrai i miracoli dell’amore di Colui che vi ha fatti solo per amore”.
Nei passati 200 anni di vita Luigina ho imparato tante cose. Per esempio, ho imparato a “non essere mai sorpresa dalle diversità” perché semplificando “l’espressione aritmetica” e cercando bene la posizione delle tante e diverse parentesi, alla fine, tutto torna alla semplicità e all’unità. Ho anche imparato ad “essere disposta a correre rischi e a sbagliare piuttosto di vivere nell’indifferenza e nel disinteresse”. Mi è stato insegnato, da maestri umili e saggi, di mai iniziare un lungo cammino senza essermi data, prima d’iniziare, una semplice metodologia capace di dare una certa guida al mio cammino stesso: dove voglio andare, qual è la strada da percorrere con rigore, “CHI mettere al centro delle mie motivazioni di cammino, CHI scegliere come compagni di viaggio e DOVE trovare la quotidiana razione di pane per alimentare la mia vita. Oggi, al compiere dei miei 200 anni di vita consacrata Luigina, voglio regalare a tutti coloro che lo gradiscono, il mio “Canto del Cigno”.
E’ un canto un po’ lungo, per la verità, ma con questo desidero, soprattutto, arrivare a tutte le mie Sorelle Luigine, sparse nel mondo, per essere voce della PAROLA, che è CRISTO SIGNORE. Ecco il mio “Canto ultimo” :
O Trinità beata, sapienza e amore eterno, unico vero bene e sicura speranza, io ti adoro e ti ringrazio perché Tu sei RELAZIONE PERFETTA D’AMORE.
Grazie, Padre amorevole, che con dovizia gratuita, passi dal Figlio allo Spirito Santo, e continui il tuo passaggio d’amore in un incontro di gratuità, in tutti gli Esseri che hai creato, dalla coppia umana fino al più piccolo atomo del cosmo.
Tu sei amore che invia, che dà ad ognuno la bella responsabilità di essere voce della tua PAROLA; Tu rendi libere le tue creature e poi le attendi al ritorno a Te; e qualora tardino, Tu Pastore amoroso, vai incontro alla pecorella smarrita, così come vai incontro al figlio che, partito da Te, a Te ritorna senza l’anello della dignità di figlio.
Grazie, Padre, per aver mandato il tuo Figlio Unico, per diventare fratello e, “goel” per tutti noi.
Grazie, Gesù. Con te non ho mai avuto segreti. Tu mi conosci fino in fondo. Nulla ti ho nascosto e nulla Tu hai nascosto a me. Per me e per tutti, Tu sei disceso da Dio, hai assunto una completa dimensione kenotica, hai vissuto per nove mesi nell’utero materno di Maria di Nazareth, sei nato a Betlemme, hai iniziato la tua vita su questo pianeta dove noi viviamo, come parte della cultura ebraica; Tu sei stato portato fuggitivo in Egitto e poi a Nazareth. Grazie per la semplicità e modesta tua vita a Nazareth e grazie anche per la tua vita missionaria a Cafarnao e il tuo grande e definitivo dono di salvezza, che hai offerto a tutti, a Gerusalemme, quando hai spezzato la tua vita per tutti noi, nell’Eucarestia. Grazie per aver sofferto passione e morte, e grazie per essere risorto, primizia di ogni creatura liberata.
Grazie, Signore, per il dono della PAROLA, grazie per LA CHIAMATA, grazie per la tua presenza in me, missionaria del tuo amore, Piccola voce della tua PAROLA, sposa in attesa di incontrarti per sempre. “MARANATHA! Grazie a Te, Spirito Santo, Signore e Vita, Spirito di Gesù Cristo, nostra forza e collant di ogni piccolo e grande segno di Amore.
FORZA – CORAGGIO- DIFESA E GRATUITA’ di Amore, vieni e continua il tuo delicato lavoro nel mio cuore e nella mia vita come in quella delle mie Sorelle Luigine. Rendimi capace di humilitas serena, di libertà convinta.
Fammi costruttrice di pace in ogni dove io giunga, fammi capace di grande rispetto per tutti e, attraverso di me, accendi il tuo fuoco dove regna l’indifferenza. Fammi testimone di Gesù fino alla fine, nel modo che tu vuoi. Rendimi sorella di S. Paolo, di S. Luigi, figlia di don Rubino e di tutti i tuoi martiri e santi.
Che Tu, TRINITÀ BEATA, possa essere lodata e glorificata da me, piccola creatura e da tutta le mie Sorelle Luigine. AMEN!
Una Voce
NB. La foto riporta un gruppo di Suore Oblate di San Luigi Gonzaga scattata durante un Capitolo generale.
ottobre 31, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Ho vissuto la mia vita nella gioia di aver servito Dio e nella certezza di aver concretizzato i valori delle suore di carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, comunemente conosciute con il nome di suore di “Maria Bambina”. Tali obiettivi sono stati realizzati dopo anni di esperienze iniziate tanto tempo prima. Io ho vissuto la mia infanzia e adolescenza in una famiglia modesta, ma ricca di valori umani e affettivi. Dopo ho iniziato a seguire un corso per diventare infermiera a Milano. La lontananza dalla famiglia mi ha fatto vivere, come succede a tutte le ragazze, una vita spensierata e più libera. Alcuni avvenimenti, però, mi spinsero a cercare e a riflettere sulle mie aspettative e le mie ambizioni esistenziali. Certo non pensavo che un giorno sarei diventata suora perché non avevo mai condiviso la vita consacrata.
Dio però mi cercava perché un giorno entrai in chiesa e lessi una pagina della Bibbia: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt 25,40). Questo meraviglioso passo mi ha indotto ad un grido di amore: “Eccomi, Signore”. Iniziai a seguire una direzione spirituale con un sacerdote che mi parlò di Santa Bartolomea Capitanio. Questa Santa, di fronte al dolore e all’ingiustizia della vita, sentì l’irresistibile il richiamo a quella “benedetta carità” dell’amabilissimo Redentore. Più conoscevo il carisma della Fondatrice delle suore di “Maria Bambina” e più mi rendevo conto che quella era la mia strada da seguire.
La scelta non fu affatto problematica perché entrai, dopo breve tempo, in noviziato. Avevo già conseguito il diploma di infermiera e, in questo periodo, continuai a perfezionarmi come caposala. Dopo la professione religiosa, lavorai all’ospedale “Gemelli” di Roma in più reparti tra cui quello della rianimazione dove operai per anni. Ero felice di offrire a Dio il mio operato in un contesto di sofferenza e ho sempre cercato, con la grazia di Dio, di alleviare questa dolorosa manifestazione dei malati per la sua maggior gloria e per il bene dei prossimi. Quanti malati ho visto e quanto tempo ho dedicato loro, arricchendomi di un’esperienza vitale perché, mentre assistevo loro “toccavo le membra di Gesù”. Vissi l’esperienza ospedaliera per 25 anni.
Il Pontefice Paolo VI, nel 1966, alla conclusione di un Capitolo generale, invitò l’Istituto ad aprirsi e ad andare “là dove più grande e urgente è il bisogno” (Bartolomea Capitanio). Per tali motivi lasciai l’ospedale e iniziai la vita pastorale in luoghi
particolarmente difficili della Sicilia, Campania, Calabria. Infatti ho vissuto il mio essere suora di carità in ambienti fortemente condizionati da estrema povertà, a causa di una quotidianità disagiata. Attualmente opero a Cosenza, dove già ero stata in precedenza. Il mio servizio si realizza in un quartiere molto degradato dal punto di vista socio/economico e morale. Tale situazione è aggravata da una forte disoccupazione che mi impegna a soddisfare anche i bisogni primari come quello del cibo. In tale contesto mi sporco le mani “nella povertà”, occupandomi molto dei bambini e degli adolescenti perché la loro esistenza richiede un forte richiamo morale e religioso. Negli ultimi anni mi hanno affidato, a completamento della mia opera di carità, il compito di segretaria dell’USMI regionale Calabria. Questa esperienza ha arricchito il valore della mia vita consacrata e mi ha dato l’opportunità di conoscere tanti altri carismi.
Cosenza, 29 ottobre 2014
Suor Damiana Frangi, SCCG
ottobre 14, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati

Il 26 settembre 2014, su invito di Sr Rita Del Grosso che lavora da anni all’interno della Casa di reclusione di Rebibbia a Roma, mi è stato concesso di varcare le soglie del carcere per prendere parte alla presentazione del libro “Pensieri … in libertà”.
Non nascondo l’emozione provata nel rispondere alle procedure di sicurezza richieste per i non addetti ai lavori. Entrare in un carcere non è mai un’esperienza piacevole, anche quando si ha la certezza di poter uscire in qualunque momento. Forte è stata l’empatia nei confronti di chi era dietro le grate e guardava all’esterno mentre venivo accompagnata e introdotta nella sala di presentazione del libro.
Invitata a prendere posto, pensavo di sedere tra gli invitati esterni, mentre solo durante la premiazione degli autori del testo, ho capito di avere accanto dei detenuti.
La compostezza dei loro atteggiamenti, il volto pulito, tradito alternativamente da espressioni di solidarietà verso i compagni premiati e da un velo di tristezza per i racconti che riflettevano i lori trascorsi, mi hanno indotto a pensare a quale colpa mai avessero potuto commettere. Non riuscivo a credere che fossero lì perché responsabili di qualche delitto.
I detenuti hanno affermato quanto la cultura possa aiutare a vivere la detenzione. Uno di loro ha raccontato come la riposta del Papa alla sua lettera lo abbia cambiato. Quella lettera oggi è affissa sulla parete della sua stanza e costituisce per lui motivo di vita, di speranza, di futuro da ricostruire. C’è stato chi ha descritto di aver scoperto come sia stato liberante scrivere nel e dal carcere e come questa esperienza lo abbia maturato. Del carcere purtroppo si parla poco, e quando se ne parla si riferiscono solo eventi di cronaca nera che non fanno altro che alimentare sentimenti di ostilità, di accusa, di avversione verso chi dovrebbe ricevere più solidarietà. Purtroppo la società libera si interessa (quando lo fa) di altre Istituzioni ma si dimentica troppo spesso della detenzione.
L’evento della mattinata, organizzato da Sr Rita Del Grosso e Radio Vaticana AXA – Cuori in Azione, ha avuto secondo me lo scopo di promuovere il valore della persona e della cultura nel segno di un dialogo che deve continuare tra chi è dentro e chi è fuori dal carcere. La circostanza è stata per me molto proficua e interessante per convincermi e convincere altre Religiose a mettere la propria persona a servizio di questi nostri fratelli ‘ristretti’. In questo contesto, ho capito quanto il ruolo delle Religiose sia fondamentale per la partecipazione all’opera di risocializzazione dei detenuti e alla loro rieducazione umana e spirituale sia attraverso il servizio pastorale, sia venendo incontro a esigenze personali che le strutture possono non essere in grado di soddisfare.
E’ una pastorale quella delle Religiose fatta soprattutto di ascolto e di mediazione. Nella vita ristretta, dietro le sbarre – dicono le Religiose che vi lavorano – forte è il desiderio delle persone detenute di essere accolte, ascoltate, capite. Impellente è anche la loro voglia di raccontarsi, di liberarsi da pesi tenuti gelosamente nascosti.
Due sono quindi le parole forti di cui non possiamo e non dobbiamo dimenticarci. Le ricordo come invito e sollecitazione: “Annunciate ai detenuti la liberazione come segno del Regno di Dio” e “visitate i carcerati perché sono il volto di Gesù Cristo”.
Sr Emma Zordan, asc
Referente USMI Nazionale
Religiose operatrici nelle carceri
ottobre 2, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
In questi anni di servizio ecclesiale all’ombra del cupolone mi sono ritrovata spesse volte a rivisitare con la memoria le tappe principali della mia vita, lasciando che il cuore si riempisse di volti, di nomi, di situazioni. Sono i volti di bambini, ragazzi, giovani, genitori, collaboratori che ho incontrato a scuola, nell’impegno pastorale in parrocchia per oltre 20 anni, e in varie altre esperienze significative, come quella nelle colonie estive, tra i terremotati dell’Irpinia, nella redazione di una rivista, nella quotidiana vita comunitaria. Mi hanno alimentata interiormente tanti rivoli di vita, di entusiasmo, di forza per cercare insieme cammini di novità e di verità.
Poi, improvvisa e inattesa per me, la svolta vaticana.
Cosciente che la mano di Dio ha guidato i miei giorni fino ad oggi, colgo, con cuore riconoscente, qualche particolare momento del mio servizio alla Chiesa, svolto in questi ultimi 24 anni.
Il 1° ottobre 1990 era iniziata per me la spola tra la mia comunità e un ufficio del Vaticano, per un compito da svolgere presso l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (A.P.S.A.), richiesto alla nostra Congregazione e accolto, dopo un non facile discernimento, in spirito di obbedienza e di amore alla Chiesa. Nel palazzo apostolico, dove si respirava la gioia della presenza quotidiana e familiare del Santo Padre, ho vissuto l’aspetto ‘feriale’ di un servizio ecclesiale, senza privilegi o distinzioni, senza flash mediatici, animata e sostenuta dal carisma di comunione delle Suore di san Giuseppe. Si è trattato di un lavoro di tipo amministrativo, in particolare nel settore della gestione delle risorse umane necessarie per gestire i vari compiti delle congregazioni, pontifici consigli ed enti della Santa Sede, svolto in costante e costruttiva collaborazione con superiori e colleghi.
La finalità ecclesiale ci coinvolgeva come in una grande famiglia, con la buona volontà e i limiti di ciascuno, al servizio della missione universale del S. Padre. Ho avuto tra le mani un gran numero di pratiche; in apparenza si trattava di ordinari documenti burocratici da studiare e portare a soluzione, ma dietro i quali ho cercato di cogliere sprazzi di vissuto di tante persone, volti di fratelli, situazioni di famiglie con gioie e fatiche, ansie e speranze, portando tutti in cuore e in preghiera.
Mi avevano molto colpita le parole pronunciate a braccio da Benedetto XVI, nel 2005 agli inizi del suo pontificato, in una visita ad alcuni uffici vaticani: “Noi lavoriamo perché le strade del mondo siano aperte a Cristo… perché il Vangelo, e così la gioia della redenzione, possa arrivare al mondo. Noi ci facciamo, per quanto possiamo, collaboratori della Verità, cioè di Cristo, nel suo operare nel mondo, affinché realmente il mondo diventi il Regno di Dio”. Insieme alla luminosa testimonianza di vita del Papa (ora emerito), esse sono state sempre per me una guida, specie nei momenti di fatica nel cammino.
Ora che questa esperienza di servizio si è conclusa, sento di dover tenere viva la “memoria grata” (EG,13) di quanto Dio ha scritto e operato nella mia storia, concedendomi di vivere una missione così particolare, senza alcun mio merito, in un ambiente unico nel suo genere.
Che cosa mi rimane in cuore?
Posso dire che è cresciuto in me un amore profondo alla Chiesa e al Papa. Ho avuto la grande gioia di aver ‘servito’ tre grandi Papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco, di averne colto, un po’ più da vicino, la statura alta della loro santità, la paternità tenera e forte del Pastore, a dimensione universale, la profondità della dottrina del Maestro della fede e il coraggio spesso eroico del Testimone. Ho capito, dalla tristezza provata in tante conversazioni, quanto sia necessario parlare della Chiesa come si parla della propria madre, con cuore di figli, soprattutto nei momenti in cui si vive (si è vissuto) la profonda sofferenza per la sua fragilità e limiti, comprensivi di tutte le nostre povertà.
All’amore per la Chiesa universale si intreccia in me quello per la Chiesa di Roma, che ha le sue radici nelle memorie gloriose degli Apostoli, dei martiri e di tanti santi; è la chiesa che continua oggi la sua missione di presiedere alla carità, al servizio dell’unità e dell’universalità, che si arricchisce della varietà delle culture e della fede dei popoli. Questo aspetto della cattolicità della chiesa, che si vive in modo tutto speciale a Roma, è stato per me un grande aiuto per allargare gli orizzonti della mente e del cuore, un continuo arricchimento per la mia vita di religiosa in una congregazione aperta alla missione ad gentes. L’esperienza vaticana mi ha concesso anche il dono di offrire un po’ del mio tempo al servizio dei poveri, accolti e amati dalle Suore Missionarie della carità, e di godere della presenza orante delle monache che si sono susseguite nel monastero ‘Mater Ecclesiae’.
In questo periodo in cui sto iniziando un nuovo capitolo della mia vita e mi trovo come di fronte a una pagina bianca di un diario, mi accompagna una domanda di Papa Francesco: “Ci lasciamo scrivere la nostra storia da Dio o vogliamo scriverla noi?”.
suor Margherita Colombero
settembre 19, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Nel mese di marzo 2014, la Prefettura di Verbania con i servizi Sociali ha chiesto alla Congregazione delle Suore di Maria Consolatrice l’aiuto per poter accogliere i profughi che anche la provincia di Verbania doveva ospitare. L’invito prima di tutto è arrivato da Papa Francesco quindi è stato accolto con gioia, ma come tutte le cose nuove che non si conoscono, anche con trepidazione e ansia.
Nei primi giorni di aprile i primi arrivi: 25 ragazzi, gran parte provenienti da Gambia e Mali, 2 dalla Costa D’Avorio, 2 dalla Nigeria. Arrivano alle ore 2 di notte in pullman dall’aeroporto di Genova, stanchi, spaventati, affamati con un borsone contenente poche cose. I vestiti che indossano sono quelli di quando sono partiti dalla Libia. Raccontano di aver camminato nel deserto per tanti giorni senza acqua né cibo; di essere stati picchiati in Libia. Dopo aver offerto loro cibo e acqua, vengono accompagnati alla toilette per la doccia e cambiati dagli indumenti sporchi; poi visitati, risultano tutti disidratati ma sani, tranne uno che è ricoverato in ospedale. Alcuni dicono di voler continuare il viaggio verso il nord dell’Europa, non hanno documenti. Si fornisce loro il biglietto del treno e il necessario per il viaggio; due di loro però sono individuati alla frontiera e rispediti al centro di accoglienza. Tutti, nonostante vengano dissuasi, tentano la domanda di asilo politico: una lunga attesa burocratica che può finire in un rifiuto da parte dello Stato italiano per mancanza di motivazioni.
Ricevono ascolto, cura, aiuto. La Questura dovrà schedarli per poter fornire loro un documento di identificazione che servirà anche per avere un codice fiscale e il diritto al servizio sanitario nazionale.
I primi giorni trascorrono tra i colloqui per comprendere le loro aspirazioni, le loro mete e dare a ciascuno un aiuto personalizzato. Si scopre che alcuni volti – individuati all’arrivo con una presunta data di nascita falsa perché il volto appare più giovane dell’età dichiarata – sono minorenni e il più piccolo fra loro ha solo 13 anni. I primi giorni passano. Intanto si tesse intorno a loro la rete del volontariato, giovani insegnanti che tra le lezioni all’università e il lavoro, si preoccupano di insegnare la lingua, la cultura e le norme comportamentali; gli animatori organizzano partite di calcio, visite guidate alla città e alla biblioteca comunale. La popolazione viene per capire quali sono i loro bisogni e portano vestiti, scarpe. ecc.
I servizi sociali intanto prendono contatti per procurare per il ragazzo di tredici anni una famiglia affidataria, tra le famiglie già conosciute per questa esperienza, e non tarda ad arrivare.
I ragazzi sono diventati sereni; non sono più gli stessi di quella notte, ma negli occhi si legge un velo di tristezza; se ne chiedo il motivo mi rispondono: “penso alla mia famiglia, alla mia mamma” e mi si stringe il cuore. Intanto si riceve la notizia dell’arrivo di altri 15, poi di 10, sempre africani; le storie sempre le stesse, alcuni tentano di andare più a nord, Germania, Svezia, Olanda. Anche noi abbiamo capito che, se chiedono di andare in Svizzera perché lì hanno dei parenti, è meglio che chiedano loro di venirli a prendere perché questo è l’unico modo per entrare. Abbiamo ricevuto alcune famiglie siriane con bimbi piccoli. E’ stato straziante vedere quei bimbi impauriti che, appena arrivati, non si lasciavano toccare; dopo un’ora invece allargano le braccia per essere presi in braccio. Queste popolazioni fuggono dalla guerra; non hanno subito maltrattamenti in Siria, hanno i loro documenti e anch’essi vogliono raggiungere la Svezia, l’Olanda e la Germania.
I ragazzi africani destano preoccupazione perché più i giorni passano, più cresce in loro la demotivazione, e la loro speranza rischia di consumarsi. I comuni qui intorno si sono organizzati per impiegarli in piccoli lavori, insieme a dei tutor e i ragazzi si dimostrano molto bravi, ma a casa trascorrono il tempo a letto o seduti a guardare il lago. Molte volte penso che un giorno per questi ragazzi la storia finirà, ma se non si potrà dire … e vissero tutti felici e contenti, perché la loro richiesta di asilo non verrà accolta, che ne sarà di loro? Anche nei loro cuori vive questo interrogativo e rende tristi i loro occhi che sembrano perdersi nell’infinito. Sono ragazzi giovani che si muovono come i nostri ragazzi, con le necessità e le aspirazioni dei ragazzi di vent’anni e che a volte compiono anche le stesse ‘scemenze’ dei nostri.
È una storia tutta da vivere più che da raccontare. Come la mia precedente esperienza missionaria in Africa anche questa esperienza è da vivere, non da raccontare. A volte mi sento come una mamma che, mentre si arrabbia perché il figlio disobbedisce o non risponde alle aspettative volute, ha il cuore pieno di amore e si gira dall’altra parte per non far vedere le sue lacrime che scendono copiose.
Suor Maria Teresa Da Re
Istituto Maria SS. Consolatrice
settembre 1, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
Mi chiamo Sr. Maria Evelyn Jonita Ratnaraj, appartengo all’Istituto religioso delle suore Oblate di Maria Vergine di Fatima. Un Istituto fondato in Italia, precisamente a San Vittorino in Roma, nel 1978 e approvato dalla Santa Sede nel 2001, durante il pontificato di Giovanni Paolo II.
Il nostro è un Istituto mariano, che affonda le sue radici nella spiritualità di Fatima. Maria Santissima apparendo ai tre pastorelli, chiese di offrire preghiere e sacrifici per la conversione dei peccatori e la salvezza delle anime: questo fare della propria vita un offerta a Dio per amore dei fratelli è diventato il nostro carisma…
Sono nata in Sri Lanka (Ceylon) il 1° Aprile 1975: giorno del “pesce di Aprile”. Di quel dì mia madre mi ha raccontato che nessuno in famiglia credette veramente alla mia nascita, pensando che si trattasse di uno scherzo. Così solo dopo avermi vista in ospedale hanno creduto! Inoltre, il vero scherzo fu che, mentre tutti aspettavano la nascita di un maschietto, sono nata io!
La mia mamma si chiama Mary Magdaline e il mio papà Christopher Ratnaraj. Mia madre è una teologa e mio padre è un ragioniere. Siamo sette figli, di cui io sono la quarta (4 femmine e 3 maschi). La mia famiglia è di origine cattolica, in essa, tra i miei parenti e i miei cugini, si contano 14 sacerdoti e 4 suore. Come è chiaro, il Signore non ha fatto mai mancare la sua benedizione!
Sono cresciuta in un ambiente religioso, circondata dall’amore di Dio e dalla sua protezione. Mamma e papà sono stati per noi figli una guida sicura in tutti i momenti della nostra vita. Pregavamo tutti i giorni il rosario e tutte le domeniche andavamo a messa. Mia madre era, ed è, una persona molto aperta, pronta a capire i nostri bisogni, e capace di intuire i nostri orientamenti, così ci dava tanti consigli per le nostre scelte di vita, lasciandoci sempre liberi.
La mia infanzia è stata tanto movimentata, perché ogni due anni cambiavamo casa, pur restando sempre in Wattala. Ci trasferivamo per motivi di lavoro, o anche a causa della salute del mio papà. Ci era necessario spostarci anche a causa dei mezzi pubblici, infatti, non avevamo la macchina, visto che in Sri Lanka solo i ricchi possono permettersela. La nostra è una famiglia normalissima, né ricchi né poveri, ma piena di valori e di affetto. I nostri genitori non ci hanno mai fatto mancare il necessario, non solo a livello materiale, ma anche curando con attenzione la nostra educazione. Papà si prendeva cura di noi: gli piaceva sistemarci, lavarci, vestirci, pettinarci e, in più, ci insegnava le buone maniere. Invece, la mamma si occupava degli altri lavori di casa e ci aiutava a fare i compiti.
Prima ancora di andare al catechismo sapevamo le preghiere a memoria, partecipare alla messa senza nessun problema e cantare i canti religiosi, grazie proprio a questa prima fase dell’educazione ricevuta dai genitori, dai nonni, dai parenti e dagli amici di famiglia. Tutto ciò è normale nel mio paese, infatti la famiglia è il primo luogo dove si impara l’amore per Dio e il rispetto per gli altri.
Ho iniziato la scuola all’età di 5 anni, direttamente dalla seconda elementare perché i maestri dicevano che ero molto intelligente. Insieme alla scuola, come tutti i bambini, ho iniziato anche a frequentare il catechismo, infatti in Sri Lanka il catechismo inizia contemporaneamente alla scuola ed è un percorso impegnativo e serio, che ha lo scopo di preparare le scelte della vita.
Io frequentavo il catechismo ogni sabato mattina e ci andavo volentieri, perché mi piaceva tanto sentir parlare di Dio, tuttavia non avevo nessuna intenzione di farmi suora.
Non consideravo mai l’ipotesi che io potessi avere la vocazione e non ero la sola a pensarlo! Mio zio sacerdote, vedendo che la nostra famiglia era molto religiosa, era convinto che qualcuno di noi da grande avesse abbracciato la vita religiosa. Lo pensava di tutti i miei fratelli, ma non di me! Io, infatti, ero ribelle e avevo già per il mio futuro altre idee e altri progetti.
Ho un ricordo molto bello della mia prima comunione: avevo otto anni e desideravo tanto ricevere Gesù. La suora che mi ha preparato alla prima comunione, oltre ad insegnare il catechismo, ci faceva conoscere la vita dei santi e a me piaceva molto ascoltarla, tanto che non saltavo mai una sola lezione. All’inizio dell’anno la suora ci ha consigliato di scegliere un libro di vita spirituale e leggerne tutti i giorni una o due pagine. Mia madre mi diede un testo che illustrava la storia delle apparizioni di Fatima ai tre bambini.
Fu per me una grazia leggere quel libro perché, anche se trattava di una storia lontana dalla mia realtà, avvenuta in anni lontani e diversi dai miei, sentivo che mi apparteneva, che mi cambiava dentro. Sentivo nel cuore il desiderio di fare qualcosa anche io per rispondere agli appelli della Madonna, che chiedeva ai bambini preghiere e sacrifici per la pace del mondo e la salvezza delle anime. Facevo tanti piccoli sacrifici e pregavo per queste intenzioni, pensando che, se Francesco e Giacinta, più piccoli di me, sono riusciti a fare quello che ha chiesto la Madonna, perché non potevo farlo anche io?
Questa la suora ci ha anche invitato a pregare tutti i giorni per due intenzioni particolari: io ho scelto di intercedere per le anime del purgatorio e per i sacerdoti. Ancora oggi continuo a pregare per queste intenzioni e continuerò fino alla morte!
Un mese prima della Comunione la suora ci ha parlato del tema della vocazione, dicendoci di chiedere al Signore questo dono per la nostra vita nel giorno in cui, per la prima volta, sarebbe venuto nel nostro cuore. Ricordo che questo pensiero mi fece molto arrabbiare perché non consideravo la vocazione adatta a me. Ne parlai con mia madre, che con un sorriso mi disse: «solo per questo motivo ti arrabbi così tanto? Se non ti va non pensarlo più». Al di là di questo, la preparazione alla prima comunione fu per me un periodo bellissimo. Mi dicevo: «devo ricevere Gesù, e siccome Gesù è buono, anch’io devo essere buona, altrimenti Lui starà male e soffrirà tanto». Mi ricordo ancora che il giorno prima della comunione, dopo essermi confessata, ho digiunato fino al giorno dopo, in attesa di Gesù. Prima di ricevere la comunione non ho bevuto nemmeno un bicchiere d’acqua e, anche se avevo fame, ho offerto tutto a Gesù. Quel giorno ho fatto l’esperienza viva di sentire Gesù dentro di me e desideravo custodire il mio Gesù come dono prezioso. Per Lui non volevo più litigare, non volevo più arrabbiarmi o rispondere male e desideravo obbedire ai miei genitori.
Ero una bambina molto vanitosa, vivace e libera, non avevo paura di niente e se una cosa mi sembrava giusta, secondo i miei criteri, la facevo.
A 14 anni ho fatto la cresima. In quel giorno sentii fortemente in me la presenza dello Spirito Santo, sentivo qualcosa diverso in me, una sensazione molto forte, che mi sconvolse nell’intimo e pregai tanto lo Spirito, affinché mi illuminasse. Non raccontai a nessuno questa esperienza così forte, né a mamma, con la quale di solito condividevo tutto, né alla mia sorella maggiore, che per me è come una amica. Non ne capivo fino in fondo il significato, ma ben presto decisi di non pensarci più. Una volta venne in casa un’amica suora di mia madre, la quale, vedendo che eravamo quattro ragazze, prese la mia mano e cominciò a dire a mia madre di mandare una delle sue figlie nella sua congregazione. Io, appena sentii questo, ritirai la mano da lei e scappai dicendo: «porta con te la seconda sorella, lei è più adatta per essere una suora, perché è molto pacata, calma e buona. Invece, io sono una “diavoletta”». Ma ancora il Signore bussò al mio cuore. In quell’anno incontrai una suora nella parrocchia, portava un abito lungo tutto celeste. Il suo velo era nero e nella cintura aveva un rosario. Sorrideva a tutti, ed era molta bella. La guardavo molto affascinata e dentro di me pensavo: «è così che deve essere una suora!». Era venuta dall’Italia per le vacanze e i suoi parenti abitavano proprio dietro casa mia, però io non l’avevo mai vista prima di allora. La salutavo solo da lontano e non capivo da dove nascesse questo mio interesse verso di lei. Era attirata dalla bellezza del suo abito, mi faceva pensare alla radicalità con cui il cuore si dona a Dio. Dopo un mese la suora ritornò in Italia e io ho continuato la mia vita, dimenticando questo evento. Avevo tanti amici, con loro stavo bene, giocavamo insieme e insieme condividevamo le idee e pensieri sulla vita. Dopo i 15 anni i miei amici cominciarono a vedere in me tanti piccoli cambiamenti, ero più calma e frequentavo di più la parrocchia e andavo spesso a messa. D’altro canto, anche io mi sentivo diversa e le cose di prima non mi attraevano più. Nel frattempo ho finito la scuola media (nello Sri Lanka si chiama G. C. E Ordinary Level, in scuola di St. Anne’s Convent) e ho iniziato la scuola superiore (G. C. E. Advanced Level, in St. Anthony’s girls School). Andavo a Colombo (la capitale dello Sri Lanka) tutti giorni, per frequentare la scuola e il dopo scuola. Stavo poco a casa e la maggior parte del tempo lo dedicavo alla parrocchia, perché appartenevo al Consiglio Pastorale, al Coro (2 lingue), al movimento per i giovani (Youth), ero catechista e appartenevo ad un movimento per aiutare i poveri (Charity Group). Nell’ambiente parrocchiale mi trovavo molto bene, per me era come una seconda casa. Addirittura tutte le domeniche tornavo a casa per il pranzo e poi ritornavo in parrocchia nel pomeriggio; papà mi sgridava, dicendomi di passare più tempo in parrocchia che in famiglia. Non rispondevo mai nulla alle provocazioni di papà, contando molto sul sostegno della mamma, senza il quale non facevo nulla.
In questi anni progettavo una vita come piaceva a me: pensavo ad una famiglia mia con 3 bambini, ad un buon lavoro e a fare carriera nell’ambito professionale. Appena terminata la scuola ho iniziato a studiare computer, ho fatto “Computer software Engineering” (informatica ingegneria). Nel frattempo mi sono fidanzata con un ragazzo che abitava vicino casa mia; veniva a casa mia perché era un amico di famiglia e nessuno sapeva del mio fidanzamento con lui. Ma qui avvenne il grande rovesciamento della mia vita, perché, invece di essere felice, mi sentivo sempre triste e mi sembrava di aver perso qualcosa di importante della mia vita e volevo scappare via da lui. Così ho capito di non esser fatta per la vita matrimoniale e cresceva in me la domanda circa la mia vocazione alla vita religiosa. Ho pregato tanto per chiedere la luce al Signore per capire quello che mi chiedeva, per conoscere ciò che abitava veramente nel mio cuore. La mia grande preoccupazione non era solo capire il progetto di Dio su di me, ma anche farlo capire ai miei genitori, ai miei fratelli e alle mie sorelle, da cui mi aspettavo di essere derisa e un sicuro rifiuto. Come potevano accettare questa mia decisione, loro che ben conoscevano il mio carattere e le mie idee.
Nel frattempo in questi lunghi anni la suora proveniente dall’Italia, e che tanto mi affascinava, continuava a venire in Sri Lanka per le vacanze, così un giorno ho trovato il coraggio di andare a trovarla, insieme alla mia mamma; quel pomeriggio abbiamo parlato di tante cose, ma mai dell’argomento vocazionale, perché ne avevo molta paura. Inoltre, in questi anni l’Istituto a cui apparteneva, aveva persino cambiato l’abito ed io, ora, ero confusa.
La suora mi ha lasciato il numero del convento in Moratuwa (30km da Colombo, che stata aperta nel 1997), dove risiedeva una comunità e ci siamo congedate promettendoci una preghiera reciproca. La mia mamma ha intuito qualcosa di ciò che vivevo dentro di me e, senza intromettersi “fra me e Dio”, mi domandò semplicemente: «Adesso che cosa voi fare? Pensaci bene».
In quel periodo frequentai alcuni corsi per completare i miei studi, iniziai a fare del volontariato in parrocchia e presso il centro dell’Istituto dei Cleritiani, i quali mi hanno chiesto di lavorare con loro, anche come segretaria. Ho lavorato persino nella loro libreria, aiutandoli nell’attività vocazione del loro istituto. Così ho conosciuto tanti sacerdoti e tante suore e tutti sapevano che ero in discernimento. Molti mi chiedevano di entrare nel loro Istituto, di fare una prova nelle loro congregazioni, ma io rifiutavo perché non mi sentivo attirata da nessuno dei loro carismi e continuavo a pensare a quella suora, in fondo sconosciuta, ma che parlava al mio cuore. Ero convinta che, se il Signore avesse voluto, sarei entrata nell’Istituto di quella suora venuta dall’Italia, della quale possedevo solo un numero di telefono: non sapevo il nome dell’Istituto, non conoscevo il loro carisma. Più tardi il numero di telefono si rivelò sbagliato, infatti quando chiamavo non rispondeva mai nessuno. Iniziò a divenire difficile capire cosa il Signore mi stava indicando. Tutti mi dicevano che prendevo in giro me stessa e gli altri, che non ero fatta per la vita religiosa e che non sarei mai riuscita a diventare una religiosa. Tante volte mi scoraggiavo e piangevo, in quei momenti cercavo di appigliarmi solo a Dio, mia sola sicurezza, colui dal quale non mi sentivo mai abbandonata. La stessa cosa diceva anche mia madre, mi ripeteva sempre ricordati che “tutto succede per il nostro bene” (ancora oggi queste parole mi risuonano dentro, infondendomi grande pace). Quando i miei familiari hanno saputo della mia decisione di consacrarmi a Dio hanno subito un vero e proprio “shock” e mi hanno opposto una grande resistenza. Gli unici a sostenermi sono stati il mio zio sacerdote, mia madre e, in un secondo tempo, anche il mio papà. Tutti gli altri pensavano che avessi qualche problema mentale, che fossi disperata e o che avessi paura di sposarmi, per questo ho affrontato tante sofferenze, difficoltà, incomprensioni e conflitti dalla maggior parte delle persone che conoscevo. Dicevo al Signore: «Cosa vuoi da me, dove sei in tutto questo che sto affrontando? Non capisco niente, vedo tutto buio davanti a me, dammi una luce!». Nel 2000, in occasione del Giubileo, è stata organizzata una mostra per presentare la storia del cristianesimo in Sri Lanka. Il responsabile, Mons. Emmanuel Fernando, attuale vescovo ausiliare di Colombo, che io già conoscevo da tanti anni, chiese a tutti gli Istituti religiosi di presentare il loro carisma e il loro apostolato. I Cleritiani decisero di mandare me come loro rappresentante a questo grande evento, che mi diede la possibilità di conoscere tanti seminaristi, suore e sacerdoti. L’ultimo giorno della mostra incontrai una signora, la quale mi diede un volantino che presentava la storia e la missione di un nuovo istituto….e quale sorpresa nello scoprire che si trattava proprio di quello che stavo cercando da tanto tempo. Il 25 Marzo del 2001 con la mia mamma andai a trovare le suore. Da quell’incontro decisi di dedicarmi con tutte le mie forze all’approfondimento della mia vocazione: lavoravo sei giorni a settimana e gli altri due andavo dalle suore per conoscerle. Il 25 marzo del 2002 sono entrata in convento: fu la grazia più grande della mia vita. Mi sentivo al posto giusto, era proprio quello che desideravo da sempre. Finalmente mi sentivo a casa! I miei genitori mi hanno accompagnata con amore fino alle porte del convento e lasciandomi mi dissero: «se non ti troverai bene e ti dovessi accorgere che questa non è la tua strada, ricordati che la porta di casa è sempre aperta. Tu puoi tornare quando vuoi». Avevo tanta paura: sapevo che stavo rinunciavo a tutto per dire il mio “Sì”. Affidarmi al Signore fu l’unica via che mi portò alla pace e alla gioia. Il Signore in questi anni mi ha purificato tanto e mi ha dato sempre la grazia per affrontare tutto, standomi sempre vicino con la sua fedeltà e la sua misericordia. I primi tempi sono stati molto duri (quando sono entrata avevo 26 anni), a causa dei tanti tagli, dei tanti cambiamenti che questa nuova vita comportava. Mi sembrava di dover ricominciare tutto da capo! Una voce interiore, però mi spingeva: «vai avanti non fermarti».
Il giorno della mia professione è stato il giorno più bello giorno della mia vita, la gioia più grande di tutte. L’ho celebrato nel 2009 in Sri Lanka, fu un vero e proprio evento, sia per la mia famiglia che per la mia parrocchia, infatti, era la prima volta che si assisteva ad una professione religiosa pubblica. Tutti erano contenti, anche i miei familiari: piangevano di gioia per me. Durante la messa sentivo solo la presenza di Dio e nient’altro. Solo Lui può dare la gioia senza limiti e senza riserve: come una sorgente quando sgorga dalla terra. Esplode, scorre continuamente senza fermarsi mai, perché vuole raggiungere il mare. Il mare è la meta della sorgente! L’amore di Dio è il mare che può riempire la vita di felicità eterna, quella pura, quella di essere la sua sposa.
Oggi sono qui a lodare il Signore e a ringraziarLo per sempre. Nella formazione ho studiato in varie scuole: l’ultima è stata l’USMI, iniziata tre anni fa. Questi 3 anni mi hanno aperto la mente e allargato la visione della vita. Studiare con tante suore provenienti da tutto il mondo è stata una ricchezza grande: scambio di cultura, di mentalità, di abitudini. Tutte unite da un unico scopo, quello di diventare buone catechiste nella Chiesa e per il mondo. Abbiamo fatto un bel cammino insieme, proprio come una famiglia, accettando la diversità e accogliendo l’altro come un dono. L’amore di Cristo si è manifestato su ognuno di noi, lo stesso amore, ma in un modo unico. Così ciascuna di noi porta il Cristo attraverso la propria testimonianza di vita unica e irripetibile.
Sr. Maria Evelyn Jonita Ratnaraj
luglio 18, 2014 - Posted by admin2 - Commenti disabilitati
La grazia del Signore è sempre sovrabbondante ed eccedente. L’ho sperimento in me e nella mia vicenda di donna e religiosa.
Nel periodo formativo da giovane suora (tanti anni fa) il mio istituto mi ha orientato allo studio della catechetica presso la Pontificia Università Salesiana di Roma, un’esperienza di studio e di vita che mi ha segnato in modo forte. Erano gli anni ’80, anni di ricerca di grande comunione ecclesiale …. Ho aperto il mio cuore e la mente a grandi orizzonti, ho vissuto l’incontro con varie culture ed esperienze ecclesiali, ho imparato uno stile e un modo di procedere nella conoscenza e nell’approfondimento che è diventato un po’ mio patrimonio.
Pian piano, dove l’obbedienza religiosa mi ha inviato, ho potuto mettere a frutto i semi gettati in me in quegli anni e inserirmi nell’ambito della catechesi prima diocesana e poi anche a livello nazionale.
La bontà del Signore mi ha sempre preceduto ed è Lui che, attraverso varie richieste, a volte impensate, attraverso possibilità che si sono aperte al di là di ciò che potevo pensare, mi ha delineato la strada di un mio modo particolare di essere nella Chiesa: accompagnare gli annunciatori del Suo Vangelo.
La passione per l’annuncio, la possibilità di individuare strade nuove, mi ha sempre accompagnato ed è diventata una attenzione costante nel servizio che ho potuto svolgere in varie realtà. Ho insegnato catechetica prima all’Istituto di Scienze Religiose e poi allo studio Teologico di Camaiore affiliato alla facoltà teologica dell’Italia centrale e ho sperimentato la gioia di condividere, di accompagnare tutti coloro che desideravano annunciare Gesù e il suo vangelo, anche i futuri preti con i quali poi ho continuato rapporti di collaborazione.
Il lavoro sul campo, l’attenzione alle persone, la sperimentazione concreta sono diventati materiali utili da raccogliere; avevo mantenuto dagli anni di studio il contatto con Padre Rinaldo Paganelli (dehoniano) ed è stato possibile e bello unire le esperienze e i vari lavori in sussidi e strumenti che nei corsi degli anni abbiamo potuto stampare. E’ stato per me un mettere a disposizione a più persone quello che stavo facendo, le intuizioni tradotte in strumenti per la formazione dei catechisti e sussidi a vari livelli.
Ho scoperto che non ci si può fermare nello studio e nella ricerca e, mentre collaboravo con l’Ufficio catechistico della diocesi di Lucca ed entravo in gruppi di lavoro nella Consulta dell’UCN della CEI, ho maturato la possibilità di raccogliere l’esperienza di anni di servizio alla formazione dei catechisti con il lavoro di dottorato.
Ringrazio il mio Istituto che mi ha permesso di concludere gli studi anche con questo momento accademico dopo anni di lavoro con i catechisti. Ho scelto di affrontare il tema della formazione dei formatori perché nella mia esperienza avvertivo l’urgenza di lavorare sui processi formativi.
Oggi i tanti catechisti, gli accompagnatori degli adulti, gli annunciatori della Parola sono animati da grande generosità, da passione per il Signore e la sua Parola, ma molte volte sono lasciati a se stessi; ricevono una formazione insufficiente, solo strumentale o solo contenutistica, non c’è un cammino di sostegno e chiarificazione delle motivazioni, non si attua l’ accompagnamento durante il loro servizio. La formazione è spesso risposta ad ansiose domande metodologiche oppure è contenutista frontale e dottrinale. A mio parere è importante una formazione che integra tutti gli aspetti della persona, che sia attenta sia al processo come al contenuto.
Ho cercato perciò di offrire, a partire dalla mia esperienza, un modello diverso di formazione o come ha scritto qualcuno: “Ho voluto togliere ogni grigiore a questo termine e ridargli le note della induttività, creatività, fantasia”.
Il testo che ho pubblicato “Formare i formatori: nuovi processi formativi” è un lavoro che sottende la necessità di cambiare la prassi formativa dei catechisti, non solo proponendo contenuti diversi, ma individuando anche una struttura formativa nuova, che parta proprio dalla definizione dei formatori dei catechisti. Gli operatori preparati a tale compito sono infatti pochi e non sempre hanno le abilità necessarie ad accompagnare, ma solo formatori in grado di proporre formazione catechistica in modo rinnovato, potranno assicurare un reale cambiamento e una coerente valorizzazione del movimento laicale dei catechisti, così come si è arricchito in questi ultimi tempi. Solo attraverso formatori, e di conseguenza catechisti, in grado di stare nella complessità e nel cambiamento con lo sguardo evangelico e con lo stile di Gesù, la Chiesa che è in Italia potrà individuare a percorrere strade per “educare alla vita buona del vangelo”.
La formazione dei catechisti ha bisogno di cambiamento perché il cammino comune dell’evangelizzazione possa essere sempre più vicino alla realtà di tutti noi; e questo cambiamento deve diventare una continua evoluzione del nostro essere. Per questo è necessario accettare alcune sfide che riguardano sia chi forma, sia chi riceve la formazione.
Solo chi vive l’incessante novità della vita di Gesù può raccontare una proposta che non invecchia, attraverso un Vangelo sempre nuovo e reale; solo entrando nella logica della gratuità si può capire che il Vangelo è davvero un regalo, non è dovuto, ma donato, e come dono offrirlo.
Oggi più che mai chi propone il Vangelo dovrà fare in modo che la sua proposta non si ponga come obbligo, ma come invito libero che offre respiro e sguardo nuovo alla vita.
Chi forma, quindi, si lascia riscrivere dalla vita, sa guidare senza costringere, apprende mentre offre; accetta di mettersi sempre alla prova e di vivere il cammino formativo con fiducia nelle possibilità della vita e di Dio.
Chi riceve la formazione, invece, diventa soggetto attivo, capace di esprimere le proprie attese; sa di avere in sé un’umanità “nuova” da condividere e fede da far crescere; prova il desiderio di entrare nel gioco della relazione con chi, come lui, sta crescendo, senza aver paura di sbagliare.
Solo così potrà lasciare il proprio modo di vedere le cose per vivere altre dimensioni.
Il cambiamento della formazione ha come condizione irrinunciabile il superamento dell’individualismo formativo, perché solo insieme ci si aiuta a crescere, ci si educa mentre si educa, ci si forma mentre si “dà forma”.
La ricerca e la passione formativa mi ha permesso di accompagnare con giornate di studio, convegni e percorsi formativi alcune comunità ecclesiali dove ho vissuto, ma anche in altre realtà diocesane su specifiche e precise richieste.
Da parecchi anni questa attenzione si è resa concreta nella conduzione in équipe, dell’esperienza estiva della scuola nazionale per i formatori dei catechisti organizzata dalla rivista “Evangelizzare” in collaborazione con l’UCN prima a La Mendola, poi a Malosco e da alcuni anni a Siusi.
Ho diretto per una decina d’anni la rivista “evangelizzare”, unica in Italia per la formazione e l’accompagnamento di questi formatori, chiusa proprio quest’anno dopo alterne vicende e passaggi a causa di problemi economici dovuti al calo degli abbonati.
Vivo questo servizio alla Chiesa con molta passione e creatività; sento che mi appartiene l’invito del beato Luca Passi, fondatore dell’Opera di santa Dorotea e dell’Istituto di cui faccio parte, di collaborare a una nuova visione di Chiesa dove il laicato è protagonista dell’opera “della Salvezza” insieme a tutte le altre forze ecclesiali.
Dentro di me nutro molte volte la profonda compassione per tutti quegli uomini e donne che mettono a servizio della comunità cristiana le loro risorse ed energie e non sono sostenuti e aiutati … Questa profonda commozione che mi prende ogni volta che li incontro si trasforma in vicinanza, cura, accoglienza.
E’ il mio modo di essere Dorotea e religiosa, è il mio stile formativo che, maturato negli anni, si innesta nell’esperienza del vangelo e allora può contagiare altri.
Come afferma papa Francesco sento una grande riconoscenza “per il bell’esempio che mi danno tanti cristiani che offrono la loro vita e il loro tempo con gioia. Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale aspirazione a superare l’egoismo per spendermi di più” (EG 76).
Con i numerosi evangelizzatori che oggi rendono bella la chiesa, con tutti coloro che si lasciano trasformare dal vangelo mi pongo in ascolto dell’imperativo che l’Evangelii Gaudium ci propone come sfida: “Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario”!
E’ ciò che vivo e desidero comunicare con i giorni della mia vita, quelli che il Signore mi regala in questo tempo così diverso da altri, ma così inedito, così difficile, ma anche così ricco di possibilità, un tempo abitato dalla Grazia del Signore Vivente che sempre ci precede in ogni “Galilea”
Sr Giancarla Barbon, SMSD
Consigliera generale