Prof. Pier Luigi Guiducci
Università Pontificia Salesiana
La paura, in ogni persona, è un fatto normale. Anormale sarebbe non averla. Se in un ascensore in movimento si verifica qualcosa che lo blocca, scatta subito in chi sta dentro un meccanismo di vigilanza.
La paura è espressione di questa normale vigilanza.
Evidentemente tale stato d’animo ha dei parenti più o meno stretti.
Mentre il timore ha il volto del rispetto e della prudenza davanti alla novità di una vicenda non prevista, l’ansia è un qualcosa che può far leggere il reale in modo alterato.
Se, poi, viene a farci visita il panico, allora l’orizzonte lascia il posto a una costruzione del nulla. Tace il riferimento oggettivo e grida la creaturalità che si sente ingiustamente bendata.
Quattro chiacchiere tra noi
Alla luce della riflessione succitata ci possiamo avvicinare alle voci che hanno arricchito anche questa puntata di un dialogo corale e quindi vario.
Leggendo alcune frasi mi è sembrato di tornare a scuola.
Dietro a un banco, con il tema da svolgere, si guardava la finestra per trovare quella benedetta ispirazione che tardava sempre a far capolino.
Scrivo questo perché le diverse risposte danno la sensazione di annotazioni teoriche e poco personali. Insomma, in mancanza d’altro, scriviamo qualche bella idea, e condiamola con qualche detto o proverbio che non guasta mai.
Prima di mettermi la cenere sul capo per tanta sincerità, mi permetto spiegare meglio il mio pensiero. Ho avvertito il fatto che tutti hanno preferito parlare sulla paura e sulla sicurezza senza manifestare il proprio vissuto. Senza ricordare qualche fatto. Qualche ricordo lasciato in un angolo della mente.
Conclusione: nessuno si è aperto (anche se i compiti sono stati svolti molto bene e la sufficienza è stata raggiunta da tutti).
Perché parlare della paura?
A questo punto ci si potrebbe chiedere. Perché ho paura? O meglio: perché ho delle paure?
Qui il discorso diventa importante. La paura nasce dal fatto che esistono dei momenti della vita ove occorre scegliere.
E, davanti a una realtà difficile, io posso avere tre scelte: o indietreggio, o rimango immobile, o aumento la spinta in avanti.
Se indietreggio evito il confronto. Sfuggo il problema. Costruisco un rapporto relazionale equivoco (che finisce per essere stagnante).
Se non mi muovo non vanifico energie ma perdo nell’identità. Sono una figura anonima. Rimango spettatore (segnato quindi da passività).
Se accelero i movimenti, le iniziative, le proposte, i tentativi e altro, posso non essere compreso. Posso risultare noioso, “eccessivo”, invadente (segnato quindi da etichette sfavorevoli).
Da qui la paura. Le paure. Gli interrogativi. L’auto-criticità.
Damose ‘na mossa
In realtà, a ben vedere, uno schema come l’ho disegnato in precedenza, è perdente fin dall’inizio.
Tutto sembra un problema. Non c’è una via di uscita.
Il motivo è legato al fatto che manca un dato essenziale: la capacità di iniziativa derivante dall’incontro tra intelligenza e fede.
Quando Giovanni Paolo II ripeteva una frase dialettale romana (“damose ‘na mossa”) voleva far riferimento a un impulso che nasce nel mondo interiore della persona e che si sviluppa in una rete relazionale.
In tal senso, l’iniziativa si fa partecipazione, convergenza e sostegno a un disegno condiviso.
Tutto questo è molto importante per chi vive all’interno di una comunità religiosa, ma è anche estremamente rilevante per chi fa parte di una “chiesa domestica”, cioè di una famiglia.
È vero che le iniziative personali possono anche trovare ambienti sonnolenti, realtà nebbiose, messaggi scoraggianti, prospettive di scalate solitarie, ma è anche vero che ogni identità si fa segno nell’azione. E quest’ultima è sostenuta dalla preghiera e dal sacrificio (attenzione: ho scritto sacrificio non vittimismo).
La sicurezza è un alzar di testa
A questo punto, sperando di non essere condotto al rogo, mi sembra importante smitizzare la sicurezza e presentarla per quello che è.
La persona può essere sicura anche se non ha, come mia moglie, un “giusto” orientamento quando guida l’automobile.
La persona può essere sicura anche se dimentica (è il mio caso) di comprare il caffè che serve a inizio mattina a quattro soggetti “vivi e vitali”.
La persona può essere sicura anche se arriva il tempo in cui comincia a dolere la schiena, la vista fa capricci, e si borbotta un po’.
La persona può essere sicura anche se i condizionamenti dell’oggi fanno diminuire le feste e aumentare, ad esempio, le fila all’ufficio postale.
Perché tutto questo?
Perché la sicurezza non è legata a delle capacità particolari ma al senso della vita.
Non si è sicuri perché si controlla la situazione (tutto è transitorio), perché si domina, perché si primeggia, perché si vive meglio degli altri,
ma si è sicuri perché rimane nel cuore il valore di ogni istante che passa e che non andrà mai perduto.
Non temere
Si è arrivati così (grazie per non avermi fucilato) all’incontro con Colui che può dire “non temere”.
Meditando sulla Parola di Dio ci si accorge che tale espressione non è mai isolata.
Accanto al “non temere” si affianca sempre un nome di persona (Maria, Giuseppe…), o un gruppo di persone (apostoli pescatori), o la definizione stessa di Chiesa (“piccolo gregge”).
E quel “non temere” non è solo rivolto a persone in carne ed ossa, a persone “storiche”, ma è funzionale a vicende che – pur piccole – diventano segno della misericordia divina e – nel loro insieme – parte dello stesso Mistero di Redenzione.
Se, per un momento, si fa attenzione alle dinamiche evangeliche, ci si accorge subito che il “non temere” scavalca la scelta umana dell’indietreggiare, del restare immobili, o dello scattare in avanti, per condurre piuttosto verso una normalità di cammino.
La storia degli uomini, in tal modo, non è più una fila di vicende ripetitive e incerte, ma è un camminare dietro i passi “di Lui”.
A questo punto rimane in cuore non la lacerazione dei dubbi irrisolti ma l’invito ad essere dei risorti: nell’aiuto vicendevole, nella condivisione di ciò che è essenziale, nella compagnia fedele.
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