La scelta di invitare al nostro tavolo virtuale soprattutto donne, offre già una prima chiave di lettura dei pur diversi contributi su tematiche che interpellano certamente tutti, ma che, forse, fanno vibrare con più immediatezza e intensità alcune corde particolarmente sensibili dell’universo femminile. Il binomio ascolto / ben-essere mi sembra ne sia una prova perché mette subito allo scoperto un nervo femminile neppure così nascosto: è il bisogno insopprimibile e dichiarato di essere in relazione e, dunque, accolte da un cuore in ascolto in cui riversare se stesse, per riconoscersi come persona unica e irrepetibile, ritrovando quell’equilibrio pacificante che fa star bene con se stesse e con gli altri.
Questa, almeno, è la prima impressione che ho avuto sedendomi anch’io al tavolo, in ascolto delle “voci”: sì, più che leggere, ho ascoltato, per entrare anche più direttamente nel gioco delle parti. Il frutto del mio ascolto – che certamente è ancora acerbo! – è maturato attraverso due fasi:
– un primo approccio frettoloso mi ha dato l’idea di un contributo globale un po’ scontato, come se le diverse voci si fossero appiattite attorno ad un unico accordo per concludere che l’ascolto apre alla relazione e favorisce il ben-essere. L’unica voce maschile ha tentato anche una sintesi: «In una parola la ricerca del ben-essere insita nel desiderio di felicità di ogni uomo passa per la dimensione dell’ascolto verso Dio e verso chi il Signore ci mette accanto». Di fatto nei contributi si è dato molto più spazio alla “parola” ascolto, cercando poi di metterla in rapporto con il ben-essere, con un’operazione che appariva appunto persino un po’ semplicistica e banale:
– ma la rilettura più pacata, con evidenziatori di diversi colori alla mano, e lo sforzo appunto di “ascoltare” mentre leggevo, mi ha dato un altro esito, facendomi cogliere i “distinguo” delle diverse voci su cui mi soffermo per invogliare a un ulteriore approfondimento.
Fate attenzione a come ascoltate (Lc 8,18)
Come non prendere sul serio, nel nostro ascolto quotidiano, questa indicazione di Gesù? Infatti i contributi, con toni differenti, hanno posto l’accento sul “come” ascoltare.
Per stabilire una relazione d’amore ci vuole un vero ascolto, un sincero “mutuo dirsi” che va oltre il semplice “porgere l’orecchio” – si precisava – un ascolto che produce empatia e sollecita la disponibilità a uscire da se stessi per accogliere e incontrare l’altro.
Scriveva Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (1964): «Bisogna ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo per comprenderlo, rispettarlo» (ES, 198).
È importante ricordare che se ogni incontro vero e profondo tra persone che si ascoltano crea dialogo, non ogni dialogo è incontro, se mancano le condizioni essenziali che i contributi hanno messo a fuoco, perché l’ascolto apre al ben-essere e lo consolida nella misura in cui è una pratica quotidiana del nostro vissuto, esercitata nei confronti di noi stessi, dell’altro, del nostro Dio che Gesù, il Verbo fatto carne, ci ha rivelato.
Interessante anche la sottolineatura della voce forse più giovane, sulla necessità di fare attenzione non solo a “come”, ma anche a “chi” ascoltiamo: «Noi giovani dovremmo selezionare chi ascoltare, farci guidare da qualcuno che scremi per noi il buono e il cattivo ascolto, perché aprire le orecchie a chi non merita può provocare danni. Non dobbiamo ascoltare le sirene che ci instillano sfiducia, disincanto e pessimismo».
Anche il rapporto silenzio-ascolto è messo in risalto come essenziale: nella nostra società «si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. Impresa certo non semplice, se già Eraclito definiva i propri simili come «incapaci di ascoltare e di parlare»: da allora forse abbiamo l’impressione di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma certo quanto ad ascolto sembriamo tornati indietro di secoli. Abbiamo bisogno di una pedagogia dell’ascolto che può prendere le mosse solo dal silenzio. Ci è necessario da un punto di vista prettamente antropologico, perché l’uomo, che è un essere di relazione, comunica in modo equilibrato e significativo soltanto grazie all’armonico rapporto fra parola e silenzio (Enzo Bianchi).
E infine è davvero stimolante il richiamo alla «armonia dei sensi come obiettivo per arrivare ad uno stato di ben-essere», cogliendo «la differenza sostanziale tra il vedere e il guardare, tra il sentire e il saper ascoltare». Quasi a dire che l’ascolto – quello che si radica nel Shema’ Israel (Ascolta Israele!) con cui inizia la preghiera del popolo ebraico a richiamare la dimensione di ascolto insita nell’alleanza tra Dio e l’uomo – convoca tutti i sensi per creare un vero spazio di accoglienza dell’altro. Nell’ascolto sincero, infatti, si riesce ad andare al di là delle parole per leggere e interpretare anche gli accenti, i silenzi, gli atteggiamenti, lo sguardo. Soprattutto lo sguardo ha un’intensa valenza comunicativa. Il primo ascolto è degli occhi. Lo sguardo va oltre le apparenze, annulla la distanza e crea la presenza. Chi evita lo sguardo, lascia intendere che non gradisce né l’incontro né il dialogo; evita di entrare nel campo visivo dell’altro e del suo mondo per una relazione dialogica.
Come non pensare all’ascolto di Dio descritto nel Primo testamento, soprattutto nei salmi, come non guardare a Gesù mentre ascolta i discepoli e le folle, le donne, i piccoli e i poveri, gli avversari e gli amici? Un Dio che parla, prende l’iniziativa del dialogo, fa domande e ascolta davvero i suoi figli tanto da cambiare pensieri e decisioni, un Dio che «guarda dal cielo e scruta tutti gli abitanti della terra» che tende la mano e il suo braccio destro … E poi Gesù che cammina tra la gente, incontra, ascolta, parla, guarda – e il suo sguardo cambia la vita … -, si fa prossimo, tocca le ferite per sanarle, piange, prova compassione …
La qualità del ben-essere
«La qualità del Benessere nei diversi momenti della vita»: ho letto ieri questa scritta sul sacchetto di una parafarmacia che faceva propaganda a integratori nutrizionali! Benessere scritto con l’iniziale maiuscola a segnare la differenza rispetto a un benessere consumistico, mi ha richiamato il “trattino” che vuol appunto evitare l’attribuzione alla parola di un significato riduttivo, mentre mi ha fatto pensare la specificazione di una “qualità” del benessere che dà un colore e un tono prevedibilmente diversi nei vari momenti della vita.
E a questo punto recupero qualche “campanello d’allarme” suonato al nostro tavolo virtuale: nell’incontro con l’altro potremmo cercare soltanto la soddisfazione del nostro bisogno di essere ascoltati senza renderci conto che il frutto di un buon ascolto ricevuto ci abilita a farci, a nostra volta, “buoni ascoltatori”. Bisogna chiederci apertamente perché ascoltiamo e che cosa chiediamo all’ascolto: forse corriamo troppe volte il rischio di cercare il nostro ben-essere, inteso come un “sentirsi bene” che non è un bene, perché si ferma al livello dell’emozionalità e dell’illusione di un ritrovato equilibrio psico-fisico che non raggiunge l’interiorità più profonda e che, quindi, è fragile e effimero.
Ho ritrovato una citazione di Pavese che mi sembra intercettare questa ambiguità che può colpire il binomio ascolto/ben-essere: «Perché poi si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che agli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi stessi da altri…» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 15 maggio1939).
Come contrappunto mi viene in mente una citazione cara a Edda Ducci, indimenticabile “maestra” dell’ascolto e del dialogo, amica e sorella che ha accompagnato tanti nostri cammini formativi: è la definizione che Socrate dà di sé come uomo dialogico dicendo «grande è il piacere di confutare, ma più grande è quello di essere confutati, tanta è la voglia di verità, tanta è la brama di essere liberati dall’errore» (Gorgia, 458 a).
Il ben-essere di cui trattiamo non si identifica, dunque, con il “sentirsi bene” perché confermati nelle nostre idee, in dolce armonia con noi stessi e con tutto il pianeta e i suoi abitanti, cullati dal sottofondo di una musica new age. Il ben-essere a cui tendiamo è di “stampo paolino”: si sta bene quando si fatica per il Vangelo, quando l’ascolto ci conduce a caricarsi del peso dell’altro, quando si rifiuta la mondanità e si cammina controcorrente secondo lo Spirito, quando si è disprezzati e perseguitati … Quello che conta è poter dire, alla fine della nostra “corsa”, di “aver conservato la fede”. Si è nel ben-essere anche quando patiamo nel combattere la nostra “lotta spirituale”, quando come credenti ci sentiamo messi ai margini, persino compatiti nel nostro pur fragile impegno di essere non solo ascoltatori ma “facitori” della Parola (cfr Gc 1,22-24); siamo nel ben-essere quando ci mettiamo dalla parte di chi soffre e cerchiamo di condividerla, perché l’ascolto empatico ci impegna in una solidarietà esigente, sull’esempio di Gesù che ci ha amato “sino alla fine”.
E chiudo questo mio “puzzle” di pensieri e suggestioni che le voci del tavolo virtuale hanno suscitato in me e che avrebbero certo bisogno di una sistemazione più organica e elaborata, con l’evocazione della virtù della mitezza, considerata vile e disprezzata dai “mondani” – come diceva San Francesco di Sales – eppure virtù dei forti che dà “qualità” a quel ben-essere che apre all’ascolto e che dall’ascolto è nutrito e incrementato.
Ascoltiamo, dunque, un’ultima voce che appartiene alla cultura “laica” più seria e sensibile ai valori per imparare anche “dal mondo” una lezione sull’ascolto e l’accoglienza dell’altro, nel segno della gratuità che profuma di divina umanità: «Il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé, non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione, il mite invece rifiuta la distruttiva gara della vita per un profondo distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più. Il mite attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità. Non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata» (cfr N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche Editrice 1998).
Per questo i miti, umili ascoltatori e facitori della Parola, sono beati e avranno in eredità la terra (Mt 5,5).
suor Azia Ciairano
azia@missionariemortara.it
Responsabile Ufficio Missioni
Usmi Nazionale
Vedi anche:
Commenti recenti