Ciao! Come stai ? Dove stai ?

Un’esclamazione  “Ciao”! e due interrogativi  “Come stai?  Dove vai?”

L’esclamazione manifesta stupore, crea prossimità, fa comprendere che esiste un’alterità a cui ci si può riferire. Ciao! Sblocca la solitudine; proietta la persona al di fuori di sé, dal freddo di un’esperienza di isolamento al calore di un “tu” che si può guardare  negli occhi per cogliere la temperatura del suo cuore, di un “tu” al quale si può stringere la mano, senza timore di contaminazione, come segno di comunione e di partecipazione, di desiderio di affrontare l’oggi ed il domani come  “figli dello stesso Padre”, sotto lo stesso cielo, sostenuti da un amore che supera le differenze razziali e religiose, linguistiche ed etniche.

Ciao! E’ un saluto di antica matrice veneziana: “s-ciao”, “sono suo”, “schiavo”.

Mi richiama alla mente il termine comunione: “Scambio di doni, doni messi in comune”. Il Signore Gesù si dona a me, io mi dono a Lui che mi sollecita a diventare dono al fratello, perché io sia dono vero a Lui, e di Lui!

Il “migrante” che comunemente è visto e considerato come “intrigante”, quando m’incontra, mi saluta sorridendo: “Ciao! Ti ricordi di me?. Io mi ricordo di te. Quando venivo a scuola di italiano, mi sentivo accolto e seguito con paziente amorevolezza. Mi hai donato speranza, fiducia e la possibilità di migliorare, di uscire dalla difficoltà di comunicare e di comprendere i messaggi verbali degli Italiani. Per quelli  “gestuali”, be’…., a volte sarebbe bene non comprenderli per non sentirmi emarginato, rifiutato, intrigante… (nel suo significato italiano e dialettale). Ma…tu mi hai insegnato ad andare oltre, e perdonare. Grazie!”.

Vorrei ritornare sul termine “intrigante” che nell’esperienza quotidiana del “migrante” significa “ti do fastidio; per te sono un impiastro, uno che ostacola il tuo cammino, che ti ruba il lavoro e le tue cose, uno che non la pensa come te, che non ha la tua stessa religione, il colore della pelle…”.

“Chi è il migrante?” E’ un vivente, posto dal Signore sulla nostra strada, perché camminiamo insieme verso di Lui. Noi, forse, preferiremmo incontrare un monumento. Eh, già! Il monumento ci ricorda il passato; la storia attuale acquista il volto della nostra responsabilità.   Spesso, nel suo peregrinare il migrante s’imbatte in una gamma di persone, dai bimbi agli anziani, che trattano il cane come se fosse un “signore”. A volte l’ho sentito: “Signore, se tu mi avessi fatto cane, sarei trattato come il “nobile” della famiglia!

Perché mi hai fatto uomo! donna?!”

Come è vera e raccapricciante questa nostra storia!

Anche a me è capitato di incontrare sotto i portici e in piazza alcune signore, vestite all’ultima moda, truccate all’inverosimile, stringersi intorno ai loro cani, completamente non curanti dei loro bimbi lasciati là, nelle loro lussuose carrozzine, in balia di se stessi. Sarei potuta allontanarmi con uno di loro senza che le madri se ne accorgessero. I bimbi non attirano. Le loro mamme sono “mamme di cani o di gatti!”. Le frasi piene di tenerezza che una volta si rivolgevano ai figli oggi sono rivolte agli animali: “Vieni, tesoro! Vieni dalla tua mamma!”.

E chi è il tesoro? E chi è il figlio? “Un cane”, “un gatto”!

No, non è possibile che la compassione, l’attenzione, lo sguardo, il saluto siano focalizzati più su un animale che su una persona!

Il migrante, uomo o donna, è figlio dei Dio vivente, è l’immagine vivente di Dio.

Come si può lasciarlo solo, abbandonarlo al suo destino? Come si può sottovalutarlo fino a considerarlo meno di un cane!?.

È questo un aspetto deludente della nostra civiltà ed il peggio è che molti “cristiani devoti” si comportano così.

L’inverno scorso una giovane donna di colore suonò alla porta di una struttura creata appositamente dalla diocesi per offrire un pasto caldo ai migranti “con o senza dimora” ed anche a quelli Italiani che vivevano sulla strada. Chiedeva di essere accolta con la sua piccola creatura. La notte era rigida.

La suora che aveva ascoltato la richiesta della donna si era subito attivata per trovare un posto letto “altrove” per quella mamma piangente che stringeva tra le braccia, avvolta in una povera copertina, la sua creatura.

Strutture di accoglienza ed istituti religiosi avevano risposto negativamente, non so se con “verità”. La povera signora doveva rassegnarsi a dormire all’addiaccio?. Per i cristiani interpellati sì!

Ma Dio non poteva non ascoltare il grido di quella madre.

Attirata dal pianto pietoso, una “prostituta” si avvicinò, si rivolse con cordialità e tenerezza all’africana e, come venne a conoscenza della sua accorata richiesta, senza pensarci su due volte, le disse: “Vieni! Ti aspetto a casa mia!”.

Chissà come rimase la suora!…

Il Vangelo di Gesù ci ricorda che “le prostitute ci precederanno nel Regno dei Cieli!”.

Immagino il sorriso di Dio, sorriso di un Padre contento, perché “la pecora nera” della società aveva compreso a fondo la Parola del Figlio: “Ero pellegrino e mi hai ospitato”, “ospitando quella donna, hai ospitato me”. Sconvolgente!

Che lezione per noi che ci riempiamo la bocca di roboanti parole di carità!

Cominciamo ad allenarci partendo dall’esercizio più semplice: il saluto.

Il nostro semplice saluto verso questi nostri fratelli può risuonare così in loro: “Nel tuo cuore c’è spazio per me. Per te sono importante, si perché ti sei accorto di me. Ora so che qualcuno mi ama, mi ricorda. Non mi sento più solo!”.

E’ necessario, però, che il nostro “semplice saluto” diventi un “saluto semplice”: voce e sguardo vibrano all’unisono con il cuore, senza maschere e senza trombe altisonanti con le quali spesso cerchiamo di coprire le crepe profonde del nostro “dirci cristiani”, “religiosi”, “devoti” di un Dio che nonostante i nostri blindati pensieri, è l’unico Padre di tutti.

Questa non è polemica, ma accorato richiamo a riconoscerci tutti “figli” di uno steso Padre ed a convertire il nostro cuore.

Ho voluto espressamente usare la dicitura “senza dimora” anziché come abitualmente si dice “senza fissa dimora” perché i migranti sono “senza dimora”, mentre  “senza fissa dimora” oggi sono i ricchi che ora sono nella loro casa in città, ora in montagna o al mare, ora in località all’estero o come “turisti” o come “vacanzieri” o come “uomini d’affare”.

Come stai?

E’ strano! Una persona in difficoltà s’interessa a noi, pensa alla nostra situazione.

Noi non siamo abituati ad uscire dal nostro mondo per guardare all’altro che non conosciamo, alla sua realtà esistenziale, soprattutto quando le cose ci vanno male o siamo oppressi dalle nostre “terribili” depressioni.

Quella che un migrante rivolge a chi incontra sulla sua strada non è una domanda convenzionale, una frase fatta legata al saluto, un interesse personale celato, o il suo ridotto bagaglio linguistico per cui non può dire altro.

“Come stai?” è la conseguenza logica di un primo approccio avvenuto tramite un “Ciao” o un “buongiorno”…

In pratica vuole sottolineare il fatto che un saluto non può restare là, inerme; esige un passo in avanti e questo diventa “interesse per l’altro”, per ciò che è: sguardo, voce, cuore e quindi prossimità, persona con la quale si desidera condividere qualcosa… Per realizzare ciò è fondamentale che egli conosca la realtà dell’altro, almeno a livello fisico; se poi “l’altro” vorrà svelarsi, l’ascolto attento, premuroso, reso più vivo dalla mimica facciale, accompagnerà la parola.

Tutto questo richiede reciprocità. Il migrante attende di sentirsi dire: “…e tu come stai?”, cioè m’interessi, ti do un istante del mio preziosissimo tempo.

Spesso, però, presi come siamo dal nostro egocentrismo, non ci accorgiamo che riceviamo un aiuto, povero sì ma gratuito, per ritornare ad essere uomini e donne capaci di umanità, e non semplicemente macchine talmente programmate da non accorgerci più degli altri perché, purtroppo, non abbiamo più il tempo per accorgerci di noi stessi.

Questa domanda ci spinge ad esprimere un giudizio su noi stessi, sulla superficialità delle nostre frasi rivolte in fretta per chiudere un dialogo mai nato ed andare oltre. Già nel Vangelo c’è un andare oltre: levita e sacerdote vedono, forse odono, e passano oltre, presi da impegni impellenti, da una ritualità che schiavizza.

GESU’ è l’unico per il quale il termine “oltre”, “il giorno oltre il sabato”, è pieno di libertà: dà tutto di sé, vive la persecuzione nelle sue diverse sfaccettature e, condannato… e abbandonato dai suoi, finisce sulla Croce. Ma… tre giorni dopo e precisamente il giorno “oltre” il sabato, risorge. Sì! Risorge, perchè l’amore non muore, non può morire perchè è più forte della stessa morte: “Forte come la morte è l’amore!” (Cantico dei Cantici 8,6).

E’ appunto questo “oltre” che percorre tutto il Vangelo; scritto con espressioni diverse, spinge al superamento di… per creare con… e per…

Perché mi cercavate?” Lc 2,49 è un invito ad uscire da schemi che escludono la novità di GESU’, uguale e diverso…

Prendi il largo e gettate le reti per la pesca!”

Maestro, abbiamo faticato tutta la notte…” (Lc 5,4-5) è la sollecitazione ad andare “oltre” la propria esperienza convalidata da anni di lavoro.

Perché pensate così nel vostro cuore?” (Lc 5,22) è uno stimolo ad andare “oltre” le proprie idee religiose, a volte più ideologiche che cristianamente vissute.

Vedi questa donna?” Lc 7,44 è un’esortazione a guardare dentro di sé per togliere ogni discriminazione e pregiudizio ed essere capaci di ricostruire relazioni lasciandosi guidare dalla gratuità del perdono.

“Come stai, fratello… sorella… che il Signore ha messo sulla mia strada?”.

“Come stai davanti a me che sono “un diverso”, perchè non sono italiano, che sono un ostacolo sul tuo cammino?”. “ Come stai” cioè “ Come ti senti ora che mi hai incontrato? Che cosa cambia del tuo progetto di vita? Sono una persona: senti la mia voce, vedi il mio volto, cogli nel mio sguardo tutta la mestizia di chi, straniero, cerca fraternità e non la trova.

Non puoi andare “oltre” affrettatamente, spegnendo i contatti. Se sono sulla tua strada, è perchè noi, insieme, possiamo costruire un mondo diverso.

Credi a questo?”.

 Dove stai?

Interesse o curiosità inconcepibile? Ma come mai che uno che nemmeno conosco, che per caso incontro sulla mia strada, si permette di rivolgermi una domanda che è in netto contrasto con il declamato concetto della privacy?

Che abbia intenzione di venire a disturbare la mia quiete familiare o, ancor peggio, di fare una piccola visita per derubarmi di quello che in questi anni, con fatica, ho accumulato?

Cosa gli rispondo? Che la sua è una domanda impertinente? Che è uno sfrontato?   un’impiccione e che è meglio che mi lasci in pace e non mi importuni?

                                               ***

Ho un lampo di genio: risolverò il mio dilemma rivolgendogli la stessa domanda: “Dove stai?” Gli occhi del migrato si illuminano.

Non ho risposto, è vero, ma nemmeno ho chiuso il dialogo con lui, non l’ho liquidato con un “interessati dei fatti tuoi!”

C’è ancora una possibilità, un piccolo spiraglio di luce che, se Dio vorrà, potrà via via diventare una porta aperta.

Ciò che succede nello snodarsi del racconto è come una spina che ho magistralmente tentato di tenere lontano e che ora tocca la mia pelle e, a poco, a poco penetra tra i tessuti e li fa sanguinare.

Edy, questo è il suo pseudonimo, mi racconta il suo pellegrinaggio verso i diversi ponti della città, tra il freddo rigido dell’inverno e la “freschezza”, poco gradita, dell’acqua che scorre, avendo per materasso alcuni cartoni sovrapposti per isolare l’umidità;  per riparo una coperta trovata nei cassonetti della “Caritas”, per compagni dei “ratti” che scorazzano su e giù dal ciglio dell’argine al gelo dell’acqua; per soffitto le stelle  che lo riempiono di nostalgia per il suo Paese natale.

Qualche notte dorme alla stazione, per terra, sulla soglia delle porte chiuse. Edy guarda con occhio smarrito le persone che vanno e vengono trascinando le loro valigie. “Come sono fortunate!” pensa,” Indossano cappotti pesanti, giacche a vento, pellicce… I loro piedi calzano scarpe adatte alla stagione …Non hanno problemi per la notte: riparo ed ogni conforto sono assicurati”

Altre notti soprattutto d’estate, l’attende una panchina dei giardini. Gli uccelli, più fortunati di lui, riposano tranquilli nei loro nidi tra le folte chiome degli alberi. E di giorno?

Edy cerca lavoro. Bussa a diverse porte. Se trova persone accoglienti, gli vien chiesto ciò che sa fare. Questo spesso è una scappatoia per dimostrarsi disponibili. Poi concludono: “Non abbiamo bisogno. Ci dispiace!”

Così il sogno di una stanza, seppur piccola, tutta per sé sfuma sempre di più.

E’ piacevole ascoltare Edy, mentre mi racconta le sue disavventure ma anche piccoli quadretti di persone gentili che, anziché dirgli bruscamente. “torna al tuo paese. Siamo troppi noi!” gli rivolgono un saluto, un sorriso e, qualche volta, tendono una mano e lasciano cadere una moneta.

Ma questa piacevolezza è adombrata dal ritorno di quella scomoda domanda: Dove stai?”. Dove abiti?”, che nel Vangelo amo leggere: Dove dimori ?

E’ la stessa domanda che Andrea e Giovanni rivolgono a Gesù: “Maestro, dove abiti?” e Gesù risponde: “Venite e vedete!” e l’evangelista completa: “…e rimasero con Lui quel giorno: Erano le quattro del pomeriggio.“

Il verbo abitare significa rimanere. Allora potremmo leggere così: “Maestro, dove rimani”

“Venite e rimanete!”

“E rimasero con Lui”.

Questa domanda del “fratello” migrante è semplicemente un aiuto per il cristiano che forse si è scordato che la strada che percorre è vera solo se traduce in pratica il Vangelo.

“Cristiano, dove rimani?” cioè Qual è la tua dimora?

E’ quella di CRISTO o una dimora solo normale?

Se sei cristiano solo di nome e il tuo agire è difforme dal Vangelo, questa domanda ti dovrebbe svegliare per recuperare la bellezza di seguire CRISTO, perché GESU’ è stato un migrante, un richiedente asilo politico: là dove abitava, era in corso la strage degli innocenti.

Don Carlo Steeb è stato un migrante, ha “dimorato” presso alcune famiglie, è stato aiutato dai nobili Veronesi dopo essere stato diseredato dal padre.

Qualcuno si era pure prestato ad insegnargli l’italiano e poi…si era talmente integrato da essere considerato “prete veronese” a tutti gli effetti.

“Dove stai?” è un interrogativo che ciascuno di noi dovrebbe porsi per togliersi l’involucro del “benpensante” e considerare seriamente la situazione del proprio cuore, incapace di delicatezze ad un amore più libero perché più cristiano.

Il migrante fratello non ci porta malattie come solitamente si sente dire. Ci aiuta a liberarci, a guarire da quella malattia che ci distrugge lentamente che è la “telefania”, quella sete di apparire che soffoca e non rende manifesta la profondità del nostro essere.

E’ vero. Oggi vale solo apparire. La bellezza dell’anima pura non suscita scalpore.

Aprire la porta ad un migrante significa aprire il proprio cuore.

La bontà, parola ormai obsoleta”, cambia il cuore, prima o poi, anche del delinquente, del diverso, dell’incredulo e, probabilmente, anche il nostro.

Il vero povero sa condividere anche un pezzo di pane col forestiero. Se la nostra mano è chiusa, se il nostro cuore è indurito, certamente non dimoriamo più nel profondo del nostro essere. Così cerchiamo affannosamente altre dimore per riempire di vacuità il vuoto, il non senso della nostra vita.

                                               ***

“Fratello se non posso dimorare nella tua casa, fammi almeno dimorare nel tuo cuore. Ti prego, fratello, abbi pietà di me pellegrino. Il SIGNORE ti parlerà”

Suor Deanna
Suore della Misericordia di Verona
Opera a Padova con i migrantes

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