In Italia si muore di carcere – Fragilità e contraddizioni della giustizia penale
…Leggi e istituzioni penali possono dirsi veramente umane se operano in funzione dell’affermazione e dello sviluppo della dignità del colpevole. L’obiettivo è il recupero, non la pena in sé. Ma siamo veramente capaci di pensare il colpevole come persona da rispettare, salvare, promuovere ed educare? (C. M. Martini).
Il carcere è una realtà che ci riguarda tutti perché tutti siamo impastati di bene e di male; eppure è certo che nessun male può snaturare o svalorizzare la dignità umana. Che in Italia le carceri – con tutto ciò che ad esse è collegato – siano in una situazione vicina al collasso è noto da tempo; ma questo importa davvero a qualcuno? D’altra parte forse per qualcuno è facile riconoscere un proprio simile, in tutto e per tutto, nella persona che si macchia di certe colpe gravi?
“Mentre mi arrestavano mi hanno pestato”. Sono parole che echeggiano pesanti dopo la morte sospetta di Cristian De Cupis, da molti considerato già il nuovo caso Cucchi. ‘Un arresto difficile con un esito inaspettato’, la prima ricostruzione dei fatti.
La giustizia in Italia: promessa o miraggio?
Nel nostro Paese non c’è la pena di morte, eppure la ‘questione carcere’, per i fatti che in esso accadono, è drammatica e per questo tanto più urgente. Vi si muore a volte per le percosse subite; altre volte per cure mediche non ricevute; sempre più spesso di suicidio. C’è una stretta relazione fra l’alto tasso di suicidi (anche di agenti della polizia penitenziaria, non solo di detenuti!) e le condizioni disumane in cui sono costrette i rinchiusi: celle minuscole, carenze igieniche e strutturali, risorse insufficienti, sovraffollamento in crescita, carenza di personale… con tutte le conseguenze immaginabili.
Questione di dignità in una democrazia avanzata
Occorre accompagnare il detenuto perché sappia ricostruire la propria vita. Non solo tenerlo in una cella. Invece, soffocati come sono da un affollamento che rende impossibile ogni possibilità di reinserimento sociale, i nostri istituti penitenziari facilmente diventano non un luogo di redenzione, ma, per tanti, una nuova scuola di delinquenza. Questo accade in una democrazia avanzata che annovera tra i valori primari della sua Carta Costituzionale il principio secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il male va sempre segnalato e sanzionato e non taciuto o ignorato. Ma il diritto di vivere come “esseri umani”, insieme al rispetto della persona, che è valore fondamentale della nostra civiltà occidentale, devono essere garantiti anche negli istituti penitenziari. Il nostro Parlamento certamente è responsabile di omissione in questa materia. La questione rimane aperta come una ferita dolorosa. Eppure basterebbe cominciare con una riforma seria del codice penale che tolga la prigione per i reati meno gravi.
Giustizia come armonia sociale: appelli inascoltati
Molti sono gli allarmi e gli appelli – rimasti purtroppo finora inascoltati – che da più parti denunciano una situazione giunta ormai a livelli di disumanità. Per tutti citiamo il più autorevole, che è venuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. In occasione del convegno “Giustizia! In nome della Legge e del Popolo sovrano” nel luglio scorso ha denunciato “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari. Inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile è l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona”. Ma anche questo richiamo è stato accolto da una generale indifferenza dell’opinione pubblica.
“Non c’è uomo per quanto reo di colpe, che non possa essere recuperato”
In carcere ci sono i detenuti e, insieme a loro: guardie carcerarie, militari, cappellani, volontari; suore che vivono qui per essere più vicine alle sofferenze di cui sono testimoni; suore come Enrichetta Alfieri, beatificata nel giugno 2011, detta la madre dei carcerati e definita dal non credente Indro Montanelli epicentro di ogni speranza nel carcere milanese di San Vittore. C’è anche chi radicalmente scosso dalla realtà del carcere e dalla compassione di alcuni esseri umani, si avvia a un vero processo di conversione. Non meraviglia questa potenza di Dio, legata spesso alla conoscenza della Parola e all’esperienza di un amore umano incondizionato e gratuito.
Cosa hanno da dire i cristiani?
Là dove cresce il dolore è terra benedetta. Un giorno o l’altro, voi tutti riuscirete a capire cosa significa questo (Oscar Wilde). Per dirla in altri termini: occorre un cambio di mentalità che può nascere solo da una conversione del cuore. È facile per tutti, per esempio, confondere la domanda di sicurezza con quella di “più galera per tutti”. Il problema è complesso, ma certo la realtà del carcere, così come è oggi, più che garantire, insidia la sicurezza di tutti.
Quello che ebbe a dire Martin Luther King a suo tempo Non temo le cattiverie dei malvagi; temo piuttosto il silenzio dei giusti, rimane valido anche oggi. Ci è chiesto di uscire dal torpore e di acquisire una consapevolezza nuova della realtà. Non esistono persone solo negative o unicamente capaci di fare il male, identificabili perciò nel reato; in ognuno convive frumento buono mescolato a zizzania. Ed è compito del cristiano ricordarlo: a se stesso e agli altri. La giustizia della Croce non toglie il male dal mondo, ma lascia i problemi affidati alla nostra libertà e responsabilità. Il valore grande di ogni persona, diventato memoria del cuore, orienterà e muoverà ognuno ad agire di conseguenza.
Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it