Archive for the ‘Comunicazioni Sociali’ Category

Agenda di speranza per il futuro dell’Italia

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
ott 11 2010

È ormai vicina la 46ª Settimana Sociale dei cattolici italiani (Reggio Calabria, 14-17 ottobre 2010), che si prefigge di offrire al Paese, dove la distanza fra chi opera in ambito politico e la generalità dei cittadini si è fatta abissale, un’Agenda di speranza che apra ad un futuro possibile.

Cattolici nell’Italia di oggi

Il cammino verso questo appuntamento importante per la Chiesa e per l’Italia è durato due anni, favorendo la diffusione e l’approfondimento della dottrina sociale della Chiesa, che è anche terreno di incontro e di dialogo con chi ha visioni ideologiche e culturali diverse. Anche la comunità cristiana in qualche modo è immersa in quell’individualismo lacerante dove ognuno tende a guardare principalmente al proprio interesse. Serve un impegno nuovo per una progettualità condivisa. Occorre una più profonda consapevolezza che formazione delle coscienze e trasformazione delle strutture camminano insieme. È questo infatti che permette una più vera lettura dei segni dei tempi, che a sua volta possa diventare un segno per il nostro tempo.

Fra i problemi individuati

Il Comitato scientifico e organizzatore della Settimana ha elaborato un’analisi severa e certamente non compiacente dei problemi della nostra società; una sintesi larga e specifica: 35 pagine di domande sul quadro complessivo e sulle situazioni del momento, volte a discernere la nozione concreta di ‘bene comune’, ad entrare nel merito delle soluzioni e delle alternative realistiche, e ad aprire alla necessità del confronto pubblico.

Fra i problemi prioritari individuati:

 - La lotta alla povertà, e alla esclusione sociale, creando le condizioni per tutti di una vita buona, degna di essere vissuta in tutte le condizioni e le stagioni.

- La crescita del Paese a partire dal Mezzogiorno, uscendo dalla contrapposizione sterile che spesso vede da una parte i detrattori del nostro Sud e dall’altra coloro che preferiscono tacere o sottostimare i problemi che sono ancora irrisolti (lavoro, disoccupazione…).

- La priorità dell’educazione, il bisogno di riscoprirsi comunità educante e di prendere in carico la crescita delle nuove generazioni.

Impegno pubblico: condizione della speranza

Quella che stiamo vivendo non è una bella stagione per la politica. Di fronte alle grandi sfide che la società pone, l’attenzione sembra concentrarsi sui risultati per ottenere consensi e qualsiasi azione è ritenuta lecita pur di ottenerli. Il nostro Paese, attraversato da una grave crisi culturale e spirituale, sembra sempre più avviato al declino. A partire da questo contesto e su questo sfondo, il rilancio di un messaggio di speranza, che ci si aspetta da Reggio Calabria, appare particolarmente importante perché se -come ha sottolineato Luca Diotallevi- “la politica non ha il monopolio del bene comune”, certamente però la sfera pubblica non è irrilevante per la stessa sfera privata. Ai cittadini cattolici si chiede di avviare concreti meccanismi di partecipazione di base come condizione indispensabile perché si possa tornare a ‘sperare’; di individuare perciò le ‘cose da fare’: un’agenda condivisa appunto delle priorità, che eviti il rischio di fermarsi ad una semplice dichiarazione di intenti. Neppure i religiosi e le religiose sono avulsi dai problemi sociali. Molti nostri Istituti, sotto la spinta dello Spirito, sono nati per affrontare e, possibilmente, risolvere situazioni sociali di emergenza, per ‘farsi carico’ di realtà fragili, umanamente e cristianamente deboli. Anche questa ‘settimana’ potrebbe offrire stimoli concreti per una rinfrancata fede e un rinnovato coraggio.

Da più parti si rileva la necessità di una nuova generazione (non intesa per forza in senso anagrafico) che sappia misurarsi con i problemi reali del Paese, che abbia un quadro chiaro della Dottrina sociale della Chiesa e nello stesso tempo sia concretamente radicata sui territori. Questo permetterebbe ai valori di indirizzare davvero le azioni. Creerebbe certamente futuro e non solo consenso.

 Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

ONU: Nasce l’Ufficio per i diritti delle donne

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
lug 21 2010

A New York, il 6 luglio 2010 le Nazioni Unite hanno creato, dopo anni di dibattiti e negoziati, l’ “Ufficio per i diritti delle donne”, in inglese Un Women, per migliorare la condizione della donna nel mondo. Il nuovo organismo, istituito con un voto dell’Assemblea Generale, assorbirà quattro agenzie dell’Onu che si occupavano già della condizione della donna e si concentrerà esclusivamente sulla promozione dei diritti delle donne a livello globale, regionale e locale. D’ora in avanti sarà molto più difficile per il mondo ignorare le sfide che le donne sono costrette ad affrontare.

Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in una nota diffusa al Palazzo di Vetro, ha commentato: UN Women rafforzerà in maniera significativa l’impegno delle Nazioni Unite per promuovere l’eguaglianza di genere, ampliare le opportunità per le donne ed affrontare le discriminazioni.

La struttura avrà sede a New York e sarà guidata da un vice-segretario generale che sarà nominato prossimamente da Ban Ki-moon. L’alto funzionario, una volta nominato, sarà membro di tutti i più importanti organi decisionali ONU e farà rapporto direttamente al Segretario Generale. Avrà a disposizione un budget iniziale di almeno 500 milioni di dollari. Le sue operazioni saranno finanziate da contributi volontari, mentre il bilancio regolare delle Nazioni Unite finanzierà l’attività normativa.

UN Women avrà due ruoli chiave: supportare gli organi inter-governativi nella formulazione di politiche e norme e aiutare gli Stati membri a rendere effettive queste regole, fornendo sostegno tecnico e finanziario ai Paesi che lo richiedono e creando collaborazioni con la società civile. Inoltre, UN Women aiuterà anche il sistema ONU a rendere conto dei suoi impegni sull’uguaglianza di genere e a monitorare regolarmente i progressi di tutto il sistema.

Donna oggi

La condizione della donna, anche nella nostra società occidentale, nonostante i traguardi pur raggiunti, rimane problematica e non smette di lasciare insoddisfatte soprattutto le donne più pensose e più esigenti. Ma sembra purtroppo che molte donne abbiano perso, oggi, il gusto e la responsabilità del prendere l’iniziativa di fronte alle molte criticità esistenti. Così spesso si accontentano degli obiettivi raggiunti, rinunciando a farsi interpreti dell’originale sensibilità, che è solo loro, nel leggere i fatti.

Donna oggi nella Chiesa

Nel magistero degli ultimi pontefici, a partire dal Concilio Vaticano II , cresce l’attenzione alla donna. Il Magistero della Chiesa ha espresso intorno alla questione femminile, alcune tra le posizioni più vive e lungimiranti (cfr Mulieris Dignitatem -1998, Lettera alle donne -1995). Ma la vita dei cristiani e delle comunità, si sa, cammina con un passo più lento e più stanco di quello dei documenti, tanto che non manca chi ritiene che, rispetto ai primi cristiani, oggi si sia fatto un passo indietro. Persiste nella vita sociale una sottile emarginazione della sensibilità femminile – così insostituibile invece in tutti gli aspetti di vita che coinvolgono le relazioni umane e la cura dell’altro. Questo minaccia quello stile di vita nel quale si manifesta con chiarezza il genio della donna, come Giovanni Paolo II lo ha chiamato nella Mulieris Dignitatem. Oggi c’è anche da superare lo iato tra la progressiva affermazione delle donne nella società e l’invisibilità ecclesiale.

Visibilità e autorevolezza della donna

Le donne, sempre ricercate e apprezzate per il contributo di acume, di finezza intellettiva e di concretezza con cui riescono ad essere presenti sui vari fronti della vita di ogni comunità, sono realmente una presenza vitale nella Chiesa; ma questa loro presenza diviene normalmente invisibile nei momenti pubblici e istituiti, quelli nei quali si è legittimati a rappresentare e parlare a nome della Chiesa, quelli nei quali si tengono le relazioni più qualificanti o si prendono decisioni che ricadranno su tutti. Con questo non si tratta naturalmente della rivendicazione di ruoli di potere; non è nemmeno la ricerca di una omologazione o, peggio ancora, l’affermazione di una supposta superiorità di genere. È solo la domanda di riconoscimento di una dignità. O forse, molto più semplicemente, è un invito a comprendere meglio il disegno di Dio; a capire come Lui vuole che si operi nella storia lasciandosi prendere per mano dalla Sua Parola, che sempre conduce a Lui.

Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

MISSIONARI/E E IMMIGRATI: NON POSSIAMO TACERE

Comunicazioni Sociali, Senza categoria | Posted by usmionline
lug 14 2010

Il documento del CIMI (Istituti Missionari e Commissione di Giustizia, Pace e Integrità del Creato) che segue è un lungo e analitico atto di accusa contro lo sfruttamento dei nuovi poveri. Nello stesso tempo è un’assunzione di responsabilità da parte dei missionari, i quali dichiarano apertamente di stare dalla parte degli immigrati, mentre affermano anche che oggi è insufficiente fermarsi alla denuncia. La CIMI inoltre sollecita la Commissione episcopale a redigere un documento che, oltre la denuncia della deriva culturale rispetto al tema migratorio, offra gli opportuni orientamenti alle comunità cristiane.

Il documento è da leggere e da studiare attentamente per lasciarsene illuminare nelle scelte concrete.

 

Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (CIMI)

Commissione di Giustizia, Pace e Integrità del Creato della CIMI

missionari/e e immigrati

NON POSSIAMO TACERE

Firenze, 30 giugno 2010

 “Oggi la forma di povertà più vistosa e drammatica in Italia – ha scritto il coraggioso vescovo emerito di Caserta, R. Nogaro – è quella degli immigrati e dei rom. In nome di una fantomatica ‘sicurezza sociale’ si sta costruendo, soprattutto nel nostro paese, la fabbrica della paura verso tutto ciò che può ledere la tranquillità del cittadino. Per questa prospettiva inquietante l’incriminato di dovere è l’immigrato ed è il rom, considerati quasi naturalmente soggetti di reato.”

In poche lapidarie parole Mons. Nogaro, che ben conosce i problemi degli immigrati di Caserta e di Castelvolturno, ci ha messo davanti agli occhi il dramma di questi fratelli e sorelle immigrati nel nostro paese.

Il contesto europeo

Viviamo nell’epoca della più grande mobilità della storia conosciuta. Oltre 214 milioni di migranti internazionali, vi sono circa 740 milioni di sfollati, in parte sfollati interni. Ciò significa che una persona su sette nel mondo è un migrante (Peter Schatzer, Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cura Pastorale dei Migranti, Roma, maggio 2010).

Nei 27 Paesi dell’UE si calcolano 24 milioni di migranti, per la più parte provenienti dagli stessi Paesi dell’Unione. Secondo valutazioni recenti i migranti ‘irregolari’ sarebbero fra i 4.5 e gli 8 milioni, con un aumento stimato fra i 350 e i 500 mila all’anno.

Di fatto, l’Europa,sentendosi ‘fortezza’ assediata, affronta sulla difensiva il fenomeno della mobilità. La ‘governance’ delle migrazioni e la lotta contro l’immigrazione irregolare sono prospettate come la soluzione principale per dare sicurezza alle società europee, inserendo il controllo dell’immigrazione nell’ottica della lotta al terrorismo…viene, così, proposta e ribadita la trilogia inaccettabile: ‘immigrazione – criminalità e terrorismo – insicurezza’. Per tale ragione, la politica migratoria dell’Europa afferma la chiusura delle frontiere alle persone, ma la libertà di circolazione alle informazioni, ai beni ed ai capitali. Si va diffondendo un atteggiamento politico di rifiuto degli immigrati, mentre le economie continuano a richiederne l’assunzione. Probabilmente vedremo presto calare nuove cortine di ferro, con serrati pattugliamenti alle frontiere e nuove misure di difesa delle coste.

 C’è chi si azzarda ad affermare che il rafforzamento delle frontiere non serve solo ed in primo luogo a fermare i movimenti migratori -i quali di fatto continuano- ma a definire come irregolari i migranti che le attraversano, dando loro un’identità che li pone in una posizione di inferiorità e di mancanza di diritti: un esercito di invisibili ricattabile e sfruttabile (Mons. Antonio M. Vegliò, VIII congresso Eu, Màlaga, aprile-maggio 2010).

Il contesto italiano

Xenofobia montante

Noi missionari che siamo stati a lungo ospiti dei popoli africani, sudamericani, asiatici assistiamo ora in patria ad un accanimento senza precedenti nei confronti degli immigrati in mezzo a noi. Stiamo assistendo a una massiccia e crescente violazione dei diritti umani nei loro confronti. E questo avviene nell’indifferenza da parte dei cittadini italiani, immemori di quanto i nostri migranti avevano sofferto. Non stiamo forse ripetendo sugli immigrati in mezzo a noi quello che i nostri nonni hanno subito quando anche loro emigravano?

Non possiamo accettare che il capo del Governo italiano affermi che: “Una riduzione degli extra comunitari significa meno forze che vanno ad ingrossare la criminalità”. E’ un’affermazione molto grave. Il segretario della CEI, mons. Crociata ha ribattuto giustamente: “Gli immigrati delinquono tanto quanto gli italiani. Non è vero che riducendo gli immigrati clandestini si riduce anche la criminalità”. Una menzogna, ma rilanciata con forza da una stampa nazionale che fomenta la paura “dell’altro”. In questo paese stiamo assistendo a un crescendo di dichiarazioni, di leggi, di normative che non fanno altro che attizzare un crescente razzismo e una forte xenofobia.

Da parte di ogni schieramento politico

E questo non solo da oggi, ma da quasi 20 anni. A cominciare dalla legge Turco-Napolitano (1998) che è alla base del Testo unico per l’immigrazione e ha dato inizio ai Centri di Permanenza Temporanea (CPT) che si sono poi rivelati dei veri e propri lager. Seguita nel 2002 dalla legge Bossi-Fini che ha modificato il Testo unico. Questa legge introduce il contratto di lavoro, cui è subordinato il rilascio del permesso di soggiorno, prevede l’espulsione con decreto motivato, disposto dal questore e decreta sanzioni (fino al carcere) per la disobbedienza all’ordine del pubblico ufficiale.

Noi riteniamo immorale e non-costituzionale la Bossi-Fini, perché non riconosce gli immigrati come soggetti di diritto, ma li riconosce come forza-lavoro, pagata a basso prezzo e da rispedire al mittente, quando non ci serve più. La Bossi-Fini costituisce un fatto gravissimo in chiave giuridica (vari giudici l’hanno dichiarata non costituzionale!), ma soprattutto in chiave etica.

Il Pacchetto Sicurezza (Legge 94-2009) introduce nell’ordinamento italiano l’aggravante della pena per clandestinità dell’immigrato, pene reclusive fino a tre anni per chi ceda un immobile a un clandestino, trasforma i CPT in centri di Identificazione e Espulsione (CIE), vieta a una clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il bimbo come suo, impone una tassa sul permesso di soggiorno e norme restrittive sui ricongiungimenti familiari. In questo modo, per la prima volta, il clandestino diventa un criminale!

In questo quadro si inseriscono anche le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, che decretano lo stato di emergenza per le comunità nomadi-rom del Lazio, Campania e Lombardia e impongono il vergognoso atto della schedatura di rom e sinti attraverso la raccolta forzosa delle impronte digitali per l’identificazione e il censimento degli abitanti dei campi.

Concordiamo con Famiglia Cristiana quando ha definito il Pacchetto Sicurezza la “cattiveria trasformata in legge”.

 Razzismo istituzionale

Questa legislazione comporta un aggravio molto pesante sulle spalle degli immigrati: i versamenti di contributi onerosi per ottenere permessi di soggiorno e di cittadinanza, l’obbligo di presentare un documento che attesti la regolarità del soggiorno per la celebrazione del matrimonio, la verifica da parte del Comune delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile e le pesanti sanzioni previste per la mancata esibizione dei documenti.

Se a tutto questo si aggiungono l’aggravante di clandestinità che comporta l’aumento di un terzo della pena, le decine di ordinanze per il ‘decoro urbano’ di enti locali (dal divieto di trasportare borsoni a quelle contro i lavavetri!) che creano un “diritto speciale” riservato alle aree di povertà urbane o dell’immigrazione, abbiamo davvero l’impressione di essere di fronte a leggi che riflettono “un razzismo istituzionale, come afferma il filosofo L. Ferrajoli, che vale a fomentare gli umori xenofobi e il razzismo endemico presenti nell’elettorato dei paesi ricchi.” 

A quanto detto bisogna aggiungere le due ultime novità: una pagella a punti perché un immigrato possa ottenere la cittadinanza italiana (approvata una bozza di regolamento a maggio 2010) e poi la decisione dell’11/03/2010 della Corte di Cassazione che gli immigrati irregolari vanno espulsi, anche se hanno figli minorenni che frequentano la scuola. Incredibile ma vero: la legalità delle frontiere prevale sulle esigenze di tutela del diritto allo studio dei minori.

Da tutto questo ne esce compromessa la nostra stessa democrazia. “Oggi la novità della criminalizzazione degli immigrati – ha detto il filosofo L.Ferrajoli all’incontro tenutosi nel settembre 2009 a Lampedusa , sul tema: La frontiera dei diritti . Il diritto alla frontiera – compromette radicalmente l’identità democratica del nostro paese. Giacché essa ha creato una nuova figura:quella della persona illegale, fuorilegge solo perché tale, non-persona perché priva di diritto e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione: destinata dunque a generare un nuovo proletariato discriminato giuridicamente, e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente”. E’ lo stesso Ferrajoli a tirarne le conclusioni: ”Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo istituzionale… Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come ‘cosa’, come non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso prezzo per lavori faticosi o pericolosi o umilianti: tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini”.

E allo stesso convegno di Lampedusa , il noto magistrato Livio Pepino ha aggiunto: “Il diritto penale, a sua volta, assume una nuova curvatura: non contro il migrante che delinque, ma contro il migrante in quanto tale. Infatti con l’introduzione del reato di ‘immigrazione irregolare’ si prosegue nella impostazione di punire non un fatto, ma una condizione personale: è il migrante che diventa reato”.

Noi riteniamo infatti che tutta questa legislazione è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e incarna una cultura xenofoba e razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e del rifiuto dell’”altro”, specie del musulmano. 

I nuovi lager

 Altro capitolo dolente dell’attuale ordinamento giuridico nei confronti degli immigrati sono i Centri che prima si chiamavano Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e che la nuova legislazione chiama Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dove gli immigrati sono rinchiusi per sei mesi (prima era di sessanta giorni).

La situazione dei CIE è ancora peggiore di quella dei CPT. Da fonti sicure sappiamo che nei CIE si moltiplicano le violenze e i soprusi, mentre si susseguono le rivolte sempre represse con violenti pestaggi.

“Questi centri sono veri luoghi di detenzione – scrive sempre L. Ferrajoli – una detenzione per altro ancora più grave e penosa di quella carceraria, dato che è sottratta a tutte le garanzie previste per i detenuti, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla magistratura di sorveglianza. Sono stati creati così dei campi di concentramento in cui vengono recluse “persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto, e sottoposte ad un trattamento punitivo, senza neppure i diritti e le garanzie che accompagnano la stessa pena della reclusione”.

Ancora più drammatica la situazione degli immigrati nei campi libici, che sono degli autentici campi di concentramento.

Ha ragione la prof.ssa L.Melillo dell’Orientale di Napoli in un recente volume A distanza d’offesa (a cura di A. Esposito e L. Melillo) a scrivere: “Sembra palesarsi il rischio di una deriva razzista che fa del corpo dello straniero il capro espiatorio delle crisi della nostra società”.

I luoghi della vergogna

Inumano è infine il trattamento che gli immigrati braccianti ed operai subiscono nel Paese, sia sul lavoro sia nelle abitazioni. Luoghi come Castelvolturno (Caserta), S. Nicola a Varco (Salerno), Rosarno (Reggio Calabria), Cassibile (Siracusa) sono ormai entrati nell’immaginario collettivo italiano. Questi sono i luoghi della vergogna dove vivono i braccianti agricoli che raccolgono i nostri pomodori, le arance, le patate…

Il più noto è certamente Castelvolturno nel casertano con una popolazione di 15.000 abitanti dei quali almeno 5.000 sono immigrati che lavorano nelle campagne del casertano e del napoletano. Le loro condizioni di vita, di abitazione, di lavoro sono davvero degradanti. Come missionari/e ne abbiamo spesso denunciato la situazione, che è poi esplosa il 18 Settembre 2008 quando sei ghaneani sono stati brutalmente uccisi dalla camorra. Gli africani di Castelvolturno sono scesi per strada ribellandosi a quel massacro.

Castelvolturno proprio per come gli immigrati sono trattati, è una polveriera che potrebbe esplodere ad ogni momento. Com’è esplosa Rosarno dove vivevano oltre mille braccianti che lavoravano nella Piana di Gioia Tauro. Abbiamo spesso potuto visitare le baraccopoli dove erano costretti a vivere quegli immigrati, luoghi di uno squallore unico. Gli stessi immigrati, fuggiti poi da Rosarno, hanno scritto: “Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo i luoghi dove dormivamo alle 6 per rientrarci solo a sera alle ore 20:00, per 25 € che non finivano tutti nelle nostre tasche. A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Eravamo bastonati, minacciati, braccati come bestie…”.

Parole dure, scritte all’indomani della tragica storia di Rosarno (7-9 Gennaio 2010) quando alcuni “bravi ragazzi” hanno sparato contro gli africani, i quali, stanchi di tanti soprusi, si sono ribellati. Ne è nata una vera e propria rivolta (basta vedere le immagini nel DVD Le arance di Rosarno).

“Ci hanno sparato addosso per gioco o per l’interesse di qualcuno – hanno scritto -. Non ne potevamo più. Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani… Siamo invisibili per le autorità di questo paese”.

Ci sembra doveroso in questo contesto ricordare padre Carlo D’Antoni, parroco di Bosco Minniti (vicino a Cassibile), che accoglieva nella sua parrocchia i migranti: è stato arrestato perché accusato di aver firmato attestati di ospitalità che consentono ai braccianti di avere un tetto. E ora lo attende il processo!

Stessa situazione nella baraccopoli di S. Nicola a Varco, comune di Eboli (Salerno), dove un migliaio di braccianti maghrebini vivevano in una situazione di grande degrado umano. Il 19 Novembre 2009 questi immigrati, impegnati in lavori agricoli nella Valle del Sele, sono stati cacciati e la baraccopoli demolita perché dichiarata non idonea (ed è vero!), ma senza offrire loro un altro posto dove andare a dormire. Inutili le proteste che abbiamo fatto al Prefetto ed al Questore di Salerno. Oggi non c’è più una baraccopoli a S.Nicola a Varco, ma abbiamo centinaia di braccianti che dormono dove possono nella valle del Sele.

Tutti questi braccianti sono forza lavoro, pagata a basso prezzo, alla mercé dei caporali che fanno poi da tramite alle mafie. E questo ci porta al dolente capitolo delle condizioni di lavoro.

Tra caporali e mafie

Il 26 aprile del 2010 ci sono stati, a Rosarno, una trentina di arresti, venti aziende agricole sequestrate e sigilli a duecento appezzamenti di terreno per un valore di dieci milioni di euro. E questo per l’inchiesta della Procura di Palmi (RC), nata in seguito alla rivolta di Rosarno .

Finiscono così in manette caporali e proprietari di agrumeti della Piana di Gioia Tauro, accusati di associazione a delinquere per lo sfruttamento della mano d’opera ed induzione all’immigrazione clandestina. Profittatori della disperazione dei braccianti stranieri, costretti a lavorare per pochi euro al giorno .

E’ l’Italia dei caporali, i boss del neoschiavismo che impongono la loro legge e fanno affari d’oro alle spalle di 60 – 70 mila immigrati braccianti che vivono in condizioni di degrado simili a quelle riscontrate a Rosarno.

Seconda la Flai Cgil, gli immigrati irregolari impiegati in agricoltura nel meridione sfiorano il 90%. Lavorano anche dieci ore al giorno e a volte la paga non arriva a 15 €. Le percentuali migliorano al centro (50%) e al Nord (30%).

Secondo la Confederazione Italiana Agricoltori, nei “luoghi della vergogna”, il 40% dei braccianti stranieri vive in edifici abbandonati e fatiscenti, oltre il 50% senza acqua potabile, il 30% senza elettricità, il 43% senza servizi igienici. I raccoglitori di verdura a cottimo hanno tra i 16 ed i 34 anni. L’80% non ha mai visto un medico.

Una nota a parte merita la provincia di Foggia, dove la raccolta dei pomodori è nelle mani del racket che paga gli immigrati 10 € al giorno.

Al Nord è l’edilizia l’altro terreno di conquista dei caporali. Qui un lavoratore su quattro lavora nel sommerso: 700.000 gli immigrati irregolari impiegati nelle imprese (in questo siamo al primo posto in Europa). Li troviamo all’alba a Milano a Piazzale Lotto o a Lambrate che chiedono una giornata in cantiere. Un manovale regolare costa 21 € all’ora, se c’è di mezzo l’intermediario è meno di metà. Il resto va al caporale. E al Nord i caporali sono sempre più egiziani, marocchini, rumeni o anche cinesi che gestiscono i loro connazionali sul lavoro e nella vita. Un altro capitolo vergognoso!

Respingimenti

Non sono bastate le leggi razziste, si sono aggiunti i respingimenti in mare nel corso dei quali migliaia di persone sono state rigettate, a rischio della loro vita, nei campi libici o nei loro paesi di provenienza, dove li attende un altro calvario.

 Come missionari/e siamo testimoni che questa spinta migratoria, proveniente dall’Africa, che tenta di attraversare il Mediterraneo, è dovuta alla tormentata situazione del continente nero, in particolare dell’Africa Orientale e Centrale. La situazione di miseria, i regimi oppressivi, le guerre in atto dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Ciad sospingono migliaia di persone a fuggire attraverso il deserto per arrivare in Tunisia e in Libia , dove sono sfruttati come schiavi. Buona parte di questi immigrati sono rifugiati politici ed hanno diritto all’asilo politico, fra l’altro ricordato due volte nella nostra Costituzione. E qual è la risposta del governo? Chiudere le frontiere e bloccare questa ’invasione’. E per questo il governo Berlusconi ha stipulato accordi con la Libia e con la Tunisia. Il 5 gennaio 2009 il Senato italiano ha approvato il Trattato col governo libico di Gheddafi per impedire che le cosiddette ‘carrette’ del mare arrivino fino a Lampedusa o sulle coste italiane. Sono migliaia gli immigrati morti nel Mare Nostrum. Secondo uno studio di G.Visetti, giornalista di La Repubblica,dal 2002 al 2008 sono morti 42mila persone, trenta immigrati al giorno, ingoiati dal mare davanti alla fortezza Europa. (Senza dimenticare le migliaia di migranti che muoiono attraversando il deserto del Sahara)

Davanti a tali orrori, come si fa a firmare un Trattato con la Libia di Gheddafi, un vero dittatore, che tratta in maniera così vergognosa gli immigrati che vi arrivano? Come si fa ad armare con motovedette e tante armi (nel 2009 abbiamo venduto materiale bellico per un valore di 111 milioni di euro!), un paese che le usa contro gli immigrati? Lo stesso vale per la Tunisia, a cui nel 2009 abbiamo venduto armi per oltre 3 milioni di euro. Il 27 gennaio 2009 il ministro Maroni, si è incontrato con il suo omonimo tunisino per la stessa ragione, cioè il respingimento dei migranti.

L’Italia sta ora pagando voli aerei che partono dal nostro Sud, ma anche da Malta o dalla Libia e che riportano gli immigrati nel loro paese. Vuol dire portarli alla tortura o alla morte. Basta vedersi il filmato del giornalista dell’Espresso F. Gatti, “L’amico Isaia” e “Eritrea: Voices of torture” per rendersi conto di quanto tragica sia la situazione e quanto poco cristiano ed evangelico sia il comportamento del governo italiano.

Giustamente Famiglia Cristiana ha paragonato questi respingimenti alla Shoah.

A tal proposito il prof. Antonio Esposito dell’Orientale di Napoli, nel libro A distanza d’offesa, così si esprime: “Così finiscono gli uomini e le donne che non sbarcano più a Lampedusa. Bloccati in Libia dall’accordo Roma –Tripoli e riconsegnati al deserto. Abbandonati sulla sabbia , appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi. Altre volte si perdono. Cadono a faccia in giù, sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri (come riporta F. Gatti nell’Espresso). L’Italia, come l’Europa, prova a costruire la sua fortezza. Le immateriali mura di recinzione sono erette con le carte che fanno le leggi, sono tenute insieme dai sentimenti di indifferenza, falso disdegno e disprezzo, propri del senso comune. Restano fuori donne, uomini, vecchi, bambini, partiti inseguendo un orizzonte di dignità”.

 Negazione dei diritti umani

E questi respingimenti avvengono non solo a largo delle nostre coste, ma anche nei nostri porti più importanti. Sappiamo di sicuro che nei porti di Ancona, Brindisi e Napoli sono migliaia gli immigrati che vengono respinti ogni anno. Ne abbiamo fatta esperienza diretta con i nove immigrati della nave ‘Vera D’, che ha attraccato a Napoli il 7 aprile 2010. L’ordine del ministro Maroni era perentorio: dovevano essere respinti!

“Questi respingimenti – ha detto Luigi Ferrajoli – all’incontro tenutosi nel 2009 a Lampedusa – sono illegali sotto più aspetti. Hanno violato, anzi tutto, il diritto di asilo stabilito dall’articolo 10 (comma 3) della Costituzione per lo ‘straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche’, giacché le navi italiane con cui gli immigrati vengono riportati in Libia sono territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque extraterritoriali. E lo hanno violato doppiamente, giacché questi disperati vengono respinti in quei lager che sono i campi libici, dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più elementari diritti umani.

Hanno violato, in secondo luogo, la garanzia dell’Habeas Corpus, stabilita dall’articolo 13 (Comma 3) della Costituzione: questi respingimenti si sono infatti risolti in accompagnamenti coattivi, non sottoposti a nessuna convalida giudiziaria…

Infine sono state violate le convenzioni internazionali che l’Italia, nell’articolo 10 della Costituzione, si è impegnata a rispettare: l’articolo 13 della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani sulla libertà di emigrare; l’articolo 14 della stessa dichiarazione sul diritto di asilo; l’articolo 4 del Protocollo 4 della Convenzione Europea sui Diritti Umani che vieta le espulsioni collettive”.

Con questi respingimenti siamo davanti ad una massiccia violazione dei diritti umani da parte del governo italiano.

La Navi Pellay, Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU , incontrando al Viminale il nostro Ministro degli Interni Maroni ha detto: “Gli immigrati non sono rifiuti tossici, vanno salvati e tutelati. E’ un obbligo per le autorità preposte salvare vite umane in pericolo”.

Ed ha poi aggiunto: “Gli immigrati non devono essere stigmatizzati né criminalizzati. Piuttosto vanno creati meccanismi in grado di stimolarne l’integrazione e l’inserimento nella società. I migranti non possono venir percepiti come una minaccia alla sicurezza perché questo non fa che incrementare le paure dei cittadini”.

Anche il rapporto 2010 di Amnesty International stigmatizza l’Italia come razzista.

La tratta

Un altro aspetto dell’immigrazione in Italia è la tratta delle donne per la prostituzione. Secondo stime attendibili, sulle strade abbiamo dalle 30 alle 50 mila ragazze nigeriane, vittime di questo traffico nel nostro paese. Senza parlare delle altre donne albanesi, romene, latino-americane…, che costellano le nostre strade per i nove milioni di italiani (il 70% di questi è sposato!) che comprano sesso per strada. E’ chiaro che questa tratta è il frutto di racket internazionali e mafie italiane che aggiungono sfruttamento a sfruttamento.

E anche vi sono delle responsabilità politiche ben precise .

“Come fermarli? – si chiede un missionario, padre Franco Nascimbene, che ha lavorato a lungo a Castelvolturno – è una situazione complessa, fatta da connivenze e corruzioni che solo le istituzioni, i governi e le polizie potrebbero affrontare efficacemente. Esistono già leggi che colpiscono coloro che sfruttano la prostituzione, tuttavia si ha l’impressione che manchi una decisa volontà politica di fermare la macchina infernale che produce schiavitù e distrugge il futuro di migliaia di ragazze.

  • - Se le istituzioni investissero maggiormente nell’attività investigativa, impiegando più uomini a pedinare madames. Sfruttatori, camorristi e mafiosi,
  • - se creassero più legami con le polizie di origine delle ragazze,
  • - se controllassero i flussi di denaro provenienti dalla prostituzione che escono dall’Italia attraverso la Western Union e altre agenzie ( come è stato fatto in altri campi, là dove c’era la volontà politica di fermare certe espressioni della criminalità), si potrebbe fermare o perlomeno rallentare la tratta di donne a scopo di prostituzione.

 Carceri

Per quanto riguarda il tema carcerario ci preme dire che il 37.1 % della popolazione carceraria è di origine straniera (24.922 su 67.452, al 21 aprile 2010) e sottolineare alcune problematiche specifiche connesse alla vita detentiva degli stranieri…per esempio difficoltà linguistiche, condizioni economiche disagiate anche a causa della lontananza delle famiglie di origine, l’assenza di una rete familiare e amicale… (Antigone,1(2009),25).

Pensiamo che, come missionari/e, incontriamo qui, in carcere, parte della realtà che abbiamo avuto modo di condividere altrove. Crediamo di poter offrire un contributo estremamente prezioso ed un possibile punto di riferimento dal punto di vista umano e spirituale ai/alle detenuti/e ed al personale penitenziario.

La voce profetica delle Chiese d’Africa

Ci conforta, come missionari/e, il fatto che i vescovi dell’Africa riuniti a Roma per il II Sinodo Africano (4-25 Ottobre 2009) abbiano avuto il coraggio di parlarne nei loro interventi in aula. Hanno affrontato questo argomento i vescovi: G. Martinelli (Tripoli, Libia), B. D. Souraphiel (Addis Abeba, Etiopia), W. Avenya (Makurdi, Nigeria), G. C. Palmer – Buckle (Accra, Ghana), G. ‘Leke Abegunrin (Osogbo, Nigeria) ed infine il Cardinal T. A. Sarr (Dakar, Senegal) (vedi Per un’Africa riconciliata – Memoria del II Sinodo Africano a cura di Anna Pozzi).

“Gli africani continueranno a venire in Europa – ha detto il vescovo W. Avenya – con tutti i mezzi, anche al prezzo di morire nel deserto o per mare, finché l’equilibrio economico ed ambientale tra Africa e resto del mondo non verrà ristabilito da chi ne è responsabile e cioè dall’Occidente!”.

Non meno esplicito l’arcivescovo di Addis Abeba, Souraphiel: “Spero che questo Sinodo per l’Africa sondi le cause che sono alla base del traffico di esseri umani, delle persone sfollate, dei lavoratori domestici sfruttati, dei rifugiati, dei migranti, specialmente degli africani che giungono nei barconi e dei richiedenti asilo e che sortisca posizioni e proposte concrete per mostrare al mondo che la vita degli africani è sacra e non priva di valore come invece sembra essere presentata e vista da molti media”.

Non meno pesante l’intervento del vescovo Abegunrin di Osogbo (Nigeria): “La voce profetica della Chiesa a favore dei poveri e degli oppressi non deve mai essere compromessa o sacrificata sull’altare di un’amicizia religiosa o di un tornaconto materiale”. Ed egli applica subito questo alla questione degli immigrati: “Una delle maggiori sfide che questo Sinodo dovrebbe affrontare è il destino di un gran numero di immigrati africani presenti in tutti i paesi dell’Occidente. Dall’inizio di questa crisi economica, molti paesi occidentali hanno elaborato leggi e strutture difensive a sostegno delle proprie economie. Purtroppo a questo scopo sono state varate leggi che si avvicinano molto a negare perfino i diritti umani degli immigrati. Soprattutto in Italia, l’immigrazione clandestina è diventata un reato!”.

E’ toccato poi all’arcivescovo di Dakar, il cardinal Sarr analizzare in profondità il fenomeno degli immigrati: “Vorrei sottolineare il carattere rivelatore del fenomeno della migrazione clandestina. L’avventura così rischiosa dei migranti clandestini è un vero e proprio grido di disperazione, che proclama di fronte al mondo la gravità delle loro frustrazioni ed il loro desiderio ardente di maggiore benessere.

Percepiamo noi questo grido di disperazione e lo lasciamo penetrare nel nostro cuore tanto da cercare di capirne il senso e la portata?”. E il cardinale conclude: “Sappiamo bene, infatti, che non sono le barriere della polizia, per quanto possono essere invalicabili, ad arrestare la migrazione clandestina, bensì la riduzione effettiva della povertà otterremo la promozione di uno sviluppo economico e sociale che si estenda alle masse popolari del nostro paese”.

E’ stato infine l’arcivescovo di Accra, Palmer – Buckle, a esprimere in un intervento pesante il “sentire” dei vescovi africani al Sinodo attaccando le tendenze xenofobe presenti in Europa che “considerano gli africani come se non avessero diritti”.

E con molta ironia ha concluso: “ Come fate voi europei a parlare di diritti umani universali?”

Ci impegniamo

Anche nell’ambito del fenomeno migratorio noi missionari/e ci proponiamo una lettura piena di fede e di speranza perché, al di là dei risvolti drammatici che spesso accompagnano le storie dei migranti, i loro volti e le loro vicende portano il sigillo della storia di salvezza e della teologia dei ‘segni dei tempi’.

La Chiesa difatti intende affermare la cultura del rispetto, dell’uguaglianza e della valorizzazione delle diversità, capace di vedere i migranti come portatori di valori e di risorse. Essa invita a rivedere politiche e norme che compromettono la tutela dei diritti fondamentali…esprime inoltre un forte dissenso rispetto alla prassi sempre più restrittiva in merito alla concessione dello ‘status’ di rifugiato e al ricorso sempre più frequente alla detenzione e all’espulsione dei migranti.

La presenza dei migranti in mezzo a noi ci ricorda che, dal punto di vista biblico, libertà e benessere sono doni e come tali possono essere mantenuti solo se condivisi con chi ne è privo. I fondamenti del rispetto e dell’accoglienza dei migranti sono contenuti, per noi credenti, nella Parola di Dio (Vegliò, oc.).

Per questo

  •  Invitati dai documenti del magistero vogliamo imparare a leggere le Migrazioni come ‘un segno dei tempi’ per la Chiesa e la Società.
  • Facciamo nostre le affermazioni dei Vescovi africani del II Sinodo dell’Africa (Roma 5-24 ottobre 2009).
  • Stiamo dalla parte degli immigrati, la nostra è una scelta di campo: la scelta degli ultimi.
  • Crediamo che non sia sufficiente denunciare. Come Istituti Missionari, inseriti nelle Chiese locali, siamo chiamati ad agire mettendo a disposizione personale adatto ed il supporto di strutture adeguate per un lavoro con gli immigrati, privilegiando il lavoro congiunto con la commissione Migrantes a livello nazionale e locale.
  • Sollecitiamo la CEI a redigere un documento che, oltre la denuncia della deriva culturale rispetto al tema migratorio, offra gli opportuni orientamenti alle comunità cristiane.

Noi missionari/e crediamo fermamente, come diceva il grande vescovo-martire di Oran (Algeria) Pierre Claverie, che non c’è umanità se non al plurale.

Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (CIMI)

Commissione di Giustizia, Pace e Integrità del Creato della CIMI.

Per adesioni, scrivi a

fernando.zolli@gmail.com

Apre il “Cortile dei gentili”- Invito ad entrare

Comunicazioni Sociali, Senza categoria | Posted by usmionline
lug 08 2010

L’iniziativa di proporre luoghi di dialogo fra credenti e non credenti ha il nome di ‘Cortile dei gentili’: un’immagine suggestiva proposta alla riflessione collettiva. L’idea e la formula sono di Benedetto XVI, che qualche giorno prima dello scorso Natale si rivolgeva alla curia romana con le seguenti parole:

Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di ‘Cortile dei gentili’ dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto.

 Il cortile al quale il papa si riferisce si trovava nel tempio di Gerusalemme, riadornato da Erode e terminato pochi anni prima che Tito lo distruggesse. In quella maestosa struttura, dopo le porte e i portici, c’era l’Atrio dei gentili: uno spazio al quale potevano accedere i pagani in visita a Gerusalemme, dove stavano quei venditori e cambiavalute che Gesù scaccia. Oltre una balaustra che delimitava l’Atrio era il cuore del tempio con i luoghi destinati al culto e al sacrificio.

Il primo effetto concreto prodotto dalle parole del Papa è la fondazione denominata appunto Cortile dei gentili a cui il Pontificio consiglio della cultura, presieduto dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi, ha dato vita per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e non credenti, che tenga anche conto dei diversi ateismi, non riducibili, oggi, a un unico modello.

L’idea non è del tutto nuova. Dopo il Concilio Vaticano II infatti era stato creato, ed era durato qualche anno, un segretariato per i non credenti affidato allora al cardinale austriaco Franz Kỡnig. Il cardinale Martini poi, a Milano, aveva indagato sullo spazio della spiritualità dei senza Dio con la ‘cattedra dei non credenti’.

Ora l’iniziativa rispunta nella forma più solida di un Consiglio pontificio. Così, proprio mentre la magistratura italiana fruga negli affari della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli negli anni in cui ne era prefetto il cardinale Crescenzio Sepe, in Vaticano nasce un nuovo, più sobrio ufficio dedicato a un altro tipo di evangelizzazione: non nelle terre di missione, ma nei paesi di antica cristianità in cui la fede si è più affievolita o è scomparsa.

Rapporto fra comunità credente e umanità in ricerca

Il dramma dell’epoca moderna non è la mancanza di Dio, ma il fatto che gli uomini non soffrano più di questa mancanza, e perciò non avvertano più il bisogno di superare l’infinito dolore della morte. In gran parte dell’Occidente sembra esserci oggi un’indifferenza assoluta, ben sintetizzata da Charles Taylor quando afferma che se Dio venisse oggi in una nostra città, l’unica cosa che succederebbe e che gli chiederebbero sono i documenti.

Ma l’uomo è abitato da una fame e da una sete forse sconosciute a se stesso: è fame di verità, di libertà profonda, di amore gratuito. Base del confronto nel cortile dei gentili, ha spiegato Ravasi, sarà perciò una visione complessiva dell’uomo, con l’obiettivo di scoprire consonanze e armonie. Senza attesa naturalmente di conversioni o inversione di cammini esistenziali. Certo è necessario deporre i linguaggi solo autoreferenziali e allora, insieme ad un’umanità spesso troppo curva solo sull’immediato, sulla superficialità e sull’insignificanza, alzare insieme lo sguardo verso l’Essere nella sua pienezza.

L’incrocio tra voci diverse può avvenire attorno a temi comuni (anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei!): bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza. E ancora: etica, antropologia, spiritualità, domande ultime su vita e morte. Per questa via si può giungere alla domanda sul Dio ignoto, di cui Paolo parlava nell’Areopago di Atene. Un po’ come suggeriva padre David Maria Turoldo: Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto…

La Chiesa rilancia la nuova evangelizzazione nei Paesi di antica fede 

Il primo cortile di credenti e atei aprirà a Parigi. La data dell’inaugurazione è già fissata per il 24 e 25 marzo 2011 con un convegno internazionale in tre sedi volutamente slegate da ogni appartenenza religiosa: la Sorbona, l’UNESCO e l’Académie Française. La fondazione ha in programma di organizzare ogni anno un grande evento per affrontare, di volta in volta, un tema incentrato sulla religione in rapporto a società, pace e natura.

A guida di questo dicastero per una nuova evangelizzazione delle Chiese di antica fondazione, il papa nomina come Presidente l’arcivescovo Rino Fisichella. Quella del papa è una sfida che viene da lontano: dall’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI fino alla nuova evangelizzazione evocata per la prima volta da Wojtyla a Nowa Huta, la città operaia polacca che sembrava essere stata costruita per escludere la presenza di Dio fra gli uomini.

Con la fede in Dio nulla è impossibile

È la sfida per i cristiani a concepire se stessi come una minoranza creativa che riporti all’Occidente la sua eredità. La strada del dialogo e del reciproco scambio certo è lunga, ma il dialogo e lo scambio sono possibili e sono già anche una realtà.

Ne viene per i cristiani l’impegno a rinvigorire quella fedeltà incarnata che sa incrociare il cammino di vita dell’altro, accettando di diventare compagni di strada, disposti a dividere e condividere il pane della propria avventura umana per darsi – reciprocamente – una possibilità di umanità. Ed essere così catapultati nella logica del regno di Dio, che viene in mezzo a noi per rivoluzionare il nostro modo di intendere la vita.

Luciagnese Cedrone

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Il caso del crocifisso – In attesa della sentenza del 30 giugno 2010

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
giu 24 2010

«La croce è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire…Non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, e il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata  di un credo o di una filosofia. Parla di speranza, di amore, della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni e vincere l’odio con l’amore» (Benedetto XVI)

Per il prossimo 30 giugno è prevista la decisione della Grande Camera della Corte Europea per i Diritti umani intorno al ricorso presentato dall’Italia sulla precedente sentenza della Corte di Strasburgo che lo scorso novembre bandiva il crocifisso dalle aule scolastiche pubbliche italiane.

In attesa dell’esito del giudizio, il tema è stato periodicamente occasione di accesi dibattiti, ma anche di riflessione per tutti.

Dieci Stati -fra cui la Russia- che fanno parte delle 47 nazioni del Consiglio d’Europa, hanno chiesto formalmente al Tribunale di potersi presentare ufficialmente come ‘parte terza’ quando verrà istituito il processo davanti alla Grande Camera. La condizione di amicus curiae, cioè appunto parte terza, permette agli Stati di poter presentare in forma ufficiale al Tribunale osservazioni scritte e orali in appoggio al testo del ricorso avanzato dallo Stato italiano, che chiede ‘una giusta revisione’ della sentenza. Altri Stati (come l’Austria o la Polonia), oltre a questi 10, si sono pronunciati contro la sentenza. In genere gli Stati membri si astengono dall’intervenire o intervengono solo quando il caso colpisce un cittadino del proprio Stato. Si tratta quindi di un precedente importante per la vita del Tribunale.

Nello stesso modo 12 organizzazioni non governative (ONG) sono state ammesse dal Tribunale come parte terza.

Nessuno Stato finora e nessuna ONG è intervenuta a sostegno della sentenza.

Anche 37 docenti di diritto di undici diversi Paesi, in un documento rivolto alla Grande Camera della Corte Europea, chiedono di rigettare quella sentenza, poiché «minaccia inutilmente la grande varietà dei simboli religiosi esposti nei luoghi pubblici di tutto il continente».

Anche i Vescovi greci avvertono contro la proibizione del crocifisso nei luoghi pubblici che il  rispetto dei segni religiosi è necessario per la convivenza. I presuli insistono sul fatto che il rispetto reciproco delle tradizioni religiose è necessario in una società che sta diventando sempre più multiculturale.

Il caso del Crocifisso è unico e non ha precedenti. Dieci Stati hanno deciso di spiegare alla Corte qual è il limite della sua giurisdizione e qual è il limite di creare nuovi ‘diritti’ contro la volontà degli Stati membri. In tutto ciò si può scorgere un controbilanciamento del suo potere (Gregor Puppinck).

CEI: Crocifisso non impone

La CEI, in una nota del 17 giugno 2010, in vista dell’imminente decisione della Corte Europea, rileva che la presenza dei simboli religiosi e in particolare della croce non si traduce in un’imposizione e non ha valore di esclusione, ma esprime una tradizione che tutti conoscono e riconoscono nel suo alto valore spirituale, e come segno di un’identità aperta al dialogo con ogni uomo di buona volontà, di sostegno a favore dei bisognosi e dei sofferenti, senza distinzione di fede, etnia o nazionalità.

Il simbolo della croce non appartiene solo alla gran parte dei cittadini europei e non è espressione esclusiva di un indirizzo confessionale, ma è divenuto, per usare le parole di Gandhi, un simbolo universale che parla di fratellanza e di pace a tutti gli uomini di buona volontà. Su questa base si chiede una giusta revisione della sentenza di Strasburgo del 2009 per tener ferma la coesione e la solidarietà spirituale dei popoli europei che vogliono camminare insieme mantenendo le proprie identità e tradizioni storiche.

Si tratta di un momento di grande delicatezza, che tutto il mondo cristiano vive con particolare apprensione. Un evento che comunque può favorire l’arricchimento delle nostre coscienze e un approfondimento quanto meno personale del tema.

Crocifisso-SI’. Crocifisso-NO

Non vi è dubbio che la sentenza del novembre 2009 della Corte Europea è quantomeno discutibile. Il crocifisso è una cosa seria, perché non si gioca né con i simboli né con la tradizione. Ma non si può nemmeno ridurre un tema decisivo per l’educazione dei giovani ad una questione di schieramenti e opposizione, quasi un clima pseudo-referendario del tipo ‘Crocifisso SI’. Crocifisso-NO’. La scuola italiana è certamente laica, ma profondamente ancorata come tutta la nostra società a valori derivanti dalla religione e dalla cultura cristiana. Lo studente del nuovo millennio è già distante da una riflessione su se stesso per varie motivazioni esterne alla Scuola; se non viene stimolato e instradato a prendere coscienza dell’ambiente in cui vive, della tradizione che lo ha formato e che ancora ne scandisce inevitabilmente la vita, allora la nostra società continuerà a direzionarsi verso un futuro senz’anima. Fa riflettere il fatto che mentre in Italia qualcuno si mobilita contro il crocifisso, simbolo della partecipazione di Dio alla vicenda umana, negli Stati Uniti il presidente della nazione nell’assumere l’incarico giura sulla Bibbia e invoca la benedizione di Dio sulla nazione. E questo appare normale a tutti.

Certo non è solo un crocifisso che rende presente la testimonianza di cristiani nella scuola.

L’insegnante cristiana infatti, con o senza crocifisso, continuerà ad essere tale mentre si impegna anche nelle aule a spendere la propria vita per i bambini e i ragazzi. Con professionalità e con la pazienza e l’amore che il Cristo crocifisso dona a tutti e chiede a chi vuole seguirLo.

Se è dall’onestà della mente e dall’interiorità che inizia il viaggio più lungo della vita -quello interiore appunto- da questo viaggio che il cristiano realizza con e verso il Cristo può svilupparsi la forza per dire sì ai bisogni del prossimo. Ogni individualità si muoverà così per essere ponte verso tutti gli altri e una pietra nell’edificio della rettitudine per il bene comune.

Luciagnese Cedrone

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Il mondo senza il crocifisso sarebbe meno umano

(Benedetto XVI)

Nella prospettiva del pronunciamento della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo sul caso del Crocifisso nelle Scuole italiane, Umanesimo Cristiano ha promosso una tavola rotonda sul tema, quale occasione di riflessione, non solo per i cattolici, ma anche per i laici.

La tavola rotonda si è tenuta mercoledì 23 giugno 2010 nella Sala storica del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali a Roma.  Ad essa hanno partecipato fra gli altri: il ministro Sandro Bondi, il presidente di Umanesimo Cristiano Claudio Zucchelli, il ministro Maurizio Sacconi, il cardinale Julian Herranz, il giornalista editorialista Piero Schiavazzi, il sottosegretario Gianni Letta, il sindaco di Roma Gianni Alemanno…). Erano presenti diversi rappresentanti diplomatici e delle autorità religiose, militari e politiche.

In apertura sono stati letti i messaggi e le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del Card. Bagnasco.

Nella croce -è stato sottolineato-  sono rintracciabili valori umani condivisibili da tutti. La croce parla di speranza anche ai non credenti; difende dalle utopie della giustizia senza libertà e della libertà senza verità; è segno di alto valore civico e spirituale, di pace, concordia e perdono. 

Dalla tavola rotonda è derivato un messaggio per tutta l’Europa: la libertà non nasce dal cancellare la tradizione; un multiculturalismo indifferente è solo incomunicabilità perfetta. Il crocifisso invece è per tutti strumento d’identità e d’incontro.  Se l’Europa lo riconosce evita la deriva nichilista che nasce dall’assenza di verità.

Luciagnese Cedrone

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Viandante e principe del creato. Umanizzare il rapporto con il creato

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
giu 10 2010

Ci è stata data la tela dell’universo da Dio costruita con paziente tessitura, non perché la sfilacciassimo, ma perché continuassimo a ricamarla con tutta la sapienza del nostro genio (Tonino Bello) 

Tre giorni per riflettere sul rapporto tra l’Uomo e il Creato: 25-27 giugno 2010 a Pistoia nel Palazzo dei Vescovi, dove si terrà il Forum dell’Informazione Cattolica per la Salvaguardia del Creato, giunto alla sua settima edizione. Tre giorni organizzati per ritrovare un legame, che troppo spesso diamo colpevolmente per scontato, e per riacquistare il nostro ruolo di tessitori nel creato.

Il nostro obiettivo – spiega Gian Paolo Marchetti, presidente di Greenaccord, associazione culturale di ispirazione cristiana, promotrice dell’evento – è di riflettere sulla figura dell’homo viator, viandante sulle strade del mondo, che attraversa il Creato, vi lascia la sua orma ma deve prodigarsi per restituirlo alle generazioni future salvaguardato e migliorato.

La situazione

In queste ultime settimane abbiamo seguito tutti con crescente angoscia quel che sta ancora accadendo sulla costa del Golfo, dove la fuoriuscita di petrolio dal pozzo danneggiato, rischia di scatenare una catastrofe ecologica ed economica. Certo non la prima nella storia: solo finora la più grave!

Altrettanto certo (e non solo da ora!!), è che dal Mediterraneo all’Australia, al Guatemala… il mare è il termometro di una crisi ambientale in piena evoluzione, che coinvolge indistintamente sia i Paesi ricchi che quelli poveri. L’acqua potabile in molti Paesi ormai da tempo comincia a scarseggiare, mentre la desertificazione avanza e le condizioni di sopravvivenza in numerose comunità sono ormai minime. I Paesi del Sud del Mondo non sono certo responsabili dei cambiamenti in atto, ma ne stanno subendo le conseguenze peggiori. Tutto questo mentre da nessuna forza arrivano risposte adeguate agli attuali problemi del Pianeta, se non dall’Ambientalismo. E mentre i reati contro l’ambiente non conoscono crisi (Dossier di Legambiente ne denuncia 78 al giorno nel nostro Paese!), in Italia forse più che altrove, l’ambiente è marginalizzato: in TV la questione è più o meno cancellata…

In tutto questo il ruolo dei giornalisti rimane fondamentale per disintossicare i media e per far crescere nell’opinione pubblica mondiale quella consapevolezza seria e onesta, che possa influenzare le decisioni politiche sull’ambiente.

E i consacrati come possono contribuire alla salvaguardia dell’ambiente? Con quale spiritualità, atteggiamenti, percorsi, stile di vita?

Nell’itinerario formativo per una Vita Religiosa Profetica curato dalla Commissione Giustizia, Pace e Integrità del Creato (JPIC) dell’ USG e dell’UISG, al n. 51, per la Formazione permanente, fra gli altri, sono indicati i seguenti obiettivi specifici:

I. Coltivare una forte spiritualità che, alla luce della Parola e della Dottrina Sociale della Chiesa, porti ad ascoltare Dio nella realtà quotidiana, nella situazione dei più poveri, nella creazione.

VI. Assumere la responsabilità della salvaguardia dell’ambiente, collaborando in modo creativo alla risoluzione dei problemi riguardanti il Pianeta e che possono distruggere la vita.

E al numero 42 dello stesso Documento si dice:

La consapevolezza della crescente crisi ambientale che colpisce il pianeta rafforza la necessità di una formazione con una forte spiritualità ecologica. La creazione è, allo stesso tempo, oggetto di contemplazione e di impegno. Lo Spirito di Dio, forza creativa che chiama ogni cosa all’esistenza, agisce costantemente nel cosmo: è principio dinamico, luce che illumina, fonte perenne di vita.

Da questa visione le persone consacrate sono chiamate a coltivare un atteggiamento di responsabilità e corresponsabilità di fronte all’habitat, alla casa comune che Dio ha donato all’umanità; con gratitudine e riconoscimento al Creatore dei cieli e della terra, scoprono nel mondo le orme del Signore, il luogo dove si rivela la sua potenza creatrice, provvidente e redentrice.

Uno stile di vita semplice, non consumistico, solidale a livello personale e comunitario, può testimoniare questa fede nel Creatore e promuovere un’etica ecologica, alternativa al consumismo e alla devastazione della natura.

La salvaguardia del Creato, a partire dalle azioni concrete della vita quotidiana, deve essere un distintivo della sequela di Cristo che si assume fin dalle prime tappe del processo formativo.

Dignità e compiti dell’uomo viandante nel creato

O Signore nostro Dio quanto è grande il tuo nome su tutta la terra (Salmo - 8 -)

È l’inno per un Dio che si fa giardiniere, la cui gloria è cantata dai cieli, ma anche dalle labbra dell’umanità. Un atto di lode e stupore che allieta il cuore.

Grande responsabilità ci è stata data in sorte, grande dono per le mani fragili e spesso egoiste dell’uomo: l’intero orizzonte delle creature affidato all’uomo perché ne conservi l’armonia e la bellezza, ne usi ma non ne abusi, ne faccia emergere i segreti e ne sviluppi le potenzialità.

Il compito per tutti è quello di:

-         preservare dallo scempio che in questi secoli abbiamo prodotto ‘decreando’

-         salvare dagli inquinamenti costruiti in nome di un benessere che non sempre cammina con la creazione

-         riacquistare la giusta posizione di creature che sanno avere cura con la stessa premura materna di Dio

-         imparare ad essere provvidenti, ad avere sollecitudine per il giardino in cui siamo stati posti (Gen 2,15), così che la tenerezza di Dio affascini i  nostri volti.

 

NOTA Il tema trattato in questo articolo verrà ulteriormente approfondito nella prossima     intervista a Gian Paolo Marchetti presidente di Greenaccord, su questo stesso sito.

Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

Domande che attendono risposta

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
mag 17 2010

Essere testimoni digitali! L’invito rivolto a tutti i partecipanti del convegno che si è svolto dal 22 al 24 aprile scorso intitolato: «Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale». Questo invito si presenta per me come una sfida dai contorni non ancora ben delineati: come essere testimone missionaria in questo nuovo umanesimo digitale? Quali spazi per la parola del Vangelo nei social network e in quale modo annunciarla? Sono una giovane Missionaria dell’Immacolata (PIME) che lavora nel campo delle comunicazioni sociali e che tra qualche mese partirà per il Brasile. Ho partecipato al convegno con l’intento di ricevere un aggiornamento nel campo della comunicazione e di ritrovare colleghi e amici. Ne sono uscita con tante domande e con il desiderio di  continuare la riflessione sul mio impegno in questo campo.

Ho appreso con gioia i risultati della ricerca svolta da Chiara Giaccardi e dai suoi colleghi dell’Università Cattolica di Milano che hanno presentato un volto dei giovani “nativi digitali” meno negativo rispetto a quelli solitamente delineati; un volto che, nonostante tante fragilità, fa ben sperare per il futuro nella capacità di gestire i media e di non lasciarsi travolgere dal vortice comunicativo. 

Ho ascoltato con interesse gli interventi dei vari relatori e testimoni che si sono susseguiti nei tre giorni  e in particolare la riflessione del gesuita Antonio Spadaro sul rapporto tra internet e teologia.

La Chiesa è chiamata ad interrogarsi sull’ambiente culturale di internet che «determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il mondo e di organizzarlo», dice Spadaro. Un nuovo ambiente culturale che contribuisce a far nascere un’antropologia nuova a cui siamo chiamati come Chiesa ad andare incontro per annunciare la Parola che salva. Un nuovo ambiente che pone delle domande anche alla struttura stessa della Chiesa e al suo pensiero teologico: essere radar o decoder, essere connessi o in comunione, essere fili di rete o tralci di vite, emittenza o testimonianza, codice proprietario o aperto? Sono alcune delle domande che si presentano come sfide a cui far fronte nell’era della comunicazione digitale.

La parola gratitudine esprime bene i miei sentimenti alla conclusione del convegno. Grazie agli interventi competenti dei relatori, alle esperienze vissute dei testimoni e a Dio che continua a condurre l’umanità per le Sue strade.

                            Emanuela Nardin, Missionarie dell’Immacolata

Insieme nel digitale

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
mag 13 2010

 

 Il verbo che caratterizza la chiesa fin dalle sue origini è: Testimoniare.

I cristiani sono coloro che sono chiamati a testimoniare, cioè a raccontare l’incontro con il Cristo che “mi ha amato così tanto da dare se stesso per me!”. È questa gioia, questo fascino, questo innamoramento che rende il testimone esperto di comunicazione. L’incontro personale, fatto di parole, di gesti, di sguardi, rimane per il cristiano il punto forte, il centro del suo annuncio kerigmatico e gioioso.

Il convegno “Testimoni Digitali” ha ribadito e sottolineato tutto questo, ma ha guardato anche la realtà. Perché essere cristiani vuol dire esserlo ora, qui e oggi, in questo contesto storico, culturale e sociale. Questo è stato l’impegno degli apostoli, di Pietro, di Paolo: andare tra le genti.

Anche oggi la Chiesa è e deve essere tra le genti segno di un amore totale e senza condizioni. Ma come arrivare, come raggiungere l’uomo di oggi? Percorrendo le stesse strade che l’uomo percorre, andandogli incontro sulla stessa lunghezza d’onda, per far emergere la luce e lo splendore, la meravigliosa impronta di Dio che lo attraversa.

Il convegno ha rilanciato tutto questo incoraggiando gli artigiani della pastorale alla ricerca appassionata, allo studio attento, a creare spazi di competenze in questo continente della comunicazione.

Credo che, se stiamo insieme, tutto questo può funzionare. Perché noi siamo quel corpo che, avendo come capo il Cristo, lavora e si dà da fare per l’avvento del suo regno. In questo corpo-chiesa, tutte le membra sono necessarie e utili a rendere efficiente ed efficace la sua missione di testimone.

Questo essere insieme, questo essere Chiesa, manca ancora alla nostra Chiesa.

Si parla di comunione, di comunità, ma, poi, in realtà tendiamo ad esaltare ciò che ‘ci’ appartiene e a dimenticare quello che molti altri compiono.

Voglio sottolineare che nel tanto che ci è stato donato, è mancato a livello generale, il riconoscimento di quello che nella chiesa fanno, nel settore della comunicazione, i religiosi e le religiose. Non dico questo per un desiderio di vanto o di vanagloria, ma perché è insieme che facciamo bella la chiesa.

Non era forse questo il fascino delle prime comunità cristiane? La simpatia che i gentili e i pagani avevano nei loro confronti, non era proprio nel vederli stare insieme, nel mostrarsi tra le genti come un cuor solo e un’anima sola?

Testimoni digitali con un cuor solo e un’anima sola. Il cuore, che nasce dal Cristo morto e risorto per noi. L’anima, cioè la passione per l’uomo di oggi, per la sua ricerca di verità e di giustizia, di pace e di fraternità. Ecco il cammino che insieme alla tecnica la chiesa deve imparare a percorrere con umiltà, avendo il coraggio, se necessario, di ricominciare sempre da capo con la speranza che lo Spirito che il Cristo morente ha donato non verrà meno.

                            suor Piera Cori – pastorella

A casa nella mia Chiesa

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
mag 10 2010

Eravamo in tanti al Convegno ecclesiale Testimoni digitali, provenienti da tutta Italia e tutti impegnati in vario modo nel mondo della comunicazione digitale o almeno “sensibili” alle varie opportunità che vengono offerte dalle nuove tecnologie. Abbiamo ascoltato sollecitazioni singolari, conosciuto esperienze interessanti, ci siamo confermati sui cammini intrapresi. Come Figlia di san Paolo, che opera nella Chiesa e nel mondo con un carisma ben specifico “annunciare il Vangelo con tutti gli strumenti della comunicazione sociale”, mi chiedo quale idea-forte conservo del Convegno, quale germoglio dovrò curare perché esso fiorisca e diventi fiore e frutto.  Infatti, dice Gesù: “… dai frutti li riconoscerete”. Sintetizzo l’esperienza vissuta in tre punti.

Al Convegno mi sono sentita a casa. E più volte, dentro di me, ho espresso grande riconoscenza non solo alla Chiesa ufficiale ma soprattutto al popolo di Dio rappresentato da tanti sacerdoti, religiosi e laici lì convenuti. Finalmente, permettetemi di dirlo, si considerano la modernità, le nuove tecnologie, il mondo della comunicazione in genere, non come realtà da guardare con sospetto e da demonizzare ma come opportunità, “luoghi teologici”, ambienti da abitare con responsabilità e naturalezza perché ci appartengono. Non si tratta, infatti, di scegliere un metodo o un altro per annunciare il vangelo, ma significa essere presenti, portare l’annuncio là dove la gente vive, soffre, ama, lavora, si diverte, ecc. Certo non sono ancora territori abitati da tutti, come d’altronde non lo sono più le parrocchie, ma sono spazi che saranno popolati e visitati sempre più.  E’ stato bello, lo confesso, perché, almeno questa volta, non ho dovuto giustificare e motivare a nessuno il mio essere “religiosa, consacrata a Dio” che opera nel mondo della comunicazione. Esercitare la “diaconia della cultura”, ha detto il nostro papa Benedetto XVI.  Grazie, santità, che sigilla un nostro modo di essere e operare da sempre, per vocazione. Questo è la prima e bella sensazione che porto con me. Sentirmi a casa nella mia Chiesa.

Come starci?

Anche se alcuni interventi, a mio avviso, si sono attardati nel ribadire la necessità di utilizzare le nuove tecnologie per l’evangelizzazione, (ciò significa che il concetto non è stato ancora pienamente assunto) ho colto lo sforzo di spingere in avanti la riflessione soprattutto da parte dei rappresentanti della Chiesa ufficiale: mons. Mariano Crociata,  mons. Claudio Maria Celli, mons. Angelo Bagnasco, ecc.  Internet, ci hanno detto, non è un mezzo da assumere perché altri sono diventati man mano obsoleti. No, internet è una cultura, un ambiente, un continente digitale. Non diciamo più, allora, che dobbiamo esserci in questi territori, è assodato perché, in forza dell’incarnazione, nessun luogo ci è precluso. Chiediamoci invece: Come esserci? Come starci? Domanda a mio avviso fondamentale cui non sarà mai data una risposta risolutiva.

Testimoni

Da Testimoni, suggeriva il tema del Convegno. Cioè da persone che hanno incontrato Gesù nella loro vita, sono state trasformate e ora desiderano condividere e comunicare anche ad altri questa esperienza forte, perché una cosa bella non si tiene per sé. Ma abbiamo questa esperienza forte da condividere? O pensiamo sia sufficiente annunciare una filosofia di vita, anche se evangelica, una morale cui attenersi, una serie di comandamenti cui obbedire? Forse per questo papa Benedetto XVI insiste continuamente sulla necessità di coltivare l’amicizia con Gesù, sulla preghiera intesa come colloquio personale e quotidiano con lui…  

Condividere e comunicare anche ad altri. Il desiderio di non tenere solo per noi ciò che abbiamo “visto e udito”ci porta a cercare gli altri, ad andare loro incontro, a condividere i loro spazi. Ma senza pesantezze, moralismi, affaticamenti. Se si vive una bella realtà, si comunica in maniera spontanea, senza artifici e costrizioni, con l’unico desiderio che anche altri possano sperimentarla ed essere felici come noi. Solo questo, a mio avviso, può motivare una vita che si “prende cura” e va continuamente “alla ricerca” degli altri. “Quante volte vi ponete l’interrogativo: come cammina, dove cammina, verso quale meta cammina questa umanità che si rinnova continuamente sulla faccia della terra? Sarà salva, sarà perduta per sempre” ci diceva quasi cento anni fa il nostro fondatore, Giacomo Alberione.

Coltivare la passione per l’uomo

…Lo ribadisce il papa. Un uomo molto diverso da quello di 50, 20, 10 o anche solo 5 anni fa. Un uomo che sta formando la propria coscienza (la parte più sacra del suo essere) e costruisce la sua persona immerso nel continente digitale, sollecitato da mille input e spesso disorientato. Questo è l’uomo da amare, l’uomo a cui annunciare le meraviglie della vita nuova che abita in noi. Ma non è un uomo lontano, da studiare e analizzare a tavolino. Quest’uomo lo conosciamo bene perché siamo noi, perché anche noi respiriamo e viviamo in questa realtà digitale e siamo tutti compagni di un viaggio che stiamo facendo insieme.

Passione per Dio e per questa umanità, il germoglio che coltiverò perché diventi fiore e frutto.

Sr Nadia Bonaldo

 

L’esperienza on-line di Nadia Bonaldo

«Il Vangelo nella cultura della comunicazione». Lo slogan, che campeggia sulla home page del sito www.paoline.it, è tutto un programma. Anzi, è proprio “il” programma delle Figlie di San Paolo, la congregazione femminile fondata dal beato Giacomo Alberione nel 1915 e impegnata a tutto campo nell’evangelizzazione con i mezzi della comunicazione sociale. Il sito, uno dei primi messi on-line da religiose, risale al 1995 ed è stato rinnovato non più tardi del 2008. Suor Nadia Bonaldo (vedi foto) ne è la responsabile, coadiuvata da una consorella e da circa 20 collaboratori esterni. «Don Alberione», spiega la religiosa, «ci invitava ad annunciare il Vangelo con ogni più moderno mezzo che la tecnica mette a disposizione. Oggi, questo mezzo non può che essere internet».

Le suore Paoline gestiscono numerose librerie, oltre che una casa editrice (con il noto marchio Paoline). Le religiose animano poi varie attività di promozione e formazione, tra cui il Festival della comunicazione, la cui organizzazione è cogestita con i loro confratelli Paolini.

«Nel sito», prosegue suor Nadia, «utilizziamo rubriche di attualità e di cinema, notizie sulle pubblicazioni e interviste con i nostri autori, comunicazioni su eventi culturali organizzati dalle nostre librerie o da altre istituzioni».

I numeri sono degni di tutto rispetto: 5 mila visite settimanali, per una media di tre minuti di permanenza per pagina. Le pagine più visitate sono quelle dove si può scaricare un file Mp3 con la liturgia del giorno. Quasi a dire che la liturgia della vita, cioè la quotidianità, e la liturgia della Chiesa si sposano bene anche in rete.                                                                       S.St.

(da Famiglia Cristiana, n. 19 – 19 maggio 2010, pag. 73)

Progettare e operare insieme

Comunicazioni Sociali | Posted by usmionline
apr 30 2010

Il convegno “Testimoni Digitali” mi ha fatto rivivere con  gioia l’esperienza fatta a “Parabole Mediatiche” (7-9 Novembre 2002), dove la Chiesa che è in Italia per la prima volta ha chiamato a raccolta le varie entità presenti nel mondo della comunicazione e della cultura  per confrontarsi con i nuovi mezzi di comunicazione.

Tale esperienza è stata ulteriormente e, secondo me, qualitativamente approfondita nel Convegno appena concluso che ha posto l’accento non tanto sui mezzi, quanto sugli “intagliatori di sicomori”, cioè sui soggetti che li usano, così che essi, con cuore credente, diventino testimoni digitali.

 Ho rilevato con gratitudine come la Chiesa, nelle sue varie espressioni, dal 2002 in poi abbia consolidato e qualificato la sua presenza in rete, quella che Giovanni Paolo II,   considerandola  un’opportunità, aveva chiamato «areopago moderno».

La partecipazione delle religiose a questo Convegno, anche se ancora piuttosto limitata, ha superato certamente la sparuta presenza  di “Parabole Mediatiche” e fa ben sperare che qualcosa di positivo possa essere  progettato ed effettuato insieme. Durante il Convegno è risuonato in molti modi che la “posta “ in gioco del “continente digitale” dove la gioventù naviga a suo agio per intessere relazioni,  è troppo importante per lasciare i giovani in balia di giochi di potere e dei colonizzatori della rete.  I “nativi digitali” – ossia le generazioni cresciute connesse alle nuove tecnologie – ne hanno assunto il linguaggio veloce, essenziale e pervasivo; nuotano in una comunicazione orizzontale, decentrata e interattiva; si muovono in una geografia che conosce la trasversalità dei saperi ed espone a una pluralità di prospettive.

Infatti sono rimbalzate a più riprese le parole “fede, discernimento, decoder, educazione, confronto, testimonianza, missionarietà”:  

1.     in rapporto al soggetto che deve essere un testimone efficace, abilitato a un linguaggio capace di risvegliare i sensi, di riaccendere le domande sulla vita, di mostrare un Dio dal volto umano, di proporre la fede in modo non esterno alle battaglie e alle speranze degli uomini, perché questo è tempo di verità, di trasparenza e di credibilità;

2.  in rapporto alla Rete che in un certo senso, rappresenta per noi gli “estremi confini della terra” che il Signore Gesù domanda di abitare in nome della nostra responsabilità per il Vangelo. La nostra è anzitutto testimonianza di Gesù, cioè capacità di rimandare, di rinviare alla trascendenza della sua opera e della sua missione… continuare a far sì che nessuno si senta privato della vicinanza di Dio e della sua consolazione che promette “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt. 28.20)

Alla fine del Convegno Papa Benedetto XVI, confortato dalla presenza di tanti operatori della comunicazione e della cultura, convenuti nell’ Aula Paolo VI, ci ha invitato a “qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete… offrendo agli uomini che vivono questo tempo «digitale» i segni necessari per riconoscere il Signore…. La rete potrà così diventare una sorta di “portico dei gentili”, dove “fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto…Il mondo della comunicazione sociale entri a pieno titolo nella programmazione pastorale”.

Sr Maria Rossoni, fdcc