Archive for febbraio, 2011

Daranno ancora frutti (Sal 92,15)

Società | Posted by usmionline
feb 21 2011

Indice vecchiaia: Italia seconda in Europa

La vecchiaia con tutta la sua complessità ha, oggi, una maggiore visibilità sociale a causa della tendenza all’invecchiamento della popolazione. È quanto rende noto l’ISTAT nel rapporto Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo: 144 anziani ogni 100 giovani. In Europa solo la Germania presenta un indice di vecchiaia più accentuato.

L’immagine dominante della vecchiaia oggi è sostanzialmente negativa. Parla di isolamento, solitudine, dipendenza, indigenza, declino intellettuale… Chi non produce, infatti, o non tiene più il passo di un mondo teso al consumismo e al benessere del vuoto a perdere, viene escluso o emarginato dalla stessa società. Ne deriva la paura d’invecchiare, consolidata anche dalla pubblicità che privilegia il giovane e il bello.

Anziani oggi

L’anziano non ha più le forze di una volta per fare quelle cose che era abituato a fare, per essere indipendente e gestire a proprio piacere la vita e gli spazi che gli appartengono. Il suo corpo non riesce a stare dietro ad una mente attiva e forte, piena di grinta e di voglia di lottare ancora. Si ritrova a dover sempre chiedere aiuto… Le reali difficoltà comunque subentrano nell’anziano quando, dentro l’ambiente in cui vive, egli comincia a percepire negativamente la sua condizione -fisica o psicologica- e si rende conto di essere considerato un peso. Allora nel suo cuore fa capolino una domanda seria e pericolosa per le sue conseguenze: Servo ancora a qualcosa, a qualcuno? Oppure: C’è ancora qualcuno cui io interesso?

La scoperta in sé della vecchiaia

Così ci sono molti anziani che si chiudono su di sé e finiscono per mettere sotto il moggio la lampada della saggezza acquisita nel corso della vita. Siamo consapevoli, più che in passato, della necessità di crescere durante e verso la terza età, per non caderci dentro. La necessità dunque di prepararsi, perché ogni istante che passa, passa per sempre.

Vorrei saper ragionare, come Giovanni Paolo II nella Lettera agli anziani, di cose che sono esperienza comune, tutto ponendo sotto lo sguardo di Dio, che ci avvolge con il suo amore. A contatto con i segni degli anni che passano, sento che quello dell’invecchiare è un tema che sempre di più mi appartiene. Vedo però che in genere è più facile adottare la tattica dello struzzo: chiudere gli occhi e cercare di avanzare nel tempo brancolando nel buio.

Se tutti siamo dentro il tempo, non lo siamo certo tutti allo stesso modo. L’anziano vive il tempo limitato che ha a sua disposizione con una certa sproporzione, come quando si è presi alla gola per una malattia grave. Trovarsi alle spalle -per una consapevolezza più o meno improvvisa- un passato la cui lunghezza va a scapito del futuro, fa sentire infatti fortemente coinvolti in prima persona.

Verso la vecchiaia buona del Vangelo

Invecchiare bene in gran parte dipende dal soggetto, da come egli dà senso a ciò che accade e da quanto liberamente accetta dalla vita le sfide quotidiane. Del grado di accettazione del proprio personale invecchiamento, risente, alla fin fine, anche il modo di comportarsi verso l’anziano nella vita familiare e comunitaria.  

A volte non è facile ascoltare le persone anziane… non sarà perché in loro vediamo come in uno specchio quello che saremo o che possiamo diventare? Perché ascoltare chi è già avanti con gli anni ci fa entrare in stretto contatto con le fragilità del nostro stesso invecchiare, ci rende vulnerabili. E non lo vogliamo accettare.

Invecchiare insieme 

Il confronto con il passo obbligato della fine riporta la vita nel suo giusto binario: mette in condizione di diventare più realistici e autentici, di scendere ad un gradino più profondo del proprio essere, di ricavare insegnamenti dal riesame del proprio vissuto. Così nella vecchiaia cambia la scala dei valori e cambiano le sicurezze personali. Ne resta anzi solo una: Dio.

Alla luce della fede la vecchiaia diventa una sfida e un compito, un periodo da utilizzare in modo creativo. Dio chiede ad ognuno di ripartire dall’accettazione della propria realtà; di lasciarsi interpellare da Lui nella verità della propria vita; e dalla Sua verità accogliere nuove ragioni per vivere e continuare a crescere in Lui. Lungo questo cammino la comunità ecclesiale è chiamata a scoprire che può ricevere molto dalla serena presenza di coloro che sono più avanti negli anni.

Sfide e valori tipici della vecchiaia

Si possono riassumere nell’impegno per sviluppare una spiritualità dell’attenzione, della compassione e della saggezza: valori di cui il nostro mondo ha disperatamente bisogno in questo nostro tempo. Valori che riaffermano il principio che Dio, per realizzare i suoi piani di salvezza, si serve non delle persone forti e prestigiose, ma degli anawin, di quel popolo umile e povero che lo cerca con fiducia (1Cor 1,26-31). E la comunità cristiana può essere davvero il luogo dove avviene lo scambio reciproco dei doni spirituali di cui ogni persona è dotata.

Quando qualcuno mi chiede che lo aiuti a fare qualcosa -confida una persona anziana – sento che mi viene dal profondo del cuore un grazie! Poter fare ancora qualcosa di utile per gli altri è un gran regalo di Dio.

Vivendo ogni cosa con la convinzione interiore che al fondo della realtà non c’è il nulla ma l’amore, la persona può vivere finalmente in pienezza il tempo che le è dato e non trovarne più per sentirsi inutile. Così nella terza età la stessa persona può sentirsi ed essere, come non mai, strumento efficace per la missione e la vitalità della Chiesa nel mondo di oggi.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Le suore e l’unità d’Italia

Senza categoria | Posted by usmionline
feb 14 2011

Unità come risorsa

Tre bandiere tricolore -che rappresentano i tre giubilei del 1911, 1961 e 2011 in un collegamento ideale tra le generazioni- costituiscono il logo dell’anniversario che si celebra nel 2011. Dicono oggi la necessità di ritrovarsi popolo, di riconoscersi comunità nazionale e cittadini europei, non come rifugio nel già avvenuto, ma come occasione per il Paese di riscoprire il proprio modo più autentico di essere e di crescere.

L’Italia reale che non corrisponde a quella rappresentata

Soggetto primario nella vita di una nazione sono le popolazioni che vivono e abitano nei territori nazionali, comunità di persone vere e affidabili perché ricche di un’anima nata e cresciuta nel tempo con l’apporto e la fatica di tutti. Comunità piantate in territori diversi, con storie diverse e con varianti anche culturali. Ma energie vive per l’intera collettività, espressioni di autentica umanità proiettata coraggiosamente sul futuro.

Nella storia di ogni popolo vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate»; quando questo è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI).  

Profilo interiore dell’Italia

Il profilo dell’italianità rimane sempre e per tutti un obiettivo e una scoperta da rinnovare. Continuamente. Le suore, soprattutto per la loro concreta vicinanza alla gente, nel corso della storia d’Italia (prima e durante i 150 anni dall’unità) hanno contribuito non poco alla crescita di una spiritualità della comunione e della riconciliazione sul nostro territorio. Negli ospedali, nelle scuole, nei monasteri, nelle chiese, negli ambienti della cultura e della comunicazione, dove le religiose quotidianamente lavorano e vivono insieme, esse sono impegnate a fare e promuovere esperienze di autentiche relazioni umane. Nei loro ambienti le ‘differenze’ sono accolte e rispettate; non sono temute come minacce, ma considerate una ricchezza a disposizione di tutti. Tutto questo ha contribuito nel tempo a rendere più civile e più unita la società in cui viviamo. In sintesi possiamo affermare che le suore hanno contribuito a far nascere e a rafforzare la coscienza di una identità italiana.  

La sfida: educarci ed educare all’Unità

Quello dell’unità è un processo lento e complesso. Ma è anche un compito insopprimibile per una società civile. In particolare la forza del Vangelo chiama quanti lo vogliono accogliere con fede nella propria vita a portare gli uni i pesi degli altri, senza scaricarli su chi ha già zavorre. La stessa forza chiama oggi le suore d’Italia a celebrare l’anniversario dell’unità lanciando una sfida a quanti hanno a cuore il futuro del Paese.  

È dimostrato che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo. Lo Stato – lo ha ricordato il Presidente dei nostri Vescovi – non può creare l’unità, che è pre-istituzionale e pre-politica. È suo compito però e suo preciso dovere essere attento a preservarla e a non danneggiarla. È davvero miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce. Le attuali circostanze storiche sembrano però raccontare altro.

Ritrasmettere con passione la preziosa eredità ricevuta

Se si ingannano i giovani e si trasmettono ideali bacati; se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti e illusori, allora si riuscirà solo a trasmettere un senso distorto della realtà. Si continuerà ad oscurare la dignità delle persone e a depotenziare le energie del rinnovamento generazionale. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. La felicità è altrove rispetto a quanto quotidianamente lo sguardo dei media sulla realtà rileva, e la si conquista in ben altro modo. Gandi insegna ancora oggi: Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo!

                                                                                                Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

 

Il silenzio che parla

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feb 03 2011

Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto ad un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. E’ il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta. Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la   vita di mio marito  e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte ad una difficile scelta: affidare il nostro caro ad una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio. Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta ed affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’ immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della PEG collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per   respirare.

Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere, né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film “La farfalla e lo scafandro”, tratto dall’ autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire ad esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.

Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. E’ stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica ed umana è stata cancellata. Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre. Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva ad inventare quei risotti fatti “con residuati bellici”, trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri, gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove “la terra si salda con il cielo”.

 “Anche se non parla, il nonno c’è ” ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile.  Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine ad una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta ad una sopravvivenza vegetativa? Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché “lui c’è”.   Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto,veramente  tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce ad esplorare. Anche se continui ad interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla, perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel “Siracide” che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: “Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione” . (3,23-24)

   Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di Lui. “Mistero della fede”, ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da se stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto dal sentimento che ha dato vita al Creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.

  Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che “non hanno voce” e che stanno fuori del coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a  quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere. Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «Il volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. “ Il volto” dell’altro ci parla per se stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.

   Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i “miracoli” che provoca: una conversione umana ed interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e “ti fa sentire bene”, nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta. Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui “Diario” dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che “la vita è bella e ricca di significato”, nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo “essere morta mille volte in mille campi di concentramento”, quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se “vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile….Così in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto.”

   Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cosa è la vita , che cosa è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono. Di fronte soltanto più il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni , arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e  la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la “vera vita” che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.

   E’ una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. E’ la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’ amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di farlo. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’ eucaristia permanente. La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.

   E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con se stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. “Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi” ha ricordato di recente Mons. Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.

 Mariapia Bonanate

Una lettera e una testimonianza da Mariapia Bonanate

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feb 03 2011

Cara  Madre Viviana,

 l’impulso del cuore e la consapevolezza di quanto il mondo delle consacrate continui ad essere poco conosciuto, mi hanno spinta a scriverle per parlarle del mio libro “Suore, vent’anni dopo”, edito dalle Paoline. E’ un libro che non mi appartiene e questo mi dà coraggio nel presentarglielo. Mi è nato fra le mani due decenni fa con i volti, le storie, le parole, di consacrate verso le quali mi aveva spinto un disegno che mi supera. Avevo messo a disposizione il mio mestiere di giornalista in cerca di “ buone notizie” e di scrittrice alla quale piace raccontare la vita nella sua imprevedibilità, nei suoi valori e significati, nella sua tensione esistenziale e metafisica, ma anche  nei suoi profumi, nei suoi sapori, nel suo odore di umanità. Il libro allora stupì e piacque. Piacque molto, ne fecero anche un’edizione economica e un film. Molte persone per la prima volta sentirono parlare di “suore” come di persone di famiglia, amiche nella quotidianità e nella condivisione della vita, non separate dal mondo, ma nel mondo.

    Poi il libro scomparve dalla circolazione e i molti che lo cercavano non lo trovavano più. Sentii che dovevo riproporlo perché quelle suore, e tantissime altre consacrate, continuavano a testimoniare la bellezza e l’infinita tenerezza del loro rapporto quotidiano con un Dio, sempre meno presente nell’evoluzione di una società smarrita e caotica. Continuavano a rendere tangibile la sua presenza nei rapporti con le persone che incontravano e con le quali facevano un tratto di strada.  Così, spinta da un’esigenza interiore che non mi abbandonava, l’ho ripreso in mano per riproporlo e raccontare che cosa era accaduto in vent’anni ad alcune delle protagoniste di allora. Ma anche per aggiungervi nuovi capitoli, dedicati ad incontri di questi ultimi anni.

   Cara Madre,  ho ricostruito la vicenda di questo singolare tragitto editoriale e personale per giungere al motivo per cui ho deciso di scriverle: sento di dover fare tutto il possibile perché il maggior numero di suore lo leggano con la semplicità e l’attesa con la quale l’ho scritto. Non certo per me, e neppure per le suore di cui parlo. Ma perché in quelle esperienze, al di là delle singole persone, ho colto la profezia di un rinnovamento indispensabile al mondo delle religiose, pena il disperdersi dei carismi e un distacco sempre più profondo fra il mondo religioso e quello laico. E’ un appuntamento non più rinviabile e sono certa di sfondare un uscio aperto, ma proprio per essere stata così coinvolta nel pianeta suore, di cui mi sento cittadina d’elezione, spero di poter contribuire con questo mio piccolo libro, grande per le storie narrate, ad un appuntamento decisivo. 

  La fedeltà comune al Vangelo ed al messaggio di Cristo ci chiede di fermarci, di ascoltare, di entrare profondamente dentro noi stessi e di ricominciare a camminare con Lui, in una rinnovata fedeltà, nelle strade delle tante Galilee di oggi, come le donne un tempo al suo seguito. Ci chiede di avere il coraggio di trasformare le strutture, che pesano sulle persone fino spesso a spegnerne la freschezza e l’entusiasmo, in carovane viaggianti, pronte a muoversi e a fermarsi là dove Cristo sosta e rimane, per  condividere,  gioire,  soffrire, come faceva Lui, che prima di parlare , è stato con la gente. C’era.

  Non è facile, la paura è tanta. Ne ho avuto e ne ho tanta anch’io. Ma Lui ci dice: non abbiate paura, io sono con voi. Le storie di questo libro, mescolate alla mia storia di moglie (con un marito in stato vegetativo da cinque anni in casa, divenuta una piccola chiesa, il suo letto un altare) di madre e, ora, di nonna, sono storie che, nei limiti umani di ogni vicenda individuale, offrono dei motivi di riflessione importanti perché nascono, da un lato dalle attese della società laica nei confronti delle religiose e, dall’altro lato, dalle attese delle stesse religiose, alla ricerca di un’adesione e immersione nella vita del mondo che faccia sentire tangibilmente la presenza di Cristo. Sono convinta che la donna sarà determinante nei giorni a venire per il futuro dell’umanità. Dico sempre che una suora, quando riesce a vivere pienamente la sua vocazione, è “due volte donna”, per l’estensione e la libertà con la quale può operare e vivere accanto alla persone. Per questo è importante che le donne che si consacrano a Dio, diventino sempre di più “il sale della terra e modelli per tante giovani che hanno bisogno di giustizia e di spiritualità”, come Dacia Maraini scrive nella sua prefazione.

   Le sarò grata se, per tutte queste ragioni che mi auguro lei condivida, mi aiuterà a far conoscere alle religiose delle varie congregazioni questo “nostro” libro. E’ un aiuto che sto chiedendo a tutti, agli amici laici con i quali cerco di costruire il bene comune, alle amiche e amici con i quali cammino per testimoniare che Cristo c’è fra di noi. E ci aspetta perchè gli offriamo i nostri occhi, le nostre mani, i nostri piedi , la nostra voce per abitare con la gente e per la gente. Grazie per quanto potrà fare.

Un abbraccio affettuoso

Mariapia Bonanate

Il silenzio che parla