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Il ‘carisma’ messo alla prova delle culture

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mar 26 2015

Siamo chiamate a integrarci armonicamente nella vita della gente per il bene di tutti
La fraternità tra gli uomini – come ogni fraternità – discende da una comune paternità. Non si scelgono i fratelli: si trovano. Dio è padre di tutti: ogni uomo è perciò mio fratello, ogni _21_1_1_118_donna è mia sorella. Questo implica che nella società – e a fortiori nella vita consacrata – ciò che deve cambiare sono le relazioni per arrivare al cuore della famiglia umana. Non ci sono padroni e schiavi nella società, non ci sono cittadini e stranieri, maggiori e minori. Tutti siamo fratelli.

Desidero partire da lontano, dal libro del Genesi: “Caino, dov’è tuo fratello Abele?” (Gen 4,9). E dal Deuteronomio: “Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama i forestieri e gli dà pace e vestito: amate dunque il forestiero” (Deut 10,17-19).
Anche per noi consacrate, c’è sempre da imparare in proposito, e dopo aver imparato c’è da mettere in pratica, soprattutto oggi, nella nostra società sempre più multiculturale e multirazziale, in cui la mobilità umana aumenta ogni giorno. E’ vero infatti che la società globalizzata – e ne facciamo ogni giorno l’esperienza – ci rende ogni giorno più vicini, ma non ci rende automaticamente fratelli e sorelle. E’ vero che la nostra società diventa sempre  più multiculturale, ma è con fatica che cammina verso l’interculturalità, cioè verso il riconoscimento e l’accettazione reciproca del genio delle diverse culture.
Il grande Papa Paolo VI, per la giornata della Pace del 1° gennaio 1971 scelse opportunamente come tema il noto richiamo biblico: “Dov’è il tuo fratello?” (Gen 4,9), che venne poi ripreso successivamente in alcune giornate  per le migrazioni a livello italiano e mondiale e trova spazio anche nell’Enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI e in tanti interventi di Papa Francesco.

Scrive Papa Francesco nella Evangelii gaudium:
“l poveri e i deboli hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente”. Dobbiamo farci  evangelizzare da loro (tutti dal vescovo di Roma fino all’ultimo dei cristiani). La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a riconoscere Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli e comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.
E ancora: “L’altro (il povero, il bisognoso, il bambino che fugge da una situazione di guerra) è terra sacra …”.

Queste parole sono un invito a guardarci attorno per verificare se i fratelli e le sorelle che Dio ci dona  (nella nostra comunità, in chiesa, per la strada, nei negozi, all’angolo delle strade, nella nostro servizio quotidiano …), qualunque sia la loro lingua, cultura, etnia e colore della pelle, hanno per noi volto di fratelli; ma sono anche un invito a guardarci dentro, nelle pieghe della coscienza, per verificare se la nostra fraternità ha radici profonde, quelle che si ancorano ai valori fondamentali del Vangelo, e se le nostre comunità credono nella fecondità dell’incontro, soprattutto con chi viene messo ai margini. Sono un invito a riscoprire la forza vitale dei poveri di beni materiali, persone senza lavoro, donne e bambini calpestati nella propria dignità, anziani abbandonai, malati, giovani in ricerca di un senso della vita.

Domandiamoci: dove trovare la forza per questo cammino perché sia sempre in salita? Come renderci capaci di riscoprire un nuovo modo di vivere insieme con persone di diversa cultura, provenienza, religione nel segno della convivialità delle differenze e della solidarietà?E come educarci alle relazioni, vera sfida per vivere in una società, in una Congregazione religiosa  sempre più multietnica e multiculturale? Come vivere con semplicità, sapienza, creatività e pace il dono della diversità, della multiculturalità e come farne una ricchezza interculturale in cui sia valorizzato il “genio” delle diverse culture;  e come integrarci nella vita della gente, dei nostri fratelli e sorelle?

A me pare che ci sia una strada preferenziale: lasciarci inquietare dalla meditazione di un aggettivo ricorrente nella preghiera che ci ha insegnato Gesù: l’aggettivo “nostro”.
Padre nostro che sei nei cieli…Dacci oggi il nostro pane quotidiano… perdona i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori …
Dire Padre nostro è possedere la certezza di avere un padre, il padre di tutti, e questo ci libera dalla tentazione di escludere alcuni dal nostro amore; dire Padre nostro è scoprirsi figli, e questo ci libera dalla tentazione di rivendicare dei diritti in più rispetto ai nostri fratelli e sorelle; dire Padre nostro è scoprirsi fratelli e sorelle, e questo libera dall’indifferenza e dalla non comprensione dell’altro.
Anche i nostri fratelli e le nostre sorelle immigrati hanno bisogno di sentire che hanno un Padre vicino alla loro vita e che li ama; di sentire il calore degli altri fratelli e sorelle – il nostro calore di sorelle e madri; di scoprirsi figli della Chiesa e del cammino di evangelizzazione che essa ha compiuto e va compiendo con il contributo di tutti

1.    Padre “nostro” che sei nei cieli …  venga il tuo Regno

Dire “Padre nostro” è avere il coraggio di riaffermare che tutti siamo chiamati da ogni terra, popolo e nazione a vivere nella Casa del Padre per costruire il Regno, che è Regno di verità, di

giovani-insieme-15-8-13-21amore e di pace. Così ci vuole Dio: ingegneri, architetti, artisti  di questo Regno.

Il cuore della rivelazione del Regno è che non esiste nulla al di sopra delle persone e alla comunione delle persone: dobbiamo crederlo e fare di questo dono un impegno. Dice S. Agostino: “Dio vuole che il Suo dono diventi tua conquista”.
Di fronte a un’umanità che ha perso la consapevolezza della propria comune origine e il gusto della fraternità,  Dio ci chiama ad essere testimoni di un nuovo umanesimo, a fare memoria che ciascuno di noi è unico e irripetibile e che ciascuno – proprio per la sua originalità – è importante per la vita della società e per la sua armonia. Non solo, ma ci ricorda che Egli è Padre, il Padre di tutti. Un “Padre che ama e ha cura”, il “Padre nostro”, di ciascuno e di tutti. Dio è un Padre che ama tutte le sue creature, nate dal suo amore e uscite dalle sue mani; Dio ama ciascuno di noi, e ogni nostro fratello e sorella, in modo particolare, privilegiato, unico e ci insegna ad amarci, a rispettarci, a fidarci uno dell’altro, a sostenerci.

Gli altri, i fratelli e le sorelle con cui veniamo a contatto ogni giorno,  ci appartengono e per questa appartenenza noi continuiamo a credere nella fecondità del comandamento di Gesù: “Amatevi come io vi ho amato…”, e a lasciarci trasformare dal suo esempio quando lava i piedi ai discepoli, quando chiama Giuda  “amico”, quando piange su Lazzaro morto, quando risuscita il figlio della vedova, quando riscatta l’adultera, quando prega per chi lo uccide… Ed è da questa appartenenza reciproca che nasce l’esigenza e il dovere ìdi capire l’altro nella sua differenza, senza giudicarlo o condannarlo. Ma più ancora di confermarlo nei suoi doni e nella sua differenza.

  1. 2.    Dacci oggi il “nostro” pane quotidiano

Il  mio pane è anche dei  miei fratelli e delle mie sorelle e il pane dei miei fratelli e delle mie sorelle è anche il mio pane, un pane che alimenta e fa bella la vita. Si chiama condivisione, gratuità, responsabilità, dialogo, capacità di valorizzare le differenze, di essere “custodi” dei fratelli e delle sorelle, di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca,  di attenzione al bene dell’altro, a tutto il suo bene. E’ pane fresco ogni giorno, che dà la forza per il cammino. Pane fresco ogni giorno: Dio non accumula nei granai, ma distribuisce a dismisura…
L’impasto del pane quotidiano inizia col vestire a festa le cose di tutti i giorni e mettere al bando ogni rivendicazione di superiorità. Non ci sono culture minori o maggiori (non ci sono maggiori e minori in una società multiculturale), come non ci sono minori e maggiori nelle nostre comunità. Ogni cultura ha le sue ricchezze e le sue preziosità e ogni persona è ricca della sua dignità e delle ricchezze della sua cultura.  La fraternità vera chiede di instaurare quel clima di minorità francescana per cui, all’occorrenza, ciascuno è disponibile a diventare maestro e allievo, a offrire il proprio pane e a ricevere il pane del fratello o della sorella per condividerlo alla stessa mensa. E ciò è fondamentale perché ognuno di noi è limitato, ogni cultura è relativa e la comunità ha bisogno di tutti e di ciascuno: ciascuno con quello che è e che sa fare.
Nella preghiera del “Padre nostro” diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Con questa domanda ricordiamo e affermiamo il nostro esistere gli uni per gli altri. Affermiamo che viviamo di ospitalità reciproca. Ciò significa che “l’altro mi appartiene; la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza” (Messaggio quaresima 2012).

Hanno scritto acutamente Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola:
«Ciascuna donna e ciascun uomo, nella reciprocità del convivere, apprendono l’umiltà di essere limitati, la necessità di riconoscersi l’uno nell’altro, di stimare ed essere stimati, di essere, alternativamente, ora il pieno ora il vuoto, ora l’attivo ora il passivo, ora il discepolo ora il maestro […]. Sarebbe un danno essere sempre maestri […]. Sarebbe parimenti un danno essere sempre e solo discepoli, se ciò significasse rinunciare a far emergere i tesori nascosti che ciascuno porta in sé…». Maestri e discepoli. Felici di essere ora l’uno ora l’altro.

  1. 3.    Perdona a noi i “nostri debiti” come noi li perdoniamo ai “nostri” debitori…

Di grande importanza, anzi di assoluta necessità, per la pace e l’armonia di una società  multiculturale di una Congregazione che vuole allargare la propria tenda sulle frontiere dell’interculturalità,  è il pane del perdono offerto e accolto: 70 volte 7. La fratellanza, l’unità, non hanno altra regola. Ce lo ha insegnato Gesù, con la parabola del Figliol prodigo, con lo sguardo rivolto a Pietro dopo il tradimento, con le parole dette al ladrone sulla croce: “Oggi sarai con me in paradiso…..

Riguardo al perdono, non posso non fare memoria del Beato Giovanni Paolo II.

Ci vorrebbe un’enciclopedia per tratteggiare qualche elemento di questo aspetto della sua vita … Il perdono del suo attentatore, il perdono per i mali della Chiesa, fatti alla Chiesa e dalla Chiesa… Chiese perdono per tutte le persecuzioni, per tutti i perseguitati del mondo, chiese perdono agli Ebrei, chiamandoli, i nostri fratelli maggiori, chiese perdono ai Cristiani Ortodossi, agli africani per quando furono ridotti in schiavitù. Chiese perdono per colpe non sue, assumendosi il dolore e le colpe del mondo.

Ovviamente, non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi sulle difficoltà che il perdono comporta., Possiamo sperimentare il dissenso, il conflitto, la distanza, la paura, ma devono essere espressi sempre in forma rispettosa e collaborativa. La difficoltà fa parte della vita. Ciò che va bandito è la distanza, il rifiuto, il giudizio, la pretesa di avere ragione a tutti i costi…

vita-consacrataE’ solo facendo l’esperienza del perdono che Dio ci offre gratuitamente che possiamo disarmare il cuore, imparare a perdonare a nostra volta e camminare più speditamente verso l’unità dell’amore, quell’armonia delle culture e delle genti che è “il sogno stupendo” del Padre.

Concludendo. L’incontro con nuove culture e nuovi popoli non può lasciarci  immobili nella contemplazione di una storia già compiuta e che si vuole solo diffondere. L’incontro è autentico, invece, se comporta non solo un processo di adattamento alle nuove esigenze esteriori, ma soprattutto una rilettura del carisma e del suo sviluppo. In questo sforzo di inculturazione, non basta mirare a rinnovare i metodi pastorali, né a meglio adattare le strutture dell’istituto, né ad esplorare con maggiore acume i fondamenti biblici e teologici della fede; occorre suscitare un nuovo slancio di santità.[1]

Enrica Rosanna fma
Già Sottosegretario CIVCSVA



[1] Cfr. Redemptoris missio, 90.

L’Amore c’è e fa la differenza

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mar 16 2015

Nessuna dose di autentico amore umano potrà mai annullare la solitudine umana. Ma abitare la propria vita interiore insegna a piangere, rende capaci di relazioni solide e durature e permette di scoprire che ogni croce è mistero d’amore e di comunione.

Dentro il vicolo cieco della nostra cultura
Noi non siamo - rifletteva K. Rahner – degli esseri che diventano soli… Noi siamo una solitudine. Siamo una sete che sta dentro la natura, un grido di tutto l’essere e una possibilità di orario-docentiricevere amore infinito. E se è così, la solitudine ci è essenziale perché elemento costitutivo della personalità di ogni creatura umana. Anche Seneca duemila anni fa poteva affermare che “La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”. Infatti essa stimola e costringe a proseguire nello sforzo per raggiungere la conoscenza e l’amore assoluti. Ma P.P. Pasolini, già partecipe del nostro tempo, riconosce che “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. In realtà prendere le misure della propria solitudine obbliga a ripiegarsi su di sé e a scandagliare le proprie emozioni… E questo oggi fa proprio paura. Ma la sofferenza che l’accompagna non può certo essere lasciata nell’ombra. Soprattutto non serve – come invece oggi è nel fare dei più – cercare continuamente di negarla e di rimuoverla. Questo paradossalmente fa solo crescere la minaccia del suo spauracchio, non ne spiega il senso, e invece distrae la persona dallo scopo per cui ognuno è stato creato.

Tra fascino del nulla…
Ogni notte si prende commiato dal giorno ricevuto in dono… e alla fine si muore da soli, certo. È il cammino di tutti, credenti e non. È lo scandalo e il terrore della morte. In quella solitudine, dice K. Rahner, nessuno ci può accompagnare; cessa il chiasso delle chiacchiere. Nessuno si può nascondere dietro un altro e trovare una scappatoia richiamandosi al parere altrui. Lì vale solo ciò che si può portare con sé: se stessi come si è nel più profondo del cuore.

La solitudine che viene dall’assenza di senso è ancora più dolorosa di qualsiasi dolore fisico e di qualsiasi sofferenza psicologica. Che cosa vuole Dio dall’immenso pianto del mondo? Gesù dice: se vuoi essere mio discepolo, accetta di essere ‘figlio’ e ‘fratello’, non il centro dell’universo. Dimenticati per ritrovarti. Abbandonati tanto all’Amore del Padre da non avere più bisogno di pensare a te stesso. In realtà la storia del cristiano è sinergia con Dio o non è.
Ma il silenzio intorno è povero, vuoto e triste. E la soluzione più semplice sembra essere riempirlo di rumore…  Rumore interiore, pensieri che si affollano, desideri, sogni… e, quando non c’è questo, accendere la Tv, chattare in internet in modo frenetico, sempre occupati!
Rimane però vero che solo nel silenzio profondo si svegliano le forze del cuore che lo rendono abitato. E solo nella solitudine si può cercare Uno che parli sul cuore.

… e avventura interiore
Credere è osare l’affidamento al TU sempre misterioso di Dio e voglia di vegliare finché Egli non ‘regna’ in mezzo a noi; alzare il capo cercando la sua luce e costruire ogni giornata 1230070_670322783019540_1542914732_nsu questa ricerca. L’avventura interiore della solitudine è la più grande, quella dove si osa di più perché non si sa verso che cosa ci si sta dirigendo. Ci si muove infatti verso l’ignoto, in territori inesplorati dove non esistono mappe. Ma il discepolo sa come sintonizzarsi con il Maestro. Sa che, qualunque sia il percorso che si sta seguendo, la traiettoria della vita spirituale passa sempre per la resa. E quando è forte l’impressione di battere l’aria e di affaticarsi per niente, quando il peso degli altri e delle situazioni appare troppo grande, sa che è necessario alzare gli occhi dai propri mille problemi, verso il Signore, che alle sue creature assicura: io sono con te, non ti lascio più, non sarai mai più abbandonato. Si intravede allora la via per essere cittadini del Regno. Ciò che Cristo chiede per entrarvi è la purezza di cuore, l’apertura a Dio e agli altri, guardare intorno con gli occhi di Cristo e amare con il suo cuore. E sentire finalmente che il proprio cuore si trasforma un po’ per volta in ciò che ama; preoccupato non tanto di affrontare i suoi problemi, ma di affrontare e risolvere quelli degli altri. Ed è vita vissuta nella fede che l’Amore c’è e fa la differenza. E si vede.

La solitudine del Regno è aperta a tutti
L’incapacità di abitare la propria vita interiore diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. “Talvolta mi sono sentito solo, ma questo mi ha solitudineinsegnato a piangere” (G. Lightfoot). E non è piccola cosa. Nella solitudine si vede la verità. Se la si ascolta, la sofferenza insegna che in questa vita tutte le sinfonie rimangono incompiute e si può capire la vera condizione di esseri umani. S. Agostino assicura: “Nella solitudine, se  l’anima è attenta, Dio si lascia vedere”. Colui, che sulla Croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo il suo abbandono, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. È insomma per tutti mistero d’amore. Gesù è venuto solo per dire ad ognuno: credi in te stesso. Ti senti fragile e sei fragile, ma il tuo cuore è la cosa più bella che c’è in te. Riscopri quel luogo interiore in cui ha senso dire Dio e insieme misericordia, speranza… Credi nel Vangelo, immergi nella Parola la tua vita e derivane le scelte.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Perché avete paura? (Mc 4,40)

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mar 04 2015

Quando nel cuore e intorno è notte, Dio abita nei passi di quanti lo cercano. Non ruba il cuore di chi pone in Lui la sua fiducia, lo moltiplica. Vuole figli romenaguariti dalla paura e dalla fatica. Si chinerà su ognuno e nessun sospiro o tremore andrà perduto.

La fede dentro la paura di scomparire nel nulla
In un mondo che sembra aver creato l’età dell’odio e ben pochi mattoni per edificare la ‘civiltà dell’amore’, tanti trascinano la propria vita senza ‘se e ma e perché’. Eppure anch’essi più o meno consapevolmente rimangono alla ricerca di uno spiraglio di cielo. Dice bene Felice Scalia: “Gli uomini del Terzo Millennio, nonostante ogni apparenza, non si rassegnano. Non sanno forse di chi, ma sono in attesa di qualcuno che indichi una luce oltre un tunnel”. È presuntuoso allora pensare a questa umanità, in attesa di autentici consacrati al Dio della vita? La fede oggi nonostante le apparenze non sta morendo. Libertà e amore sono sempre al cuore del mistero cristiano. E chi ha scommesso tutto per il Regno e ha trovato nel paradosso del Vangelo l’apertura di orizzonti nuovi alla propria esistenza, non è certo fuori tempo. Fede e Vangelo sono anzi, oggi più che mai, destinati a far fiorire una più grande radicalità evangelica.

Erri De Luca riflette che non credente – anche se battezzato – è chi non parte mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente. Papa Francesco a sua volta assicura: “I cristiani seduti e quieti non conosceranno il volto di Dio. Per camminare è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo”. Si tratta allora per tutti di non vivere impiantati nelle proprie piccole certezze quotidiane e/o paure, ma “lasciare che Dio o la vita ci metta alla prova”. È Dio a gettare luce sulla necessità di ‘passare’ attraverso la ‘prova’. Lo ha fatto con il ‘passaggio’ per eccellenza: quello del suo Figlio eterno nel tempo, e nella morte per la risurrezione. Due soglie che spezzano il cerchio della vita chiusa nel silenzio del nulla e, agli occhi della fede, rivelano il senso ultimo del vivere e del morire. Pasqua è “passare”. Non festa per ‘residenti’, quindi, ma per migratori che si affrettano al viaggio. E via alla Pasqua è soprattutto fabbricare passaggi là dove esistono muri e sbarramenti; farsi operatori di brecce e atleti di pace, anche attraverso un meno ‘fare’ e un più ‘essere’ … Così, se ogni nascita è sempre un passaggio, credere è non smettere mai di nascere e di rischiare pur di accogliere quell’Amore gratuitamente donato a tutti.

Trionfo della ‘maschera’ e primavera di verità…
“Dalla morte, dal timore della morte – afferma Franz Rosenzweig – prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. E il dolore è il “luogo in cui l’insondabile umano invoca e tocca l’insondabile divino” (G. Marcel). Ma il nostro tempo ha “isolato” la malattia in un mondo che sembra non esistere finché non lo s’incontra; ed ha evaso completamente la morte, escludendola da ogni dibattito e operandone una vera e propria eclissi. Quando poi non può tacere di essa, la trasforma in spettacolo per esorcizzarne il pungolo doloroso. E per la persona è il trionfo della maschera a scapito della verità. Si tratta allora di ritrovare il senso al di là del naufragio. Una sfida per tutti. Una possibile promessa su cui vale la pena di riflettere insieme, credenti e non credenti, per cogliere in tutta la sua radicalità la dignità della vita personale, senza pregiudizi e senza alibi, liberi dalla paura. In sintesi: compito primario oggi per i consacrati è porsi la grande domanda del dolore e della morte; darsene “risposte sempre più approfondite e più vicine a quel ‘perché’ fondamentale e ultimo, che è l’azione dello Spirito nella storia umana, in tutti gli uomini che ne fanno parte” (B. Forte).

…nella prova della malattia e della vecchiaia
timthumbÈ la malattia a far capire che il tempo è contato, più breve di quello che si riesce a pensare quando si è sani. Da tale consapevolezza scaturisce una vertigine che spesso impasta la vita di malinconia e di un’angoscia diffusamente umana. Ma ne scaturisce anche il netto rifiuto del nulla, che per contraccolpo suscita la forza del domandare. Quando l’età avanza e la salute comincia a venir meno, è realtà per tutti – anche per i cristiani e i religiosi – sentirsi più stanchi, tendere a lasciarsi prendere dalla paura di invecchiare, di ammalarsi e scomparire nel nulla. È realtà essere tentati di fare riserva di sé, non aprirsi più agli altri, alla vita comune …; realtà lasciarsi prendere dal timore, quasi dalla vergogna di essere di peso agli altri nel farsi servire e aiutare, ritrovarsi a lottare perfino contro il desiderio di essere eterni sulla terra. In una comunità cristiana piena di impegni e di attività, si soffre anche per il senso di solitudine. A volte poi c’è il timore di non ricevere le cure adatte … Pensieri tutti che rischiano di confondere e di turbare lo spirito.

La forza e la gioia della fiducia in Dio
Perché avete paura? La Parola di Dio, da un capo all’altro della Bibbia, conforta e incalza, mentre infinite volte ripete all’uomo: Non temere, non avere paura! E il suo ‘non avere paura!’ raggiunge ognuno come il pane quotidiano del buongiorno ad ogni risveglio. Ma Adamo fugge e neppure immagina il perdono. Mosso dalla paura di Dio pecca di fiducia e di fede. La sua è la peggiore di tutte le paure, da cui le altre – quella del bambino, del fragile, del malato, del povero, del morente … – discendono come figlie naturali. Rimane però quel ‘Non avere paura!’: parola viva, essenziale, sobria, che non accarezza l’orecchio, ma va al cuore dell’esistenza di chi le apre la propria vita. E spalanca orizzonti impensati, che né la banale chiacchiera benessere4umana, né il ragionamento dotto di questo mondo sono in grado di aprire. Diventa soglia e misura di opere e giorni, in cui la morte è vinta grazie a sempre nuove scelte d’amore. Ma come una creatura umana concretamente potrà liberarsi dalla prigionia interiore delle proprie paure, che a volte diventano incubi? Gesù indica ad ognuno un solo mezzo: la fiducia nel ‘potere’ che egli chiama suo e nostro Padre. Da una piena fiducia in Lui scaturisce quell’apertura del cuore che permette di superare confini e abbandonare comportamenti egoistici, violenti e presuntuosi … quelli che in se stessi in genere si danno per scontati. Si scopre allora che “la grazia vale più della vita” (Sal 62). Ed è la gioia di intraprendere, ancora e ancora, un’esistenza sospesa a Dio, calcolata sulle sue possibilità e non sulle proprie: la forza nuova capace di far vivere in modo nuovo.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it