Rinnovare oggi il modo di gestire la fraternità per essere segno che la comunione fra diversi è possibile. Con sé non prendere nulla se non un tratto del Volto del Figlio di Dio e renderlo riconoscibile nel modo di vivere insieme… E fecondare in silenzio la storia.
Svegliarsi per svegliare…
Quando ci si trova a vivere nel ‘passaggio’ fra due epoche e in un contesto com’è l’attuale di paura e di chiusura, non è facile ‘vedere’ il senso della vita quotidiana e percepire nei propri giorni la presenza di un Mistero amico che sempre accompagna. E se è di tanti oggi trascinare la propria vita nel narcisismo, è la vita collettiva poi che continua a convincere e a trainare, nel bene e nel male. Il fatto è che ognuno porta in sé il bisogno di sapere e di sentire che la propria persona e la propria vita sono preziose per qualcuno. E ciò che primariamente si cerca – anche quando poi ci si perde per strada – ha per obiettivo relazioni autentiche. Il problema che davvero sollecita tutti è chiarire la possibilità di comprensione e di comunione tra le persone. La santità comunitaria oggi è necessaria forse più ancora di quella individuale, per dire al mondo che è possibile crescere insieme nella diversità anche se non ci si è scelti. Le comunità cristiane sono chiamate ad essere segno che la comunione tra diversi è possibile. E l’autorità in esse è esattamente al servizio di questo progetto.
… il compito vero dell’autorità
In rapporto a tale contesto, l’Assemblea Nazionale quest’anno è stata preziosa. Ha esaminato l’esercizio dell’autorità come servizio pasquale nella vita religiosa, indicando strade concrete per un cambiamento intelligente e illuminato della dinamica comunitaria alla luce della Parola. Ogni vita insieme (anche quella dei consacrati) naturalmente è sempre convivenza umana alle prese con i problemi dei singoli, destinati a complicarsi nella relazione. Cercare di rispondere al suo disagio con la forza pacata e creativa della riflessione è tipico di chi vuole accedere alla verità. Non potrebbe essere diversamente se si sta parlando di comunità religiose, che, per definizione, nascono attorno alla Parola e di essa si nutrono. I modelli biblici permettono di gettare uno sguardo positivo sulla convivenza dei consacrati per cogliervi quello che impedisce o ritarda la condivisione dei cuori e intravvedere la direzione da prendere.
In una nuova gestione della fraternità …
Comunità nuove vengono solo da una nuova gestione della fraternità, che conduca con mano ferma e calda verso il superamento di sé,
facendo convergere energie e competenze nella direzione di un obiettivo comune. Il leader efficace, all’interno di una comunità religiosa, prima di tutto tiene conto delle persone, delle loro esigenze e bisogni. Sa che le persone sono sempre più importanti del servizio che rendono. Agisce per loro e con loro con la forza della convinzione (e anche della provocazione), ma sempre rispettando il singolo e la sua libertà. Si mette in sintonia, percepisce, risponde con empatia; aiuta a trovare la giusta relazione tra le persone per conciliare le differenze e viverle come ricchezze; intento a promuovere un clima di fiducia reciproca, si propone come stimolo permanente di crescita e di conversione reciproca.
… corresponsabili tutti della ‘casa comune’
Nella comunità cristiana ognuno è chiamato a realizzarsi nella Parola e in una rete di relazioni, a vivere perciò nei sentimenti dell’altro, facendo proprie la gioia, la sofferenza, la speranza di chi è accanto e nello stesso tempo rimanendo se stessi, per giungere insieme ad un comune sentire. Gesù dà a ciascuno un’autorità e a uno il compito di vegliare, ma per ognuno il primo compito è diventare e sentirsi figli di Dio. Nessuno quindi nella comunità è senza autorità e senza un compito da svolgere. Obbedienza allora è accoglienza quotidiana e faticosa della via evangelica alla libertà. E una buona leadership dipende principalmente dal rapporto che c’è tra il leader e coloro che le obbediscono, da vivere come servizio a Dio e ai fratelli.
La tentazione del potere: malattia dell’autorità
“Come mai la tentazione del potere sembra così irresistibile?” – si chiede H. Nouwen. Può darsi che il potere sia un comodo surrogato del compito faticoso dell’amore. Di fatto la tentazione di esercitarlo per un fine personale è sempre e per tutti in agguato. Sembra più facile controllare gli altri che amarli. Occorre proprio esserne coscienti. D’altra parte è facile scambiare la diversità per superiorità/inferiorità; considerare merito proprio quel di più d’intelligenza, di amore e far pesare questo sui meno dotati. Ma obbedire a Dio comporta libertà, solitudine e ”chi dice di stare in Lui, deve anche vivere come è vissuto Lui” (1Gv 2, 3-6).
Unico spazio di rifioritura…
È lo spazio che si riserva nella vita comune ad un colloquio autentico – nel quale poter esprimere critiche, sofferenze e disagi – che può riaccendere i membri. Se questo spazio manca, sono fiumi di chiacchiere e pettegolezzi, che alimentano divisioni e problemi organizzativi. Il diritto alla critica fa parte di chi ha ricevuto un carisma, dono che certo non è da considerare possesso. Restare asserviti però a volte è più confortevole dell’essere liberi. D’altra parte gli obbedienti affascinano i superiori, ma vero obbediente è chi vuole obbedire, come vero orante è chi vuole pregare. Malattie della fraternità – cultura della lamentazione, ansietà, sconforto (che poi sono frutto della mancanza di fede!) – sono forza che distrugge. Per curarla c’è una sola medicina: la saggezza che nasce da cuori capaci di leggere la realtà lealmente e con onestà, senza illudersi di poter piegare le situazioni alle proprie visioni, né tantomeno di dirigerle attraverso le proprie paure; senza ‘mangiare’ insomma le persone, utilizzandole per… nutrirsi.
La possibilità di conflitti e di delusioni comunque è parte naturale della crescita, da accogliere e gestire sperimentando il processo pasquale per diventare adulti. C.M. Martini confessa: “Quando mi capita di ascoltare i lamenti di chi si sente messo all’ultimo posto, non valorizzato, di chi si sente magari disprezzato e insultato, mi accorgo che ciascuno di noi, io stesso, rischia continuamente di ritornare all’ovvietà, di dimenticare le Beatitudini, di allontanarsi dalla via di Gesù”. Per essere in relazione occorre ‘essere’: né perdersi nella tentazione di possedere l’altro distruggendolo, né annullare se stessi nell’altro. Ma scoprire se stessi nell’altro, senza fuggire da sé, anzi approfondendo la propria vita interiore… E io che cosa sono disposto davvero a mettere in conto?
Luciagnese Cedrone
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