Archive for the ‘Relazioni’ Category

RELAZIONI DISPONIBILI ONLINE

ASSEMBLEA NAZIONALE 2011, Relazioni | Posted by usmionline
apr 29 2011

» Relazione di Sr. Pieremilia BERTOLIN

» Relazione di Sr. Grazia PAPOLA  – Diversi nell’unità in forza dello Spirito 1Cor12

» Relazione di Sr. Grazia PAPOLA – Costruire la fraternità – La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli Gen 37

» Relazione di Sr. Grazia PAPOLA – Incontrare il volto dell’altro – Gen 32,23-33

» Relazione di P. L. PREZZI e sr. Giuseppina ALBERGHINA

Incontrare il volto dell’altro: Gen 32,23-33

Relazioni | Posted by usmionline
apr 29 2011

Il racconto della lotta di Giacobbe con un personaggio misterioso al fiume Yabbok appartiene a una delle grandi storie familiari contenute nella Genesi. Essa si colloca alla fine del viaggio di ritorno a casa di Giacobbe e segna il cambiamento del patriarca, ma in realtà comincia lontano, al cap. 4 di Genesi, con il racconto di Caino e Abele. Questa narrazione si conclude infatti con l’errare di Caino nel paese di Nod, il paese del vagabondaggio e il suo errare può essere simbolicamente un attraversamento dell’insieme delle storie della Genesi . L’incapacità di vivere la differenza tra fratelli come un’occasione propizia di condivisione, facendo diventare la diversità motivo di rivalità, gelosia, violenza, divisione, continua a manifestarsi dopo Caino nelle vicende dei patriarchi. Per quanto riguarda il ciclo dedicato a Giacobbe, la storia comincia alcuni capitoli prima. In Genesi 25 Isacco prega il Signore per Rebecca sua moglie che, come tutte le madri di Israele, era sterile e «il Signore lo ascoltò e Rebecca concepì due gemelli» (25,21). «Gemelli» dovrebbe alludere a una somiglianza radicale, invece – dice il testo – «i bimbi si urtavano nel suo seno», tanto che Rebecca si domanda se, in queste condizioni, valga la pena essere madre (v. 22). Il Signore risponde con un oracolo: i due bimbi sono due nazioni, due popoli, rivali, ancora prima di nascere. Esaù è il primo ad uscire dal ventre materno, ma il secondo lo stringe al calcagno, perciò si chiamerà «Giacobbe», perché ‘aqab significa appunto «tallone»; la radice verbale vuol dire «essere tortuoso, soppiantare, fare trabocchetti» e il calcagno ha a che fare con l’insidia, l’inganno. È come se si prefigurasse già la sua storia, fatta di imbrogli e furbizie allo scopo di prevalere. Il litigio dei due, nel ventre materno, infatti, non era altro che una lotta fratricida per il potere. La fraternità è sempre fonte di differenziazione. Come Caino ed Abele anche Giacobbe ed Esaù sono diversi: uno è primogenito, l’altro è il secondo e l’ultimo; Esaù ama lo spazio aperto, la caccia; Giacobbe invece preferisce abitare sotto la tenda, facendo il pastore in ambito domestico;il maggiore è preferito dal padre; il minore dalla madre. Una sera che Esaù ritorna nella tenda, affamato e affaticato, Giacobbe non gli offre da mangiare, come si conviene tra fratelli, ma gli tende un’insidia, proponendogli un baratto: la primogenitura per un piatto di verdura rossa. Divorato dalla fame, Esaù accetta il baratto, provando poi a rifarsi contro quella astuzia. Più tardi la tensione diventa maggiore, perché con la complicità della madre, Giacobbe inganna il padre anziano e ormai cieco, facendosi credere Esaù ed estorcendo dal padre la benedizione che assicura fecondità e prosperità. Per sfuggire all’ira di Esaù, Giacobbe deve scappare; giunge a Betel, dove di notte ha una visione e riceve una promessa divina, quindi si rifugia da Labano, fratello di Rebecca, presso Haran, e lì lavora per poter prendere come mogli due figlie di Labano: Lia e Rachele. Giunge infine il momento in cui Dio chiede a Giacobbe di ritornare nella terra di suo padre, dove lo attende il fratello – nemico. Senza incontrare e affrontare Esaù, non potrà esserci per Giacobbe un vero ritorno a casa e un futuro. Giacobbe, sentendo che Esaù gli viene incontro con 400 uomini (32,7), ha paura, è un rischio autentico, perché se il fratello arriva con cattive intenzioni sarà una strage. Affrontare il fratello vorrà dire però e innanzitutto confrontarsi con il proprio passato, con una storia di sotterfugi e di inganni, ammettere la propria violenza di un tempo e la propria vulnerabilità del presente. Così Giacobbe si prepara a incontrare Esaù, ma preparandosi a rivedere il volto del fratello, vede invece il volto di Dio. È descritta una lotta intrecciata a un dialogo e alla fine Giacobbe passa il guado zoppo e il posto cambia nome. Gli elementi che collegano la scena di Giacobbe nella tenda del vecchio Isacco e questa situazione allo Yabbok sono numerosi. La cecità del padre era come una oscurità della quale Giacobbe aveva approfittato con scaltrezza; ora, nell’oscurità, in difesa c’è lui e lui viene assalito. Giacobbe, protetto da Rebecca, aveva lottato con Esaù, prediletto dal padre; adesso Giacobbe si trova solo. Ha mandato avanti tutta la sua famiglia, è rimasto lui da solo, e deve affrontare la sua lotta con le sue forze. Quando il padre Isacco gli aveva chiesto chi era, Giacobbe aveva usato il nome di suo fratello; ora gli viene chiesto il suo nome, lo dice e lo riceve cambiato. Giacobbe in quell’occasione ottenne con frode la benedizione paterna senza fare nulla, adesso con fatica e sforzo riesce ad ottenere la benedizione di questo personaggio misterioso. Alla fine di quel racconto era esplosa l’ira di Esaù che aveva giurato di vendicarsi, ora, quando si fa giorno, Giacobbe è pronto a incontrare il fratello e a riconciliarsi con lui. Questi elementi evidenziano come l’episodio simboleggia il cambiamento profondo del personaggio; è avvenuto qualcosa dentro di lui che segna la sua vita, un cambiamento avvenuto in una lotta corpo a corpo con il mistero. Giacobbe attraversa di notte il confine del fratello, per non farsi vedere: è il momento scelto dai malfattori, in qualche modo Giacobbe confessa la sua colpa. La notte di Giacobbe è la notte della paura e della crisi, ma proprio questa situazione è lo spazio e il tempo del passaggio di Dio nella sua storia. Giacobbe è solo: la terra dove aveva trovato rifugio dall’ira del fratello è lontana; la frontiera del fiume apre il cammino in un territorio nuovo. Il capo fa attraversare la carovana e rimane senza compagni, senza aiuti umani. Giacobbe è solo come accade in ogni momento fondamentale e decisivo della vita di un individuo. Giacobbe dunque rimane solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. In ebraico «uomo» è espresso dal termine ’iš che, usato senza articolo, come in questo caso, ha connotazione indefinita: «qualcuno». Il testo lascia indefinita l’identità dell’altro. Giacobbe non sa chi è e non vede perché è notte. Il testo ebraico lascia entrare nell’esperienza di Giacobbe, che lotta senza riuscire a vedere l’altro, omettendo i soggetti: vv. 25-26 «Giacobbe rimase solo e lottò qualcuno con lui fino al salire dell’aurora e vide che non riusciva a sopraffarlo e colpì l’articolazione del suo femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò nel suo lottare con lui»; solo alla fine si capisce che il colpito è Giacobbe. Al v. 27: «e disse: “lasciami andare perché è sorta l’aurora” e disse “non ti lascerò” e disse». Non si sa chi dice “Lasciami andare”, a rigore di logica dovrebbe essere Giacobbe perché è stato colpito, ma solo al v. 28 si capisce che chi chiede “lasciami andare” è l’altro. Chi legge rimane sconcertato perché è difficile identificare i protagonisti e perché non si capisce che cosa stia succedendo. Giacobbe sembra aver perso perché ha il femore spezzato, ma è l’altro che chiede di andare. Dunque Giacobbe sembra guidare il gioco, ma ciò è contraddetto perché Giacobbe rivela il suo nome, si consegna all’avversario dichiarandosi vinto e accettando di perdere. Al v. 29 Giacobbe cambia il nome, l’altro non rivela il suo nome, non perde svelando la sua identità, e tuttavia benedice Giacobbe secondo quanto Giacobbe ha chiesto, e alla fine Giacobbe esce dalla lotta zoppo. Chi è dunque questo «qualcuno» che lottò con Giacobbe? Occorre soprattutto riconoscere il carattere di mistero di questa figura che il patriarca riconosce come Dio quando scompare. Giacobbe lottò con Dio, perché alla fine il personaggio misterioso benedice. Giacobbe lottò con Dio che in qualche modo sentiva estraneo a sé. Dio è l’Altro nel senso forte, e ciò significa affermare l’indicibilità, l’ineffabilità di Dio, il suo inesprimibile mistero. Scrive Dietrich Bonhoeffer «Noi distruggiamo il mistero, perché abbiamo il presentimento che qui incorreremmo in un limite del nostro essere, perché vogliamo disporre ed essere signori di tutto, e proprio questo non è possibile con il mistero. Il mistero ci crea disagio […] Vivere senza mistero significa non sapere niente del mistero della nostra stessa vita, del mistero dell’uomo, del mistero del mondo, significa rimanere in superficie, significa prendere sul serio il mondo solo per quel tanto che può essere assoggettato al calcolo e sfruttato, non risalire indietro rispetto al mondo del calcolo e dell’utilità. Ma vivere senza mistero significa non vedere assolutamente i fatti decisivi della vita o addirittura negarli. Non vogliamo sapere che le radici dell’albero stanno nell’oscurità della terra e che tutto quanto viene alla luce viene dall’oscurità e dal mistero del grembo materno, che anche tutti i nostri pensieri, tutta la nostra vita spirituale, viene dal mistero di una oscurità nascosta, così come la nostra vita e ogni vita» [Cfr. D. Bonhoeffer, Gli scritti (1928-1944), Brescia 1979, 400-401]. L’autentico incontro non è possibile senza mistero: essere davanti a qualcuno significa anzitutto essere davanti al suo mistero; solo riconoscendo la distanza si può entrare in comunione. «La tentazione dell’uomo è di inglobare l’altro, farlo proprio, misconoscendo che l’altro esiste prima di ogni mia iniziativa e di ogni mio potere. Non si può stabilire nessuna autentica comunione dove sussiste il desiderio di essere irresistibili, dominare, vincere, sottomettere. La comunione autentica presuppone la distanza, il riconoscimento dell’alterità» (Grilli). Giacobbe lottò con se stesso per poter dare spazio a Dio, lottò con il proprio io vecchio, con la propria natura corrotta, con l’attaccamento alla propria vita, ai propri interessi. E allora la lotta di Giacobbe diventa un simbolo della storia di ogni uomo che si incontra con il misetro dell’altro; è un’immagine notturna e acquatica, è profondamente battesimale, è legata alla pasqua, alla morte e alla resurrezione, alla nascita di una novità, è l’immagine del nostro battesimo, di un battesimo continuato, come lotta continua per essere veramente noi stessi, per lasciarci trasformare dalla potenza di Dio, per essere disposti ad accogliere la benedizione (Doglio). È il mistero della relazione con Dio e quindi della relazione con ogni essere umano che è «altro», dove se si vuol vincere bisogna che si perda, se si vuole conoscere, si accetti di non conoscerlo, se si crede di volere conoscere lui, si scopre che si sta conoscendo se stessi, perché lui lo sta rivelando e addirittura cambia il nome, e dando il nome nuovo rivela la vera identità. Anche nel nome di Giacobbe permane questa ambiguità che perdere è vincere e vincere è perdere. Dicendo il suo nome, Giacobbe rivela la sua identità, la sua storia. Ritorna la radice ‘aqab che sintetizza la storia di Giacobbe: una storia di astuzie posta ora davanti a Dio. Giacobbe deve riconoscere come sua questa storia, che non è solo la rincorsa del primo posto, ma la complicità con la madre, l’inganno del padre, la frode cosciente del fratello, le trappole tese a Labano e alle tradizioni che egli incarnava… Giacobbe deve riconoscere tutto questo prima di incontrare il fratello nemico. Deve perdere, finalmente, deve localizzarsi nella sua storia, riconoscerla come propria, senza più astuzie e menzogne. È a questo punto – e solo a questo punto – che la storia viene trasformata, e diventa una storia benedetta. Dio gli cambia il nome, facendolo diventare tutto positivo: Yisra’el: Dio è forte, Dio vince. Vincere vuol dire portare nel nome, vivere nella propria vita, il fatto che Dio vince, testimoniare la vittoria di Dio. Giacobbe può decifrare il volto di Dio e ricevere la benedizione che viene da Dio quando riconosce di non essere più capace di ingannare colui che ha davanti e così la benedizione diventa definitiva. Ed è qui che il Dio “altro” diventa il Dio vicino, il Dio di Israele, il Dio di Giacobbe. Finisce l’epoca delle astuzie, inizia l’epoca di Israele, il popolo che Dio ama. Nella lotta Giacobbe viene colpito letteralmente «nella cavità del muscolo», la zona ampia dei lombi. È difficile sapere di quale parte anatomica si tratti; si può pensare che Giacobbe sia stato colpito nella zona genitale che è quella della massima potenza dell’uomo: diventa padre del popolo attraverso una paternità ferita, un riconoscimento della paternità come dono che si riceve e non come ciò che viene solo dalla potenza dell’uomo. Solo dopo questa lotta corpo a corpo Giacobbe è pronto ad incontrare suo fratello e dall’incontro con Dio in cui Giacobbe esce vinto, cioè benedetto e diventa Israele, nasce la possibilità di riconciliazione con il fratello. Alla fine della lotta Giacobbe zoppica, e zoppicando andrà dal fratello, nella condizione di chi è ferito, debole, incapace di sopraffare l’altro. Il racconto si conclude con l’assegnazione di un nome (un cambio) al luogo della lotta: quel luogo si chiama Penuel, che significa: «Volto di Dio». Giacobbe ha visto il volto di Dio, chiamerà quel luogo così e in questo modo diventa capace di riconoscere il volto del fratello. Emmanuel Lévinas cercando di definire il Volto afferma: «Il volto non è l’accostamento di un naso, di una fronte, di occhi, eccetera; è tutto questo, certo, ma prende il significato di un volto mediante la dimensione nuova che si apre nella percezione di un essere. Attraverso il volto, l’essere non è solamente rinchiuso nella sua forma e a portata di mano: è aperto, si installa in profondità e, in questa apertura, si presenta in qualche modo personalmente. Il volto è un modo irriducibile secondo cui l’essere può presentarsi nella sua identità» (Difficile liberté, Paris 1963,20; citato da Chenu, Tracce del volto, p. 17), per cui «la vera unione, o il vero insieme, non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia», sia perché l’uomo è destinato a trovare il senso della “sua” vita solo “di fronte” all’altro, sia perché l’altro, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che non si può né catturare, né uccidere. La visione del volto di Esaù spezza la padronanza che Giacobbe ha esercitato finora e lo richiama alla responsabilità, al comportamento etico, al decentramento. Il volto è in definitiva l’esperienza dell’altro, l’incontro dell’estraneità di fronte a me e al di sopra di me (Chenu, 18) «Così si realizza la “comunione dei Volti”, in cui ciascuno scopre la propria profonda vulnerabilità e si affida. Nella “comunione dei Volti” la parola non insiste, non vuole essere irresistibile ad ogni costo per conquistare e vincere. Nella “comunione dei Volti” è superata anche la paura che porta l’uomo a nascondersi. Nella “comunione dei Volti” si esprime l’agape, che non è mossa dal desiderio di possedere, ma di appartenere, e di assumere l’altro nella sua libertà e nel suo peccato, a dirgli: “mi importa di te”» (Grilli). E così Giacobbe ed Esaù si riconciliano. L’iniziativa di accoglienza è di Esaù e si manifesta con gli stessi gesti che Gesù riprenderà raccontando la parabola del padre misericordioso: Esaù abbraccia Giacobbe e tutti e due piansero e in questo pianto sta la riconciliazione. È finita l’epoca dell’odio e degli imbrogli, in questo pianto, abbracciati, i due si riconoscono fratelli, sono maturati, hanno superato tante difficoltà, hanno lottato entrambi. Nei vv. 8-10 si usa un linguaggio religioso: «trovare grazie, venire alla presenza, essere gradito», sono espressioni che si adoperano rivolgendosi a Dio, e difatti espressamente il narratore mette in bocca a Giacobbe queste parole: «io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio». In ebraico la parola presenza è molto semplice, è la parola «faccia». Giacobbe nella notte ha visto il volto di Dio e adesso vede il volto del fratello come se fosse il volto di Dio. Giacobbe riesce a vedere sul volto del fratello il volto di Dio, sa andare oltre.

Sr Grazia Pepola, osc

Costruire la fraternità: la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli – Gen 37

ASSEMBLEA NAZIONALE 2011, Relazioni | Posted by usmionline
apr 29 2011

Introduzione[1]

Il libro della Genesi è compreso tra due storie che hanno come protagonisti dei fratelli, Caino e Abele al cap. 4, Giuseppe e i suoi fratelli nei cap. 37–50: entrambe le coppie rappresentano la famiglia umana e la difficile via della relazione fraterna. All’interno, le storie narrate sviluppano il tema delle molteplici relazioni umane, ma la fraternità mantiene un ruolo primario. Il narratore non idealizza questo legame, al contrario racconta storie in cui la fraternità, sebbene rimandi, innanzitutto, all’esperienza familiare della consanguineità, quindi alla fondamentale consapevolezza di una coappartenenza, e perciò possa generare una solidarietà e una condivisione molto forti, in realtà è lo spazio di tensioni, conflitti, gelosie, e odi a volte feroci e tenaci. D’altronde. porre all’origine «il fratricidio, l’assassinio di Abele – scrive P. Ricoeur – fa della fratellanza stessa un progetto etico e non un semplice dato della natura».

La fraternità, infatti, costituisce una relazione imposta, non scelta, che dipende dal fatto di avere gli stessi genitori. L’essere fratelli non dipende da una scelta, ma da una accoglienza. Se fra amici ci si può scegliere, tra fratelli ci si deve accogliere e o ci si accetta o ci si rifiuta. Nella fraternità il fondamento non è l’elezione, ma l’accoglienza. Questo elemento si può ulteriormente approfondire con un’altra osservazione. Perché ci sia fraternità devo riconoscere l’altro come fratello. Si tratta appunto di un ri-conoscimento. Non sono io a creare o a predeterminare le condizioni della fraternità, le posso solo accogliere e riconoscere.

Ora, l’accoglienza del fratello passa sempre attraverso il riconoscimento della sua diversità ed è proprio questo l’aspetto problematico. La diversità è iscritta nel progetto originario di Dio, ma la diversità è percepita dall’essere umano sempre in termini di una prova.  Proprio la diversità perciò è il luogo maggiormente esposto all’esplodere del conflitto, o della difficoltà, mentre la parità, la comunione, l’accordo, la condivisione appaiono sempre molto fragili, facilmente contestati e continuamente esposti alla smentita.

La fraternità, perciò, è un luogo di relazioni faticose, perché è l’ambito in cui si manifestano alterità e differenze e i rapporti appaiono sempre esposti alla dinamica della gelosia, dell’invidia, della predilezione e della paura.

La storia di Giuseppe è la storia di una famiglia lacerata dall’invidia e dall’odio, tragicamente divisa, che attraversa dure prove e tribolazioni per raggiungere una inaspettata e immeritata riconciliazione.

 

La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli

Noi conosciamo questo lungo racconto con il titolo di «la storia di Giuseppe», in realtà è, più propriamente, la storia della famiglia di Giacobbe. Di solito si fa di Giuseppe il protagonista della vicenda, e senz’altro questa figura è centrale e determinante in ordine alla trama e allo sviluppa della storia, tuttavia, per il tema che affrontiamo, quella della fraternità, occorre valorizzare la presenza di tutti i personaggi coinvolti. Giuseppe non è il fratello innocente, gli altri figli di Giacobbe non sono i cattivi, Giacobbe non è privo di responsabilità rispetto a quanto avviene nella sua casa. Di una fraternità che si rompe o fallisce, che incontra lacerazioni e persino violenze, la storia di Gen 37-50 dice che tutti sono responsabili, sia della rottura, sia della possibile ricostruzione e che la fraternità implica strettamente anche la relazione di paternità-figliolanza.

La fraternità non si costruisce perciò solamente su un piano orizzontale di rapporti, né bastano solamente la simpatia o l’affinità a costruirla, poiché è imprescindibile anche una linea verticale, il riconoscimento di un padre comune e il riconoscimento da parte del padre della diversità e della libertà dei figli.

I primi versetti del cap. 37 si dilungano a presentare la situazione della famiglia di Giacobbe, quando ormai sono nati tutti e dodici i figli del patriarca e Rachele è morta dando alla luce Beniamino. Il narratore ci presenta una famiglia divisa al suo interno in blocchi contrapposti: Giuseppe, il padre, gli altri figli, con alleanze che ulteriormente acuiscono la divisione: Giuseppe e il padre da una parte, il resto dei fratelli da un’altra.

Le prime informazioni riguardano Giuseppe, che sta con i figli delle schiave, come dice il suo nome è «aggiunto» a loro, ma non pare integrato nel gruppo; a ciò contribuisce il fatto che egli riferisca al padre i pettegolezzi che riguardano i suoi fratelli. Forse Giuseppe non si sente accolto, forse è immaturo, forse è un ragazzo viziato, in ogni caso usa la preferenza che il padre gli dimostra non per favorire i suoi fratelli, ma per gettare sospetti e discredito nei loro confronti. D’altro canto la preferenza del padre nei suoi riguardi è spiccata e visibilizzata nel dono della tunica. In un contesto così la reazione di fratelli non stupisce: lo odiavano e, dice il testo letteralmente, «non potevano parlarlo in pace», nel senso di parlargli e nel senso di parlare di lui. Se si fa attenzione non è chiaro chi sia il destinatario di questo sentimento e di tale atteggiamento, se Giuseppe o Giacobbe; probabilmente il narratore lascia aperte entrambe le possibilità.

I tratti essenziali e tuttavia estremamente espressivi di questa descrizione mettono in evidenza le ragioni delle tensioni familiari, delle cause e dei sintomi. All’origine pare che ci sia la preferenza che Giacobbe ha per Giuseppe, un amore che separa Giuseppe dagli altri figli invece di unirli. Di questa separazione e della difficile convivenza diventa spia l’uso della parola che si modula nella forma della mormorazione e del pettegolezzo, che come tale non è mai benevolo, e di una incapacità a parlare pacificamente, in pace e di pace. Se l’essenza del linguaggio è relazione, incontro, in cui si riceve donando, se la parola introduce a una reciprocità e postula un riconoscimento, il narratore mette qui in evidenza che non basta scambiare una parola per costruire un autentico legame di fraternità, la fraternità esiste nell’orizzonte di una parola scambiata e condivisa solo quando chiamo l’altro fratello, solo quando lo riconosco fratello.

Questo non avviene nella famiglia di Giacobbe. Nel corso del capitolo si farà riferimento ad altre parole, Am non c’è alcun autentico dialogo tra i personaggi, nessuna relazione che crei comunione; le uniche parole che circolano dall’inizio alla fine sono parole di calunnia (v. 2), non di pace (v. 4), suscitano odio (vv. 5.8.11) e rimprovero (v. 10), macchinano la morte (v. 19), sono interessate (vv. 21. 26-27), sono menzognere (v. 32) e ipocrite (v. 33).

Ora, nella crisi che si profila all’orizzonte, tutti hanno responsabilità e tutti hanno attenuanti: Giacobbe è vedovo di Rachele, la moglie intensamente amata e la madre di Giuseppe; i fratelli soffrono della predilezione, sentendo di essere destinatari di un sentimento meno esclusivo o meno forte; Giuseppe è in una situazione difficile di non accoglienza e gelosia da cui cerca di uscire legandosi al padre. Si potrebbe dire che tutti i personaggi reagiscono alla situazione che vivono  coltivando ciascuno il proprio interesse senza provare a guardare la situazione dalla prospettiva dell’altro, senza perciò cercare di comprendere le ragioni dell’altro, mentre provare a occupare un posto diverso, quello dell’altro, fa sì che le cose si vedano diversamente.

Ai vv. 5-11 sono raccontati i sogni di Giuseppe, che egli racconta ai suoi fratelli, forse ancora espressione della sua impudenza, o forse un tentativo di creare un dialogo, che tuttavia fallisce con un risultato tragico: «i suoi fratelli lo odiarono ancora di più» (v. 8). D’altronde, già aver fatto un sogno e raccontarlo ai fratelli accresce l’odio, prima ancora di sentirne il contenuto (v. 5), a motivo di quanto viene detto al v. 11: la gelosia. Non è di fatto il sogno a suscitare la loro reazione di odio, ma la gelosia da essi provata per l’amore preferenziale di Giacobbe; il sogno rappresenta un aggravante, si aggiunge a un timore già concreto. I fratelli non hanno semplicemente paura che Giuseppe giunga a diventare loro re, ma che questo evento divenga il segno di una benevolenza incondizionata e ingiustificata. Essi avvertono che l’amore di Giacobbe per questo figlio è sottratto a loro senza ragioni e senza merito da parte di Giuseppe; sentono che manca loro qualcosa per essere pienamente felici; la predilezione verso Giuseppe è interpretata come un meno di amore nei loro confronti e non come un amore diverso.

Conoscendo come va avanti la storia noi interpretiamo questi sogni come anticipi del potere che Giuseppe avrà, anche sui fratelli, come profezie dell’incontro che ci sarà in Egitto tra lui e i suoi fratelli affamati; tuttavia il narratore è molto più abile di noi e in realtà distingue tra chi racconta i sogni e chi li interpreta. Questa distinzione consente di domandarci se davvero i sogni siano predizioni riguardanti il futuro, come sembra ritenerli tutta la famiglia del sognatore, se esprimano l’ambizione, forse un po’ingenua, di Giuseppe o piuttosto il suo desiderio, ancora acerbo, di riunire intorno a sé la famiglia lacerata. D’altronde occorre anche chiedersi se gli interpreti siano affidabili e lucidi o se l’invidia che nutrono non li porta a stravolgere le parole e le intenzioni di Giuseppe.

L’esito dei sogni è quello di allontanare i fratelli che vanno via segnando così non soltanto una distanza fisica ma anche la divisione ormai in atto all’interno della famiglia.

Giacobbe decide di mandare Giuseppe dai fratelli. L’incarico che rivolge al figlio prediletto suona letteralmente così: «vai a vedere lo šalom dei tuoi fratelli e riportami la parola»; è preoccupato della pace e di una parola che non è di pace. Non conosciamo le ragioni per cui Giacobbe invia Giuseppe. Forse vuole colmare la distanza stabilitasi tra i suoi figli, forse ha riflettuto sul sogno del figlio e si è accorto che nella sua famiglia c’è un problema di fraternità e che lui ne è in parte la causa.

La ricerca è condotta dapprima in obbedienza la padre (v. 14) e poi viene assunta personalmente (vv. 15-16). Il passaggio avviene attraverso l’incontro con un uomo misterioso che domanda a Giuseppe «Che cosa cerchi?».

Questo breve dialogo è di per sé inutile ai fini della trama e inoltre è strano che sia l’uomo a trovare e interrogare Giuseppe e non il contrario: «l’incontro con questo personaggio misterioso consente di esplicitare come tutta la storia di Giuseppe vada intesa quale ricerca di fraternità umanamente fallita, ma divinamente e quindi anche umanamente ritrovata attraverso gli imprevedibili meandri del suo stesso fallimento» (Wénin).

Giuseppe risponde: «Cerco i miei fratelli», non «che cosa», ma «chi» e in più afferma «io cerco», io desidero. Questo è diventato realmente il suo desiderio e l’oggetto della sua ricerca. La sua risposta è ancora più  rilevante se si tiene conto che questa è l’ultima parola che Giuseppe dice in questo capitolo e diventa il suo programma che guiderà il resto della storia.

Per trovare i suoi fratelli Giuseppe deve andare oltre il luogo indicatogli da suo padre, deve andare oltre il desiderio del padre, oltre il desiderio e il progetto di fraternità del padre per seguire il suo. Se Giuseppe segue le indicazioni dell’uomo misterioso è perché desidera davvero trovare i suoi fratelli. Così egli va ora dietro a suoi fratelli: non è il primo, ma l’ultimo, occupa il posto giusto, quello del più giovane, rinunciando simbolicamente al posto privilegiato a cui lo aveva promosso l’elezione paterna. Quando prende il suo posto, lontano da chi lo aveva messo da parte, Giuseppe trova i fratelli.

L’esito della sua ricerca, però, sfocia nel dramma, perché i suoi fratelli non sanno tutto ciò.

Con il v. 18 cambia la prospettiva della narrazione che diventa quella dei fratelli. Essi non vedono in Giuseppe un fratello (v. 19) e non vogliono che il suo sogno si realizzi. Giuseppe è per loro «il padrone dei sogni»: colui che li ha e colui che nei sogni è padrone.

Essi cessano di essere chiamati «i suoi fratelli» (tranne al v. 23) e questa locuzione indicherà solo le relazioni interne al dieci, perché Giuseppe è escluso da questa fratellanza (cfr. vv. 19.26.27.30). Le parole scambiate rivelano il movente del complotto, l’opportunità offerta, il progetto di omicidio, l’intenzione di agire segretamente e lo scopo cercato. Preparano così un progetto per uccidere Giuseppe e farlo sparire e in questo modo colpire anche Giacobbe e il suo amore. I fratelli inventano anche la storiella dell’animale feroce, che come ogni menzogna contiene una verità (cfr. 4,7); inoltre, il progetto ha un risvolto ironico, perché il modo in cui i fratelli cercano di annullare i sogni di Giuseppe, apre la strada al loro compimento.

All’arrivo di Giuseppe la prima azione è togliergli la tunica (nominata due volte nel v. 23), cioè togliere il segno della preferenza del padre; essere privato del segno della predilezione diventa il passo necessario verso la fraternità. Ruben non è solidale con il progetto omicida; non c’è piena solidarietà tra i fratelli, prima Ruben e poi Giuda si oppongono o propongono un piano differente: la violenza non crea vera comunione, ma rende soltanto complici del delitto e uniti a motivo di un terribile segreto da custodire.

Giuseppe è gettato in una cisterna; essa è vuota e perciò non affoga, ma può morire di sete; la cisterna vuota è simbolo della morte nascosta, oppure è il luogo paradossale che non fa morire Giuseppe sebbene egli sia morto agli occhi dei fratelli.

Quindi, al v. 25, i fratelli si siedono per mangiare, un atto di estremo cinismo: il gesto della condivisione è stravolto e pervertito nel suo significato.

Il progetto di uccidere Giuseppe si trasforma all’improvviso in quello della sua vendita; di fatto è sempre una morte simbolica, attraverso la quale Giuseppe dovrà passare per ricostruire la fraternità.

Il narratore sembra dire che sono i madianiti a tirare fuori e vendere Giuseppe: sono loro ad avere il profitto, perché il male non paga. Inoltre per «madianiti» usa un termine che vuol dire «dissidi» (Pr 6,14.19; 10,12). Coloro che hanno venduto Giuseppe sono uomini divenuti mercanti a seguito di dissidi.

I fratelli di per sé potevano non informare Giacobbe, essi in fondo non erano a conoscenza del progetto del padre di inviare loro Giuseppe, ma lo fanno per colpire deliberatamente il padre, rimandano la tunica perché sanno che così il padre soffrirà. Si nomina 5x la tunica e 3x si usa il pronome per indicarla; l’enfasi ha lo scopo di indicare che la preferenza del padre non serve più, e che la tunica che li ha fatti soffrire ora fa soffrire lui. Giacobbe dovrà farsi del male interpretando il messaggio insanguinato. Così Giacobbe verrà ingannato attraverso un capretto, come lui aveva ingannato suo padre separandolo dal figlio prediletto. Lo scopo dei fratelli è pure quello di riprendere una vita finalmente riconciliata ora che Giuseppe non c’è più. Questo sembra uno scopo buono ed essi hanno fatto del male pensando che ciò li avrebbe liberati dal male subito; la tragedia che subito appare è la scoperta che si trattava di un inganno.

Giacobbe, infatti, riconosce la tunica, interpreta il segno nel senso suggerito dai fratelli, grida la sua disperazione e rifiuta il conforto dei suoi figli: più profondamente, egli rifiuta di entrare in una riconciliazione se questa nega un fratello. Non ci si può riconciliare prescindendo dal ricordo di Giuseppe, che Giacobbe tiene vivo; non ci sono le condizioni per la pace perché c’è la menzogna; la pace è possibile solo se i fratelli sono tutti presenti, solo se tra loro circola una parola di verità e solo se lo sguardo reciproco non è geloso.

 

Il ritrovamento e la riconciliazione avvengono solo al cap. 45, quando Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli e nel v. 15 il narratore chiosa: «dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui», segnalando il ritorno della parola scambiata tra fratelli.

I cap. da 38 a 44 raccontano l’itinerario che conduce alla riconciliazione. È un cammino lungo, anche dal punto di vista della durata (circa venti anni). L’indicazione non è priva di importanza perché suggerisce che la costruzione della fraternità ha bisogno necessariamente di tempo, non c’è nulla di scontato e, quando ci sono state rotture, ferite, quando scattano dinamiche di rivalità e paura, il percorso non può sfociare immediatamente nella riconciliazione e nel perdono, perché ciò non sarebbe in realtà autentico.

In questi capitoli viene raccontato un itinerario che coinvolge tutti i personaggi e che non consiste nell’allontanarsi dal male, nel fuggirlo alla ricerca di un luogo non abitato da esso. Il male è cancellato da un tracciato che ripassa su quel male. La trama del racconto rivisita la sciagura del male, ripassa dove c’è stato il dolore. È così che il bene toglie forza al male; perché ciò avvenga è necessario che ognuno faccia i suoi passi per andare verso la vita, perché ognuno ha a che fare con il male di cui all’inizio è vittima e complice nello stesso tempo.

 

Brevemente tratteggio l’itinerario verso la fraternità estesamente raccontato dal narratore in questi capitoli.

Nel cap. 39 si narra l’episodio molto celebre della seduzione tentata dalla moglie di Potifar, di cui Giuseppe era diventato uomo di fiducia. Giuseppe si trova in una situazione analoga a quella che viveva nella sua casa, dove godeva il favore esclusivo del padre, ma adesso, invece di approfittare dell’opportunità di usurpare il posto del padrone, riproducendo l’ambiguità della relazione con i suoi fratelli, non cerca di imporsi, di prendere il primo posto; egli accetta il limite per riconoscere la verità di tutti coloro che sono coinvolti nella trama della donna. Nonostante il male che ha subito non getta la sventura su altri nel tentativo di liberarsene, non entra perciò nel gioco della donna, non invidia il suo padrone. Inoltre, accusato ingiustamente dalla moglie di Potifar, non si difende. Certo così evita di entrare in un conflitto che rischierebbe di rivelarsi controproducente, perché per lui finirebbe male, manifestando un realismo pieno di sapienza, ma soprattutto non accusando la donna, rifiuta il male, rifiuta di aggiungere male al male, riconosce che il cattivo è qualcuno che è a sua volta ferito e sofferente. Giuseppe conosce bene il processo di scalata del male, e perciò evita di riprodurlo, in modo tale da non rendere infelici altre persone nel disperato tentativo di sfuggire alla sventura subita. Egli non abbandona il suo rifiuto del male anche quando ne è vittima. Non tenta di vendicarsi su altri della violenza e della sofferenza che lo colpisce, ma sceglie di fermare il male su di sé, invece di fornirgli l’occasione di proliferare. Si ritrova quindi in carcere, giusto tra i cattivi (39,20-23), allora Jhwh gli si avvicina, raggiunge e favorisce Giuseppe nell’avversità, come se confermasse che la giustizia e la sapienza di Giuseppe costituiscono la buona scelta di fronte al male, ma non per risparmiargli l’ulteriore sventura.

In carcere Giuseppe interpreta i sogni del coppiere e del panettiere del faraone, dicendo la verità, anche quando questa è scomoda o può produrre dolore, perché ormai ammaestrato dal danno prodotto dalla menzogna (cap. 40)

Conosciamo come i sogni del faraone diventano la modalità attraverso cui Giuseppe diventa il viceré di Egitto (41).

Il cap. 42 racconta l’incontro tra Giuseppe e i fratelli a causa della carestia. Anche questa è una tappa estremamente ricca, di cui colgo solo alcuni particolari.

Il capitolo si apre presentando Giacobbe che prende l’iniziativa e rimprovera i suoi figli per la loro passività: essi non vedono la fame perché sono occupati a vedersi; sembrano paralizzati e ciechi; non vedono quello che bisogna fare. Guardandosi l’un l’altro si chiudono nel loro cerchio familiare, cosa che, in questa circostanza, può portare alla morte. Il padre li invia in Egitto, dove ha saputo che c’è il grano, perché per vivere e non morire c’è bisogno del grano.

I figli giungono in Egitto e vanno da Giuseppe (v. 6) davanti al quale si prostrano, senza riconoscerlo, è per loro uno straniero. È Giuseppe che li riconosce, e che impedisce di fatto il loro riconoscimento. Può stupire che Giuseppe adotti questa strategia invece di rivelarsi e perdonarli, ma è troppo generoso per desiderare o sfruttare l’umiliazione dei fratelli, facendosi riconoscere subito e rimproverandoli per quello che gli avevano fatto ed è troppo prudente per tendere la mano in un gesto di riconciliazione immediata, perché, se i fratelli non fossero cambiati, la riconciliazione non sarebbe stata autentica. Egli può perdonare perché ha riconosciuto come Dio ha agito nella sua vita trasformando il male in bene, e rimanendo con lui non per risparmiargli il male, ma per aiutarlo «Giuseppe perdona i suoi fratelli non perché lo meritano, ma perché Dio lo merita» (Schenker), per questo sceglie di costruire un percorso all’apparenza ambiguo in cui la pressione che esercita sui fratelli porta questi a fare la verità su loro stessi e sul male passato, a toccare con mano le conseguenze che hanno prodotto e poi a mostrare quanto il loro comportamento familiare sia cambiato. La sua è una durezza pedagogica.

Di questo itinerario fa parte anche la prigionia per tre giorni per la quale il narratore utilizza una formulazione particolare: «li riunì in custodia», dove il verbo«riunire» è ‘asap: li “giuseppizzò”. Mettendoli in carcere, Giuseppe fa sentire loro quello che lui stesso ha patito a causa loro. Come lui un tempo, i fratelli vengono privati della libertà in modo arbitrario e ingiusto e costretti a vivere in una crudele incertezza riguardo al futuro e costretti a ritornare sul passato familiare che hanno evocato e che smentisce la loro pretesa innocenza. Solo la verità toglie al male la sua forza distruttiva. Per vivere è necessario entrare nella verità. Se per Giacobbe per vivere occorre il pane, per Giuseppe per vivere occorre la verità di una parola affidabile.

Questa esperienza sarà determinante: ravvivando il ricordo della vittima, i fratelli sono indotti a ripercorrere il loro delitto per essere guariti. Infatti i fratelli, posti nella situazione di conoscere l’angoscia dell’innocente, di ricordare il passato e di avere come prospettiva quella di incontrare il dolore del padre, parlano tra loro del passato e lo rileggono alla luce del presente (v. 21; cfr. 37,19).

Per la prima volta parlano di Giuseppe come di «nostro fratello», riconoscendolo come tale nel momento in cui confessano la colpa commessa nei suoi confronti. La colpa consiste nel non aver ascoltato lo sgomento di Giuseppe, nell’essere rimasti insensibili e senza pietà quando lui li supplicava. I violenti vedono la violenza tornare su di loro e colpirli e questo gliela rivela. I fratelli vedono finalmente l’angoscia del fratello e che, non senza ragione, vivono la medesima angoscia.

Gen 37 aveva taciuto il grido di Giuseppe. Il lettore scopre a questo punto questo grido e che la colpa dei fratelli non è semplicemente aver aggredito Giuseppe, ma avergli negato la fraternità.

I fratelli quindi tornano da Giacobbe senza Simeone e trovando nel sacco di ciascuno il denaro del grano. Il padre li crede responsabili dell’assenza di Simeone accusandoli della sua scomparsa.

I fratelli sono così messi di fronte alla verità di un padre che li accusa del male subito e ch si presenta come vittima delle loro macchinazioni. E tuttavia la verità progredisce: Giacobbe a potuto dire il suo dramma e i figli misurare i danni tuttora presenti del loro odio passato.

Giacobbe rifiuta di lasciare andare con loro Beniamino. Egli è «mio figlio», a motivo dell’esperienza passata, della situazione presente, del timore futuro.

Giacobbe non è guarito dal suo attaccamento per i figli di Rachele, anzi, il dolore lo ha come ripiegato.

La prova data ai fratelli da Giuseppe consisterà anche nel riuscire a staccare Beniamino dal padre, affrontando con lui i motivi della crisi familiare e dunque vedendo cosa farne del suo amore preferenziale, ora che Giacobbe sembra essersi intestardito.

I fratelli comprendono che entrare nella verità facendo autocritica non è sufficiente per guarire le ferite aperte dalla violenza e dalla menzogna. Il cammino è ancora lungo, perché il cambiamento interiore non basta: occorre che dei segni di questo cambiamento riescano a vincere una sfiducia giustificata. Giuseppe è sempre presente come vittima o come signore: grazie a lui i fratelli sono in cammino verso la fraternità e quindi verso il fratello perduto.

Nel cap. 43 la carestia mette di nuovo in pericolo la famiglia e Giacobbe tenta di inviare nuovamente i figli in Egitto. La figura determinante diventa Giuda, che nel cap. 38 lui si è trovato in una situazione simile e ha imparato che un rifiuto pieno di paura, la diffidenza e il timore della morte portano morte. Inizialmente Giuda chiarisce la responsabilità di ciascuno e le conseguenze evidenti della scelta da fare, quindi chiede di lascia andare «nostro fratello con noi», domandando a Giacobbe di fidarsi nella loro capacità di fraternità e di dimostrarsi padre di tutti, rinunciando ad essere padre di uno solo. Giacobbe deve rinunciare al suo amore geloso per i figli di Rachele altrimenti la fame ucciderà tutti e la fame è anche fame di fraternità.

Davanti al rifiuto di Giacobbe, al meccanismo di reciproca colpevolizzazione che nuovamente si innesca tra il padre e i figli, Giuda interviene una seconda volta chiedendo «a suo padre il ragazzo», non «tuo figlio», né «nostro fratello». Per Giuda un padre deve fidarsi della parola dei figli e della loro capacità di fraternità, senza rinchiuderli nei loro errori passati, deve preoccuparsi della vita di ognuno, anche quando, per questo, deve lasciare andare i figli per la loro strada.

Giuda indica al padre la sua responsabilità, ma, contemporaneamente, non si sottrae alla propria, perché si impegna a riportare indietro suo fratello facendosi carico di ciò che gli spetta personalmente: dimostrarsi fratello e così inverte l’atteggiamento di Caino, perché si fa custode del fratello. Giuda non propone a Giacobbe di vendicare il suo dolore su degli innocenti, ma si mette in gioco lui stesso, prendendo su di sé la colpa, per bloccare la catena di sciagure, e obbligando suo padre a fidarsi realmente di lui, senza altre garanzie che la parola.

Giacobbe è persuaso e i fratelli tornano con Beniamino in Egitto. Conosciamo la vicenda, con la scoperta della coppa del viceré nel sacco di Beniamino. La scena è drammatica, e i fratelli quando potrebbero liberarsi del prediletto, che, lontano dal padre e in posizione di vittima, è completamente vulnerabile di fronte a loro, scelgono invece la via della solidarietà: non possono più abbandonare il fratello al suo destino. La fraternità emerge nel cuore della prova.

Davanti al signore egiziano è ancora Giuda a prendere la parola. Il tema centrale della sua supplica ruota sull’affetto privilegiato di Giacobbe per i figli di Rachele e sul carattere vitale di questo legame la cui rottura porterebbe il padre alla morte. Tutti nella famiglia, i figli, il padre e Giuda, sono ora d’accordo a proteggere l’amore preferenziale del padre per Beniamino.

Giuda per amore del padre è pronto a essere fedele alla parola data; si offe di sostituire il fratello non solo perché si è impegnato, ma per amore del padre, di un vecchio per il quale la nuova sventura vorrebbe dire morire. Il suo discorso annulla in tal modo, punto per punto, la violazione perpetrata dai fratelli del legami fraterni e filiali.

Questo vuol dire che Giuda accetta suo padre così com’è, con la sua predilezione per i figli di Rachele. Ha rinunciato alla gelosia, poiché non solo acconsente alla realtà della famiglia, ma giunge a sacrificarsi al posto del giovane fratello, per proteggere la relazione preferenziale, da cui dipende la vita del padre, e per salvaguardare la libertà di un fratello più amato di lui. Inoltre, se Giuda diventa schiavo mentre Beniamino va via, Giuda occuperà il posto del colpevole e Beniamino quello dell’innocente: è la verità rispetto alla colpa antica e Giuda inverte l’agire di 20 anni prima.

 

Conclusioni

La fraternità è riscoperta e vissuta quando non si guarda più alle colpe e alle divisioni del passato con spirito di rivendicazione, di gelosia, di vendetta o di concorrenza, ma ci si rivolge al futuro insieme. La storia di Giuseppe indica la possibilità del perdono e della fraternità attraverso la prova.

L’esperienza della fraternità non rientra pertanto semplicemente nell’ambito di ciò che io posso produrre con la mia volontà, con lo sforzo delle mie mani o con la fantasia della mia intelligenza; ha sempre la dimensione di un dono che mi precede e dunque anche la dinamica di una vocazione che mi interpella personalmente. Quella della fraternità è sempre esperienza di una vocazione e quindi di una responsabilità: devo rispondere all’appello della fraternità.

La fraternità esige pertanto un  itinerario spirituale, un cammino che attraversa la profondità della vita personale, non si costituisce soltanto sul piano delle relazioni, ma anche su quello della profondità della propria vita ed è a questo livello che è necessaria una continua trasformazione. Questo vuol dire pure che la fraternità non è stabile possesso o godimento acquisito una volta per sempre, ma è la meta di un cammino, spesso in salita. Verso di essa ci si protende, si giunge anche a goderla, ma sempre dentro un orizzonte segnato dalla fatica, dalla distanza, dall’assenza e quindi dalla ricerca.

Ciò che ci affratella non è tanto ciò che abbiamo in comune, quanto, paradossalmente, quello che ci divide: ciò che io ho e lui non possiede, la sua alterità, che diventa non spazio della concorrenza, della gelosia o dell’invidia, ma rimane la distanza necessaria a consentire l’incontro reciproco attraverso il dono di sé. Non si crea fraternità allargando i confini, ma dilatando lo spazio del cuore e della vita, perché l’altro possa entrarvi con la sua diversità e il suo bisogno. Questo vuole anche dire che attraverso la vita fraterna l’altro mi costituisce in una nuova identità. Nel momento in cui chiamo l’altro «fratello», io do un nome nuovo anche a me, appunto quello di fratello. Non posso chiamare l’altro fratello se nel contempo non riconosco questa nuova identità personale che la vita fraterna mi dona di vivere. Questo implica che la relazione di fraternità diventa autentica solo se giunge a un impegno totale di vita, che coinvolge tutto l’essere della persona, non solo alcuni aspetti, la sfera dell’avere o quella del fare e dell’agire. L’imperativo è a essere fratello, prima ancora che a vivere determinate relazioni o a compiere specifiche azioni verso l’altro. Ne consegue che il mio essere fratello non precede la relazione, ma si costituisce attraverso di essa.

La fraternità ha bisogno perciò di una parola che sappia benedire e di uno sguardo che sappia compiacersi. La parola qualifica il gesto, mentre il gesto invera la parola. Posso accogliere e servire il bisogno dell’altro, ma se non lo chiamo fratello, tra me e lui ci sarà la condivisione solidale di un servizio o di un bisogno, non ancora una fraterna comunione di vita.

Infine, ma non ultimo aspetto, la vera fraternità è dono di Dio. «È Dio che dona di vivere nella fraternità e che si rende Egli stesso percepibile, riconoscibile nella bellezza del vivere insieme come fratelli. La fraternità è frutto della benedizione di Dio e nello stesso tempo è il luogo in cui la benedizione di Dio diviene manifesta e assaporabile» (Fallica).

In tutta la storia Giuseppe e i suoi fratelli non appaiono alla ricerca di Dio, ma Dio è sentito presente e operante; guida la storia in maniera nascosta, invisibilmente. Le vicende interumane non si esauriscono in se stesse, ma comportano sempre una profondità misteriosa che le ricollega con il Signore della storia. Dio dunque guida i passi dei fratelli a passare dall’odio alla riconciliazione.

Niente è estraneo all’opera di Dio: tutto rientra nel suo disegno salvifico, anche il peccato dell’uomo, e tuttavia la storia è lasciata alla libera iniziativa umana. L’agire di Dio non si sostituisce, non fa concorrenza al libero gioco delle azioni umane libere. Dio è la forza misteriosa che può dare alla libertà umana la direzione giusta.

 


[1] Bibliografia: L.Alonso Schoekel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Brescia 1987

A. Bonora, La storia di Giuseppe. Dio in cerca di fratelli. Genesi 37–50, L.O.B. 1.3, Brescia 19953

A. Wénin, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. IV Gen 37–50, Bologna 2007 (in particolare); L. Fallica, La rugiada e la croce, Ancora Milano 2001

Diversi nell’unità in forza dello Spirito: 1Cor 12

ASSEMBLEA NAZIONALE 2011, Relazioni | Posted by usmionline
apr 29 2011

Paolo era riuscito a far nascere a Corinto una comunità cristiana numericamente piuttosto modesta. Ciò nonostante, al suo interno era una comunità molto divisa[1].

Le fratture e le divisioni si erano verificate all’insegna del motto «Io sono di Paolo/Apollo/Cefa/Cristo» (1,12) e si erano sviluppate nell’ambito del battesimo (1,10-17) e della sapienza che è dono dello Spirito (2,6-16) o dell’esposizione retorica di essa (2,1-5).

Paolo non si mette a fustigare la comunità con invettive severe e inefficaci, non attribuisce l’intera responsabilità della situazione incresciosa, in cui versava quella chiesa, ai vari leader, tanto meno si lascia vincere dalla frustrazione davanti alla constatazione che certi problemi fossero causati da comportamenti inautentici non tanto dei fedeli, quanto piuttosto dei missionari. Non si limita però all’analisi della situazione né a esortare alla concordia (1,10), ma cerca di individuare le cause di certe dinamiche ecclesiali contrarie alla carità evangelica, così da aiutare a intraprendere, a questo livello radicale, efficaci cammini di conversione. Non si accontenta di soluzioni parziali, propone risposte di ampio respiro ed elabora una visione di chiesa come comunione di persone, delineando in concreto alcuni criteri evangelici di fondo per vivere in maniera evangelica le differenze personali all’interno della comunità cristiana. Non misconosce le differenze presenti nella comunità, ma, proprio per invitare i Corinzi a valorizzare le differenze senza incrinare la comunione ecclesiale, traccia due prospettive di cammino comunitario: una cristologica e una spirituale. Paolo, dunque, esalta la ricchezza di carismi (1,7), ma ponendo tale ricchezza sotto un approccio all’insegna della teologia della croce, a partire dalla quale deve essere ordinata e giudicata ogni vita spirituale (1,18-31).

L’unico fondamento della comunità è un avvenimento caratterizzato a un tempo da una sconfitta e da una vittoria: l’evento pasquale di Cristo.

La croce è rivelazione paradossale dell’identità di Dio, di Cristo, dell’annuncio evangelico, di cui mostra un volto controcorrente: un Dio potentemente e sorprendentemente operante là dove regna la debolezza e l’insipienza, per questo Egli stesso debole e insipiente agli occhi della saggezza umana, un non-Dio addirittura; un Messia che, contro le più divulgate attese, incarna non splendore e potere, ma quanto di più vergognoso e infame ci sia;

Grazie a questo approccio, la teologia della croce comporta sempre anche un fondamentale accento polemico: le valutazioni dell’uomo relative a ciò che è “sapienza” e “stoltezza”, “forza” e “debolezza”, le classificazioni effettuate sulla base della formazione culturale, del potere politico, dell’appartenenza familiare (1,22.28) vengono contrastate.

Nella croce accade il ribaltamento nel giudizio di valore su tutte le cose appartenenti a questa realtà e ciò in una maniera permanente e vincolante, poiché il Crocifisso annuncia una volta per tutte soltanto il Dio che intende essere Dio e salvatore nella profondità, nella miseria mortale, nella perdizione, nella nullità.

Paolo esorta i Corinzi a riflettere su se stessi e sul loro modo di comprendere la realtà a partire da questo approccio. Essi non possiedono nulla di cui possono vantarsi di fronte a Dio; possono gloriarsi soltanto del Signore (1,28.31).

È necessario vigilare perché i criteri mondani di valutazione (1,22.26) non trovino di nuovo accesso, di soppiatto e travestiti da valori spirituali, nel comportamento della comunità, come è accaduto palesemente con la rivalità creatasi a Corinto intorno ai doni dello Spirito.

 

Dei doni dello Spirito si occupano i capitoli 12-14 che formano un’unità chiaramente individuabile. 1Cor 12,1 segna un inizio: Paolo, come anche in 7,1 e 8,1, comincia ad affrontare un tema che era trattato o dibattuto dalla comunità e che gli era stato sottoposto. Il discorso si estende fino a 14,39-40, che riassume e sintetizza la riflessione condotta dall’apostolo nei tre capitoli. In 15,1 si passa ad un altro argomento.

Paolo, dunque, esordisce annunciando che parlerà «riguardo le cose spirituali»; non specifica però quale sia precisamente il problema dibattuto a Corinto. Si trattava di uomini spirituali, dotati di capacità eccezionali, o dei doni spirituali, e in questo caso di quali? È del tutto probabile che questa formula indicasse le manifestazioni pneumatiche di carattere estatico, in concreto la glossolalia, una forma di preghiera espressa con voci emotivamente cariche ma non comprensibili. Si trattava di esperienze assai ricercate dai credenti della comunità corinzia, perché considerate segno inconfondibile della divinizzazione del beneficiario, strappato a viva forza dai limiti umilianti della sua creaturalità terrena. Sono aspirazioni a cui Paolo fa più volte riferimento in questi capitoli (12,31; 14,1.5.12).

Di fatto queste esperienze cristiane furono interpretate alla stregua di analoghe esperienze pagane (culti delle baccanti), con il risultato di puntare tutta l’attenzione sull’aspetto esperienziale spettacolare e sulla gratificazione psicologica del soggetto beneficiario, innalzato ad altezze sovraumane.

Ma non tutti i credenti di Corinto potevano vantarsi di essere estatici e glossolali. Di qui una frattura discriminatrice tra carismatici esaltati e auto compiaciuti, affetti da un complesso di superiorità, e credenti privi di esperienze estatiche e perciò vittime di un complesso di inferiorità. Tale contrasto emerge quando Paolo afferma con forza che a tutti lo Spirito è donato come fonte di doni ora eclatanti e ora invece umili e modesti ma non per questo meno utili alla crescita della comunità (12,7.11).

Infine, le esperienze pneumatiche erano consumate dai beneficiari all’interno delle loro persone, in modo assolutamente individualistico ed egocentrico. Certo, gli estatici si esibivano durante le riunioni comunitarie, ma senza alcuna utilità spirituale per gli astanti ridotti a spettatori stupiti e magari invidiosi. Nessuna edificazione della comunità, solo autoesaltazione dei carismatici.

Paolo evidentemente conosceva bene la situazione della comunità, ma non dà subito la risposta alla domanda formulata dai Corinzi, o la soluzione alla questione sorta all’interno della comunità. Il suo procedere si snoda attraverso un percorso che può essere sintetizzato come un passaggio da una riflessione più generale, a un approfondimento, fino a trattare questioni che paiono più concrete.

Ritenere che Paolo stia semplicemente affrontando il tema di uno o due fenomeni spirituali pone delle difficoltà rispetto al cap. 13. I capitoli 12 e 14 infatti trattano il tema delle manifestazioni dello Spirito, dapprima a livello generale e poi nel dettaglio di due carismi, l’encomio del cap. 13 interromperebbe allora lo sviluppo del pensiero.

Il percorso dei capitoli 12-14 va considerato nella sua globalità e progressione argomentativa, proprio perché l’impressione che si riceve è che per Paolo non sia un dono o l’altro il vero problema da affrontare; egli inserisce le questioni pratiche, che i suoi interlocutori ben conoscevano, in un quadro molto più ampio e articolato di ragionamento in cui anche il cap. 13, con l’encomio dell’agape, ha una precisa motivazione e importanza.

Non è più o solo una questione relativa a quale carisma sia il più importante: a Paolo interessa piuttosto chi sia il credente all’interno di quale comunità.

Lo schema dei tre capitoli risulta il seguente:

a          12,1-30: i fenomeni spirituali

b          13,1-13: l’elogio della carità

a’         14,1-40: due fenomeni spirituali

Tra il cap. 12 e il cap. 14 c’è evidentemente un rapporto, dal momento che si parla di fenomeni spirituali, al centro Paolo introduce un altro tema e un altro vocabolario, quello della carità.

La diversità e l’apparente non pertinenza rispetto al tema generale della cornice sono indizi del fatto che il centro è la chiave di interpretazione: è il vocabolario e il tema della carità che permettono di comprendere cosa intendere per carismi e come.

I primi tre versetti costituiscono l’introduzione non solo al cap. 12, ma a tutta l’unità; si tratta di versetti difficili, dal momento che non sembra abbiano un significativo aggancio con quanto segue Si può intendere che Paolo sottolinei qui lo sfondo, determinato dall’esperienza che i Corinzi hanno fatto di Cristo, e che stabilisca il terreno da cui partire.

Il criterio per distinguere ciò che viene dallo Spirito e ciò che non viene dallo Spirito è Gesù Cristo.

L’argomentazione vera e propria si sviluppa a partire dal v. 4.

Lo schema complessivo del cap. 12 è:

a          vv. 4-11                      i doni

b          vv. 12-26/27:               l’esempio del corpo e delle membra

a’         vv. 27-30:                    i doni nella chiesa

La chiave di lettura appare l’esempio del corpo e delle membra in riferimento alla chiesa nella sua unità e complementarietà.

I vv. 4-6 sono costituiti da tre frasi molto simili, divise ciascuna in due membri: il primo sottolinea la diversità, il secondo mette in evidenza l’unicità, attraverso una formulazione trinitaria.

Nella chiesa corinzia si parlava di esperienze pneumatiche e si accentuava il versante psicologico e l’aspetto dei vissuti sovraumani provocati da impulso esterno e irresistibile. Paolo, invece, sottolinea che si tratta di «charismata», cioè di doni concreti di grazia provenienti dall’alto. Dunque, nessun esibizionismo dei beneficiari appare giustificato: tutto è grazia e dono immeritato. D’altra parte, la loro origine divina e gratuita dice che non si può prescindere dal donatore e dalle finalità da lui perseguite. Di fatto, Paolo precisa, lo Spirito dona i carismi per l’utilità (12,7), per l’edificazione della comunità (14,12). Si tratta dunque di doni di grazia prettamente funzionali.

Paolo non utilizza soltanto il termine «carisma», ma anche «ministero» e «operazione». «Ministero» indica il servizio e la parola scelta fa riferimento a un servizio libero e volontario, diverso da quello imposto allo schiavo. I servizi o ministeri vengono dalla libertà del Signore che dà a ciascuno la possibilità di volere e il potere di fare un servizio nella Chiesa. L’iniziativa, anche in questo caso, è riportata al Signore e il servizio, più che l’atto compiuto, esprime la relazione con qualcuno: si è servi di qualcuno, non di sé o per sé.

L’altro termine, «operazione», indica propriamente l’energia, per cui nel contesto dei doni, esprime l’efficacia, la dinamica, la forza di Dio. Dunque non si intende indicare soltanto la diversità dei doni, ma anche che tutto è efficace perché opera di Dio. L’attenzione è così posta sull’effetto dell’azione: l’uomo, destinatario del dono, ha in deposito il risultato di azioni compiute da un Altro.

Paolo affronta la questione consentendo di distinguere tra uniformità e unità, e mettendo a tema il rapporto tra molteplicità e unità. Non insiste su una o sull’altra, ma cerca di abbinare le due componenti, per cui una è conseguenza dell’altra e la diversità trova la sua fonte nell’unicità: l’unico Signore dà doni diversi  e ogni dono deve capirsi in funzione di un insieme e della totalità. Paradossalmente, Paolo afferma che è l’unità/unicità dello Spirito la fonte della diversità. Questa relazione di origine è ciò che permette di dire che qui non si sottolinea o la molteplicità dei doni o l’unità, ma il loro rapporto, la loro combinazione, così che la molteplicità deriva dall’unicità e questa rimanda alla diversità.

Ogni membro della comunità è pertanto chiamato a sostenere tale paradosso. La diversità dunque non è dispersione, perché porta il segno o il sigillo dell’unicità. Focalizzarsi su un unico dono è assurdo, perché occorre vedere tutti gli altri.

Non c’è nessun elitarismo perché lo Spirito ripartisce i suoi doni di grazia tra tutti i membri della comunità, nessuno escluso. A ciascuno dunque è data una manifestazione particolare dello Spirito «per l’utilità». Nel v. 7 la traduzione CEI parla di «bene comune»; in greco, tuttavia, c’è solo il sintagma «per l’utilità», e ciò vuol dire che il dono dello Spirito ricevuto da ciascuno è finalizzato all’utilità, innanzitutto l’utilità di chi lo riceve, nel senso che gli fa bene avere quel dono, lo aiuta nella salvezza e, nello stesso tempo, quel dono viene messo a servizio degli altri e diventa utile per la comunità. La manifestazione è per te e per tutti.

Nei vv.7-10 Paolo offre quindi una lista dei doni dello Spirito; si tratta solo di un elenco esemplificativo, non ci sono tutti i carismi possibili, tanto è vero che dopo, ai vv. 28 e 29 darà un altro elenco in cui alcuni ritorneranno e altri saranno nuovi.

In base alle forme che esprimono i doni (neutri in -ma o mancanza di articolo), si può dire che Paolo insiste sulla loro occasionalità, per cui si sottolinea che l’origine del dono non è nell’uomo. La costruzione delle frasi, d’altronde, con all’inizio il riferimento al destinatario del dono, è un indizio del fatto che l’enfasi non va sul carisma, ma sull’uomo, sul fratello quindi, membro della stessa comunità, e questo è un fatto che verrà ulteriormente sviluppato.

Si ha una ripartizione di dono diversi concessi a soggetti diversi, per cui nessuno li possiede tutti e nessuno non ne possiede alcuno. Non si ha la partecipazione di tutti agli stessi carismi, ma ciascun credente riceve un suo proprio e caratterizzante carisma. Come fonte di carismi diversi lo Spirito è sorgente di diversità e di individualità nella comunità cristiana.

Nell’elenco figura come primo carisma la parola di saggezza, da intendere come la capacità di far gustare le cose, di trasmettere l’insegnamento in modo giusto. Il linguaggio di conoscenza indica un approfondimento scientifico, teologico, teorico della fede, la capacità di intuire, di comprendere.

La fede è probabilmente quella forza di fede particolare che si manifesta in situazioni estremamente difficili. Segue il carisma di guarigioni, un sintagma che può avere un doppio significato, quello di guarire, cioè di superare la malattia e quello di far guarire, cioè di aiutare un altro a superare la malattia. Anche l’espressione successiva «energie di potenze» è molto generica e indica ogni manifestazione forte, energica, di impegno, di organizzazione, di servizio, di potenza.

La profezia non è ovviamente la previsione del futuro, ma l’interpretazione del senso, cioè la capacità di leggere dentro le persone, dentro gli eventi per cogliere il significato di ciò che sta capitando. Discernere gli spiriti invece indica la capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Da ultimo Paolo elenca la varietà delle lingue, cioè la glossolalia, e l’interpretazione delle lingue: vale a dire la capacità razionale di spiegare questi suoni inarticolati.

Dopo aver elencato i carismi dell’apostolato, della profezia e dell’insegnamento, l’apostolo si domanda se tutti i credenti possono essere apostoli, o tutti profeti, o tutti maestri, e la risposta ovviamente è no.

A scopo illustrativo nel brano dei vv. 12-26 Paolo paragona la chiesa di Corinto all’organismo umano, che si caratterizza per la presenza di molte e diverse membra concorrenti, ciascuno a suo modo, alla crescita armoniosa del tutto.

A prima vista il paragone dei vv. 12-26 interrompe il filo del discorso. Si potrebbe infatti passare al v. 28 senza difficoltà. Occorre perciò domandarsi cosa aggiunga l’esempio all’argomentazione precedente, perché Paolo l’ha inserito e perché ha scelto proprio questo momento per farlo.

L’accento non cade sull’unità del corpo ma sulla necessaria pluralità e diversità delle membra che lo costituiscono. Per arrivare all’unità la molteplicità è importante e non si oppone all’unità. Proprio per sottolineare questa unicità nella molteplicità, il corpo umano è appunto un esempio estremamente efficace, perché è fatto di tante parti diverse le une dalle altre, eppure il corpo è una unità sola.

I vv. 12-13 mettono in evidenza che a lui non interessa parlare della chiesa in sé, ma nella sua relazione con Cristo a cui abilita lo Spirito. Infatti Paolo non si ferma al puro e semplice paragone: la chiesa di Corinto è sì come un corpo, ma ancor più è il corpo di Cristo, cioè una grandezza organica che appartiene al Signore Gesù e i singoli membri della comunità corinzia ne sono le membra. Questo determina la possibilità per Paolo di leggere in chiave escatologica e non sociale un’immagine, quella del corpo e delle membra, che era conosciuta e usata al suo tempo. Questo vuol dire che l’unità del corpo non viene dai gruppi sociali che formano la Chiesa; Paolo riprende le categorie sociali diversificate (Giudei e Greci, schiavi e liberi), ma l’unità nasce dal battesimo, nasce dalla partecipazione al mistero della morte e resurrezione del Signore Gesù. È dunque un principio che supera ogni unità sociale e si radica nel mistero di Dio.

La relazione chiesa-Cristo, fondata nel battesimo, è infatti una realtà escatologica[2]. La metafora ha il suo fondamento nel fatto che le membra richiamano la molteplicità, Cristo l’unità. In un corpo ci sono molte membra e molte funzioni, ma tutte sono a servizio dell’unico corpo. Lo sviluppo del paragone, che procede per tappe, mostrerà che questo fatto è voluto da Dio (v.1 8 e v. 24).

Con il v. 14 inizia il paragone vero e proprio che si può suddividere in due parti. Nella prima prendono la parola il piede, simbolo del movimento, e l’orecchio, simbolo dei sensi. Piede e orecchio erano ritenuti parti inferiori rispetto alla mano e all’occhio. Le oro affermazioni sono pertanto espressioni di auto disprezzo e tuttavia, dice Paolo, non perché lo dicono lo sono.

Nella seconda parte (vv. 21-24) sono invece le membra superiori a esprimere il loro disprezzo per quelle inferiori, ma anche in questo caso il ragionamento, dice Paolo, non funziona. Dunque, nessuno può disprezzarsi e nessuno deve minimizzare il ruolo dell’altro, ma è necessario un rispetto nei confronti di tutti. A fondamento di ciò c’è la convinzione che è Dio ad aver voluto che il corpo ecclesiale fosse così.

Riportando il paragone alla situazione della comunità di Corinto, esso manifesta che non ci sono carismi più importanti di altri, al contrario è necessaria la diversità e la complementarietà dei membri per la costruzione e la valorizzazione dell’unità. È la molteplicità a manifestare, paradossalmente, l’unità e la favorisce.

Contro la divisione e l’orgoglio Paolo afferma che, in quanto membra dell’unico corpo, ogni membro va considerato come appartenente a me, parte di me, mia ricchezza, pur o a motivo della sua diversità da me; si tratta pertanto di recuperare la visione autentica della comunità e dei diversi carismi che si manifestano al suo interno.

I carismi perciò non vanno considerati in sé, ma in funzione di un insieme. Certo, c’è una gerarchia di carismi, ma non è detto che quello che conta di più, quello più evidente, sia anche il più importante. Ciò che effettivamente vale è che ogni carisma è in relazione agli altri.

Non si tratta di distinguere o di opporre, ma di riflettere a livello comunitario su ciò e ad accogliere la sfida.

Nei vv. 27ss. superando il paragone, Paolo fa seguire un elenco dei molteplici e complementari servizi o carismi presenti nella chiesa (v. 28). I primi tre sono elencati in maniera classificatoria e se ne qualifica i possessori con termini specifici: si tratta rispettivamente di apostoli, profeti e maestri. Poi vengono menzionate alcune funzioni carismatiche in una enumerazione esemplificativa non esaustiva.

La contrapposizione carisma-istituzione non regge a una analisi approfondita della teologia dei carismi. Anzitutto perché carisma, secondo Paolo, non vuol dire esattamente espressione di uno slancio spontaneistico interiore, ma dono di grazia, il cui principio è Dio stesso, o anche Cristo, come pure lo Spirito. In altre parole, il carisma per l’apostolo è realtà specificatamente teologica. Soprattutto, a suo avviso, tutti i servizi utili e necessari per il buon funzionamento della comunità cristiana sono carismi, cioè doni di grazia. Anche il governo della chiesa e la sua presidenza sono di natura carismatica, essendo concretizzazioni storiche della grazia di Dio.

Affermando che tutti i servizi sociali della comunità cristiana sono carismi, Paolo ultimamente intende sottolineare che questa è diretta da Dio, vero responsabile del suo buon funzionamento. L’apostolo afferma così il primato della grazia nell’essere della comunità.

La complementarietà dei diversi servizi ripartiti tra i diversi membri della chiesa postula una fattiva solidarietà degli uni a favore degli altri, solidarietà visibile nel corpo umano dove le diverse membra si prendono cura le une delle altre secondo il criterio del bisogno.

 

A conclusione di questo discorso Paolo invita a non disprezzare, ma a desiderare i carismi più grandi, e nello stesso tempo egli mostra la via migliore di tutte, quella infinita (12,31). Vale la pena recuperare il testo originale del v. 31, che risulta molto più incisivo e sottolineare che a questo punto l’apostolo non parli più di carismi ma di via.

Usando «via», egli va verso qualcosa di smisurato. La «via» è identificata con l’agape, vale a dire l’amore di Dio che abita nell’uomo e ne plasma la vita. La via è il comportamento dell’uomo, il suo atteggiamento, il modo in cui vive. Essa è oltre i carismi e Paolo la qualifica con una locuzione particolare che può essere resa con l’aggettivo «smisurato», per indicare l’eccedenza che intende segnalare. Questa via non è pertanto semplicemente la migliore, ma è la via per eccellenza, anzi, è l’unica via possibile per il discepolo; per questa ragione, se mancasse l’agape, uno non è più ciò che è, cioè credente e membro del corpo di Cristo.

I carismi elencati al cap. 12, infatti, sono doni spirituali dati da Dio per occasioni precise e non sono distribuiti a tutti; ogni carisma, cioè, è un dono divino, utile alla persona stessa o ad altre persone, un dono che corrisponde a una diversificazione delle membra del corpo di Cristo e quindi non si trova in tutti i credenti. L’agape, invece, non può essere un dono del genere, dal momento che va dato a ogni credente continuamente. Gli altri doni possono esistere senza la carità, che è invece qualcosa di più interno e indispensabile a tutti i credenti. Paolo così passa dall’esterno all’interno, cioè dall’organizzazione esterna della chiesa, con la molteplicità delle mansioni, al principio di vita dal quale dipende il valore di tutto il resto.

La carità dunque non è qualcosa che permette di eseguire cos buone: quelle descritte sono tutte cose buone (glossolalia, profezia, scienza dei misteri, dare tutti i suoi averi) e sono già effettuate (ma senza la carità). Si può quindi fare del bene senza la carità. La carità è ciò che fa esistere il credente e ciò che gli dà la sua identità.

 

 


[1] Bibliografia: Fascicoli di «Parole di vita» dedicati a Paolo nel 2002; G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1995; R. Penna, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, EDB 1984; Id. L’apostolo Paolo, Paoline 1995

[2] Paolo utilizza diverse metafore per parlare della chiesa; alcune si ritrovano in 1Cor nei capitoli precedenti: campo, edificio (3,9), tempio di Dio (3,16-17), membra di Cristo (6,15). In particolare, la metafora della chiesa come corpo di Cristo trova la sua validità e il suo senso nella resurrezione di Cristo. Sulle immagini della Chiesa in Paolo, J-N. Aletti, “Le statut de l’église dans le lettre pauliniennes. Réflexion sur quelques paradoxes”, Bib 83 (2002), 153-174.