Il bisogno di dire ‘io c’ero, ho visto…’ in quei luoghi tristemente famosi, dove si sono verificati fatti terribilmente tragici, è specchio dei tempi, o espressione di una umanità in decadenza?
Specchio dei tempi…
Forse già 2000 anni fa Lucrezio aveva visto giusto quando, nel De Rerum natura, scriveva che è piacevole osservare, dalla riva, una nave che cola a picco “non perché rechi piacere che qualcuno si trovi a soffrire, ma perché è dolce scorgere i mali dai quali siamo liberi”.
Il relitto della Costa Concordia, adagiato ormai da mesi sulla scogliera dell’isola del Giglio, continua a registrare folle di curiosi che vengono anche da lontano per osservarlo dal vero, gruppetti che scambiano il gigante bianco per il monumento simbolo di una grande città da immortalare durante una gita, persone che cercano di farsi inquadrare da qualche telecamera in azione mentre passeggiano ‘del tutto casualmente’ davanti alla scena della sciagura, e persino coppie che sulla stessa scena fanno uno spuntino, come in una gita fuori porta, e poi si godono il macabro spettacolo…
…o espressione di una umanità in decadenza?
I “turisti dell’orrore”, oggi in costante aumento forse anche a causa della grande attenzione riservata dai mezzi di comunicazione ai casi di cronaca più efferati, sono forse semplicemente sciacalli della sofferenza altrui? Certo accade sempre più spesso che tanti nostri contemporanei per curiosità, scelgono di muoversi in vacanza verso luoghi che trasudano tristezza e dolore. L’obiettivo più o meno consapevole: poter rivivere (ma comodamente e senza pericoli!!) un pezzetto della tragedia che ha portato quei luoghi alla ribalta della cronaca.
I viaggi dell’orrore
Secondo gli studiosi del comportamento umano il fenomeno non è poi così insolito. E più fortemente sente il bisogno di poter dire “io c’ero, ho visto…” chi è più suggestionabile dal punto di vista emotivo.
Intendiamoci: esistono luoghi – come i campi di concentramento o i campi di battaglie famose che sono parte del nostro bagaglio storico e culturale – che vanno visitati per comprendere meglio le radici della civiltà in cui siamo immersi. Curiosità macabra invece è quella riferita a luoghi ‘famosi’ per violenze e omicidi, eventi drammatici fini a se stessi, senza relazione con la storia del Paese. Le mete principali di questi ‘viaggi’ sono i luoghi colpiti da catastrofi naturali, come negli ultimi tempi le zone terremotate dell’Emilia, e quelle case private, quelle strade dove si è consumato appunto qualche delitto (Cogne, Avetrana…). La dinamica è sempre la stessa: si sceglie un luogo che abbia avuto forte risonanza mediatica e reso celebre da telegiornali e quotidiani; ci si documenta e poi si parte, considerando la meta un po’ come un set cinematografico.
Perché si sviluppa tale curiosità macabra?
In fondo si tratta di un modo per essere, se non protagonisti, almeno comparse in un ‘film drammatico’. Ci si stringe gli uni agli altri, con la voglia di spiare, scrutare; con il desiderio di cogliere qualche dettaglio nascosto, cercando di vivere una realtà che non si percepisce totalmente.
Si vive di riflesso la vita altrui, mossi da una curiosità che è radicata nel profondo egoismo esistenziale, forse per noia, forse per abitudine, forse solo per esorcizzare la propria paura della morte. Non è un’altruistica volontà di partecipazione al dolore degli altri a spingere verso il turismo del macabro. Più realisticamente questi ‘viaggi’ sono espressione di una crescente povertà interiore.
Fra sogni e incubi
Un fatto è certo: nel nostro tempo ci ritroviamo sempre un po’ più soli. Ognuno con il suo carico di drammi esistenziali e di decisioni da assumere; ognuno con la sua fatica a entrare in relazione con l’altro e con le luci e le ombre di un tempo nuovo da affrontare. Certamente non sempre siamo in grado di vivere, per il presente e per il futuro, quella responsabilità che Max Weber affidava all’uomo come compito suo proprio.
Il mistero allo stesso tempo attrae e respinge. Incuriosisce e impaurisce. Affascina e spaventa. L’orrore, in qualche modo, bypassa la mente analitica e la rende più manovrabile, come una triste voce nel silenzioso vuoto che riempie i giorni di molti.
È facile in tale situazione abbandonarsi a forme illusorie di superamento dei problemi. Così qualcuno, stando dalla parte del potere, si è convinto che gli incubi sono necessari quanto i sogni. Necessari al potere perché capaci di trasformare l’identità di una persona in un cumulo di emozioni e di sensazioni, che molto raramente si traducono in pensieri e comprensione dei fatti. Nessuna fatica quindi. E niente di più produttivo in un sistema come il nostro che mira ad essere dominato dal consenso. O almeno dalla dissuasione.
Nomadi di senso. In cammino
Invece è bellissimo guardarsi in volto al mattino e riconoscersi senza dover indossare delle maschere per sembrare adeguati a ciò che altri si aspettano da noi. Ma forse è necessario cambiare per sperimentare questo. Occorrono nuove strategie dello stare insieme e aiutarsi reciprocamente nell’avventura esistenziale. Le parole certo sono poca cosa. Ma anche una parola può essere qualcosa di utile se la si tira fuori dal proprio dolore e dalla voglia che l’uomo viva meglio e sia più uomo, meno ubriaco di illusioni e di inganni, fatti e subiti. È la fragilità, infatti, che, riconosciuta in sé e accettata, genera saggezza. E la saggezza avvicina alla serenità. Il senso di perfezione invece produce soltanto potere.
Certamente cambiare si può. Ma cambiare esige sempre fatica della mente e apertura del cuore: l’unica fatica capace di mantenere aperto l’orizzonte del possibile che è anche orizzonte del futuro.
Luciagnese Cedrone
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