È possibile oggi uscire dalla frammentazione dell’individualismo e tornare a guardare il prossimo come qualcuno a cui dare, prima di pretendere? La strada sembra essere l’uso fedele della ‘parola’ nella verità della propria vita.
Tra diversità e divisione
Comunicare è parola che inquieta e mette letteralmente in crisi, perché riguarda la comunità e l’essere in comunione, così insostituibili per la felicità dell’uomo. Troppe volte lasciamo che la nostra ‘comunicazione’ sia formale, vuota, debole, priva di un autentico coinvolgimento. Si parla per parlare, si gira attorno alle cose che stanno a cuore e si svicola… più o meno condizionati da preoccupazioni di opportunità. Così si evita di lasciarsi inquietare, ma si finisce poi per non comunicare.
“…È tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, Signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?” (Pirandello). Eppure la sfida più urgente della nostra civiltà – ce lo ricordava spesso il card. Martini – è imparare a comunicare e a convivere con i ‘diversi’: gli ‘altri’ della propria famiglia e della comunità di cui si fa parte e anche le persone che si incrociano per caso per strada o delle quali si conosce solo l’esistenza. La vera appartenenza di tutti infatti è al mondo globale e se si è pensanti l’incontro vero diventa possibile con tutti. Imparare a comunicare è la via necessaria per non imbarbarire nella chiusura e nella paura.
Quei diritti che restano negati
In un mondo globalizzato in cui le persone si muovono e si mischiano, l’incontro e il confronto diventano un’esigenza e una sfida che non possiamo più eludere… Circa un miliardo di esseri umani – un settimo della popolazione globale! – sperimenta oggi la sorte migratoria. Certo, fin dalla preistoria, i gruppi umani hanno abbandonato ambienti inospitali per cercarne di più propizi. Ma oggi l’emigrazione – con il continuo calvario di rifugiati e profughi che l’accompagna – è una galassia in agitazione. Dai due deserti affacciati sul ‘mare di mezzo’ arrivano urla disperate. Eppure nessuno sembra ascoltarle. I cristiani il più delle volte sanno dire solo: “poverini”. Trafficanti di uomini del ventunesimo secolo, più spietati dei negrieri del 1700, continuano ad agire più o meno indisturbati e a provocare la morte di migliaia di persone nel Mediterraneo. La dignità umana non è evidentemente compresa nel prezzo. L’allarme mediatico – che pure accompagna i nuovi sbarchi e le tragedie – finisce ogni volta con l’essere eco solo di se stesso, a cui subentra, indifferente e beffardo, il silenzio. Eppure ricordarsi dei dimenticati è mettersi accanto a Dio che non dimentica nessuno (Vladimir Ghika).
Intanto la mobilità cambia la vita, le relazioni, l’amministrazione… Ci chiediamo: sapranno i Paesi europei rispondere finalmente alla necessità di un maggior presidio umanitario nel Mediterraneo? Vorranno, insieme, impegnarsi a varare nuove misure normative affinché chi riesce a sbarcare non sia più costretto a vivere nell’illegalità? E noi, che non abbiamo direttamente in mano il potere, rimarremo solo a guardare, accettando supinamente tutto come se davvero non ci fosse niente da fare? Continueremo a vivere su due binari: quello ideale e quello reale?
In realtà ogni incontro, persino un semplice contatto, quando è vissuto da persona autentica, attenta agli altri, dimentica di sé e capace quasi di fiutare le situazioni difficili, può riempirsi di gusto e di ricchezza interiore. E lascia un segno nell’altro e nella storia.
Rendersi familiari gli uni agli altri
“Il nostro futuro – ha scritto mons. Cesare Nosiglia nella sua coraggiosa lettera pastorale dedicata ai Rom e ai Sinti – è vivere insieme, come una grande famiglia”. In una famiglia si vive insieme, eppure nessuno è uguale ad un altro. Questo è il sogno di Dio. Di quel Dio che ascolta il grido del povero e che in Gesù ci ha mostrato il volto, le mani e il cuore di una persona umana aperta a tutti sempre e comunque; quel Dio che, a chi vuole seguirlo, ha comandato di amare anche i nemici e le persone che ci hanno fatto del male. Il cristianesimo ama le differenze e il cristiano non è e non può essere un uomo comodo, né per se stesso né per gli altri.
La consegna
È quella di rendersi reciprocamente familiari perché non siamo stranieri ma concittadini e familiari di Dio (Ef 2,20). Non si tratta di inventare gesti eccezionali; piuttosto di superare la tentazione dell’autosufficienza, evidente in ogni vita comunitaria e spirituale vuota e ripetitiva, giocata prevalentemente in gesti esteriori. Imparare a vivere insieme richiede di coltivare la propria capacità di accoglienza nella vita quotidiana fino a creare rapporti in cui ciascuno ha qualcosa da ricevere e qualcosa da dare; fino a riconoscersi come diversi per guardarsi negli occhi e comunicare davvero. “Addomesticarsi”, insomma, reciprocamente e progressivamente, senza voler imporre a qualcuno quello che pensiamo sia buono per noi. Ma per riuscirvi è necessario incontrarsi nella verità e non in superficie.
La più grande impresa umana
L’esperienza dice che un confronto vero può verificarsi solo se ciascuno accetta di guardare le proprie fratture e lacerazioni. Nel quotidiano però è più facile scegliere di… non andare a fondo. Questo perché anche il dialogo interiore non è sempre facile. La diversità altrui istintivamente non ci piace dato che in qualche modo minaccia tutto quello che siamo riusciti a comprendere e a fare fino a quel momento.
Se la divergenza di opinioni può creare certamente una spaccatura nei rapporti umani, quando la si accoglie con disponibilità, dà più forza al pensiero, lo stimola e pone la base per un nuovo percorso. Sottrarsi al confronto invece rende ogni comunità meno… comunità. Chi siamo veramente infatti è in gran parte determinato dal rapporto che siamo disposti a costruire con le idee di chi ci sta vicino; quasi un combattimento quotidiano che sviluppa la personale capacità di pensare e di incontrare l’altro. Ma qualche volta, nonostante l’apertura sincera per un dialogo autentico, ci si ritrova respinti. Anche questo, però, insieme a tutte le difficoltà per una comunicazione degna di questo nome, può essere un bene e una benedizione perché obbliga ad andare ancora di più al cuore della comunicazione senza orpelli inutili.
Certo non è sufficiente la buona volontà per incontrare l’altro. Ci vuole anche umiltà. Quella umiltà che è capace di piegare in sé ogni pretesa di avere il metro di valutazione del mistero della vita. E la certezza di valere davanti al volto di Dio: il più potente antidoto contro il veleno della sfiducia. E poi… tempo! Ci vuole il tempo della vita!!!
Luciagnese Cedrone
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