Consacrati non perfetti ma felici

Posted by usmionline
feb 09 2015

Appello alla solidarietà creativa

Intervista a Fratel MichaelDavide Semeraro[1]

Da un piccolo villaggio in montagna, dove sono convenuti successivamente e senza progetti precisi tre monaci, per vivere semplicemente nel silenzio e nella comunione, parte come
creativita-500x314un appello, paradossalmente – ma positivamente – rivoluzionario: “Consacrati di tutto il mondo, unitevi”. Sono le ultime parole di un libro pubblicato da EDB con il titolo “Non perfetti ma felici”, frutto della riflessiva esperienza di Fratel MichaelDavide Semeraro. L’abbiamo intervistato nel contesto della piccola Koinonia della Visitation a Rhèmes-Notre-Dame in Valle d’Aosta, dove vive da alcuni anni.

Iniziamo dal titolo… così chiaro e tuttavia non immediato. Una provocazione o uno stimolo?

Direi uno stimolo che vuole essere una pro-vocazione che non ha nulla a che vedere con un atteggiamento né ipercritico né tanto meno ingenuo. Ritengo, anche alla luce del magistero di papa Francesco, che la sfida per la vita consacrata non è quella di una perfezione, più immaginata che incarnata, ma la testimonianza di una felicità possibile nel paradosso della vita concreta e nei limiti di ogni umana avventura.

L’ultima parola, invece, ancora più pro-vocatoria, invita i religiosi di tutto il mondo a “unirsi”. Questo ci porta a una seconda domanda: perché questo libro? E quindi per chi?

Questo libro nasce dal lavoro fatto con alcune religiose che mi hanno invitato a riflettere per loro e con loro sulle sfide della vita consacrata nella realtà del nostro tempo. Non nasce quindi a tavolino, ma in un dialogo franco e fraterno in cui più che “insegnare” o dare soluzioni, ho cercato di condividere e di stimolare ad una serena e creativa re-immaginazione della vita consacrata. È un libro che si rivolge prima di tutto ai consacrati, in una sorta di dialogo che è significato anche dalla scelta – come autore – di usare il “noi” solidale. Ma può aiutare anche chi volesse capire un po’ di più la vita consacrata sia come vescovi e presbiteri, sia come laici.

L’appello, quindi, viene non tanto da Lei, quanto dai religiosi incontrati, che aspirano a un cambiamento. Quale potrebbe essere il cuore, il perno di questa re-immaginazione della vita consacrata?

Dire che il perno è accettare la sfida di andare oltre l’idea più tradizionale di “riforma” per aprirsi a un lavoro che indico come “riformattazione”. Concretamente, significa non pensare che il meglio della vita consacrata sia nel passato alle cui forme bisognerebbe tornare. Il meglio sta nel presente accolto che apre nuove strade per il futuro, per evitare quella che, con linguaggio mediatico, possiamo definire il rischio della “rottamazione” della vita consacrata.

Tra le pagine più concrete di questo percorso emerge un’intuizione sorprendente: quella del “minimo comune denominatore”. Non potrebbe essere un terreno scivoloso per quell’individualismo che oggi dilaga già troppo in molte comunità religiose?

Il rischio c’è, ed è forte! Nello stesso tempo ritengo che lo sforzo di arginare le spinte individualistiche, con un ispessimento delle strutture comunitarie, rischia di non portare molto lontano. In realtà, la svolta o mutazione antropologica vissuta anche dai religiosi – e non solo i più giovani – esige un rispetto di diverse velocità e intensità all’interno di una vita condivisa, ma che non può essere “intruppata”. La via per evitare l’individualismo, più o meno strisciante, è la formazione delle persone come realtà individuate e aperte alla comunione fino alla disponibilità a sacrificare il proprio egoismo per fare spazio all’altro. Un lavoro che può essere fatto in modo autentico e duraturo solo a partire dalla vita interiore di ciascuno fratello o sorella.

Due parole sulle condizioni ottimali, se esistono, per un sano sviluppo di questo stile di vita consacrata: si può immaginare una dimensione ideale di comunità? Quali condizioni, di numero o altre, favoriscono questa comunione?

Non esiste una “dimensione ideale” di comunità. Personalmente ho vissuto in monasteri di taglia media (una decina di persone) come pure in un monastero dove eravamo più di cento monaci e, ora, vivo in una realtà “minima” in cui siamo tre fratelli. Dal punto di vista del numero ognuna di queste possibilità ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Ciò che fa la differenza penso sia la coscienza che ogni comunità – nella sua propria realtà in quanto a numero, età… – deve fare i conti con una prova di autenticità che è quella del cammino possibile per ogni fratello e sorella di essere fino in fondo se stesso, senza ripiegarsi su se stesso. La comunità è un luogo di “lotta spirituale” contro l’egoismo e non contro la pienezza di vita delle persone, né, tantomeno, che ne mortifichi la felicità e la speranza.

E al livello di discernimento nell’accogliere nuovi membri?

Nel discernimento per l’accoglienza di candidati alla vita consacrata penso che le realtà in gioco siano tante e possano anche cambiare in relazione al tipo particolare di vita consacrata. In ogni modo, mi sembra, come ho ricordato nel libro facendo riferimento all’icona della samaritana, che uno degli elementi fondamentali sia discernere quanto il candidato sia disposto ad attraversare fino a dichiarare il <vero> di sé. È ciò che i santi padri indicano sotto la figura dell’apertura del cuore. Questo, senza dimenticare che un giovane potrà osare il <vero> di sé a condizione che senta attorno a sé, e soprattutto da parte dei formatori, una <cura del vero>, anche a costo di non avere candidati e quindi di non avere più futuro… su questa terra.

Parlando di discernimento vocazionale, viene in mente in  particolare la questione, molto illuminante, del cosiddetto “clericalismo femminile”…

Non vorrei essere frainteso e, soprattutto, non vorrei mancare di rispetto verso le donne consacrate che, spesso, devono portare il peso di una condizione non parificata all’interno della Chiesa. In ogni modo mi sembra che per alcune donne la vita consacrata rappresenta il “ripiego” – bruttissima parola, ma efficace – per il fatto di non poter accedere al ministero ordinato. Questo, talora, può creare delle “compensazioni” pastorali che possono, in alcuni casi, andare a detrimento della centralità – nella vita consacrata – della donazione gratuita e senza ritorni e della centralità della testimonianza di vita comune più che di prestazioni individuali e troppo visibili. Ecco allora che può nascere nelle donne consacrate un atteggiamento clericale di supponenza e di magisterialità esagerata. Vale anche per i consacrati naturalmente e soprattutto per quanti accedono all’ordinazione. Per questi ultimi la scelta di vita consacrata dovrebbe rimanere primaria sul ministero. È chiaro che l’obbligo del celibato per i presbiteri diocesani, a volte non rende ben chiara per degli uomini la ragione per cui scelgono la vita consacrata e non semplicemente quella presbiterale. Paradossalmente spesso sono proprio i presbiteri secolari a vivere le conseguenze più penose del celibato in termini di solitudine e di insicurezza affettiva e protettiva. Nel libro ho insistito sul fatto che la castità non è solo rinuncia alla sessualità, ma anche – forse prima di tutto – al matrimonio come struttura di rassicurazione e di protezione. Onestamente bisogna dire che talora proprio la vita religiosa rappresenta il “matrimonio” più sicuro e duraturo.

A questo punto vengono in mente alcuni binomi che spesso, nella prolifera letteratura sulla vita consacrata, portano a un vicolo cieco: felicità-autorealizzazione versus donazione-abnegazione, bellezza versus sobrietà che spesso diventa estetismo versus sciatteria, o ancora apertura versus preservazione della specificità dei consacrati… Il titolo del suo libro “Non perfetti, ma felici” evoca un’uscita liberante da questa rete di considerazioni. Una maglia in più o un ritorno alle prime maglie del tessuto monastico?

Come diceva Thomas Merton, ogni monaco – come ogni uomo e donna – abita la complessità e l’ambiguità. Il <ritorno alle prime maglie del tessuto monastico> è sicuramente liberante, nel senso di uscita rasserenante da un’immagine troppo netta di cosa sia l’essere degli uomini e delle donne consacrati. Nelle Vite e Detti dei padri del deserto si trova veramente di tutto! Nel mio libro parlo di necessaria <de-monasticizzazione> della vita consacrata e metto in guardia – prima di tutto me stesso – dal rischio di una ingenua <mondanizzazione>. Si tratta di uscire dal vicolo cieco degli estremismi ideali e pratici, per costruire – personalmente e insieme – nuove armoniche che creino armonie reali che per essere tali vanno continuamente ricalibrate. La vita consacrata – come ogni vita – è più un’arte che una professione ben definita e ripetitiva. Per tornare alla grande tradizione, si potrebbe dire che è meno chimica e più alchimia, meno morale e più mistica, meno progetto e più obbedienza generosa alla vita… alla Vita.

Arriviamo così alla questione dei voti, che vengono trattati non tanto separatamente, ma inclusivamente, come tre gradi di una stessa tonalità: quella di un “vuoto fecondo”.  Nel suo libro ha inserito alcuni “bemolle” ad ognuno dei tre voti, ovvie alterazioni che però invece di essere riduttive vogliono rilanciare il modo di consacrarsi molto oltre la radicalità evangelica… Per esempio, appunto, l’obbedienza.

Una rilettura dei voti è più che necessaria e la chiave offerta da Elena Lasida, citata ampiamente nel libro, mi sembra più che interessante. Si tratta di ripensare ai voti quale espressione del nostro modo di consacrare la vita a Dio come uomini e donne incardinati nel nostro tempo e sereni nella nostra struttura antropologica. Certo, l’obbedienza è uno dei dinamismi della vita consacrata che, pur rimanendo assolutamente fondamentale e fondante, deve sempre più essere espressione di una conquistata libertà da se stessi. Solo questa libertà, intima e profonda, può fare dell’obbedienza un valore desiderabile e non semplicemente un prezzo da pagare col rischio di creare surrogati di libertà indegni di uomini e donne all’altezza della loro dignità creaturale e battesimale.

A proposito di struttura antropologica, in “Non perfetti ma felici”, il tema dell’omosessualità viene appena accennato, anche perché la forte e suggestiva immagine dell’eunuco per il Regno che avvolge tutta la riflessione sulla castità ne propone un approccio diverso, meno psicologizzante. Si apre una pista?

Da parte mia, spero una pista di riflessione su questo campo. Non possiamo più nasconderci dietro la foglia di fico del non-detto. Questo metodo raramente crea le condizioni di un processo di crescita e di autenticità a partire, e non nonostante, la propria realtà emotiva che comporta la capacità di assumere la propria dinamica sessuale. L’omosessualità è una realtà ampiamente presente nella vita consacrata e non solo come problema, talora invece come opportunità e risorsa. Secondo la feconda analisi di C. G. Jung, l’omosessualità, in questo caso al maschile, mostra la sua carica di eccezione all’ordinario sviluppo della personalità negli artisti, nei quali <è contraddistinta dall’identità con l’anima>[2]. Lo stesso psicanalista svizzero annota: <uno sviluppo del gusto e del senso estetico al quale un certo elemento femminino non nuoce; delle virtù pedagogiche rese perfette dalla capacità femminile d’immedesimazione; un senso della storia conservatore nel senso migliore del termine, in quanto ha il culto dei valori del passato; un senso dell’amicizia che trae tra le anime maschili legami di sorprendente tenerezza e trae l’amicizia fra i sessi dal limbo dell’impossibilità; una pienezza di sentimento religioso che traduce in realtà l’ecclesia spiritualis; una ricettività spirituale, infine, che rende l’uomo sensibile alla Rivelazione>[3]. Vi e poi un elemento profetico. Una seria riflessione e una intelligenza coraggiosa dell’omosessualità vissuta – più o meno serenamente e più meno accettabilmente – da consacrati e consacrate potrebbe far avanzare la riflessione della Chiesa e le scelte pastorali. Non si può certo continuare a giocare sul registro della tolleranza compassionevole e al contempo disapprovante di stampo chiaramente clericale e, troppo spesso, ipocrita.

Per ciò che riguarda la povertà, è forse, dei tre voti, quello trattato come “tonica”, cioè il grado che sostiene tutta la tonalità, un appoggio che permette le variazioni. Si può parlare di elasticità o piuttosto di fedeltà amante?

Personalmente preferirei parlare di povertà kasher! Normalmente traduciamo questo termine, fondamentale nella tradizione ebraica, con “puro”. Sarebbe invece da tradurre con “adeguato”. La povertà professata come voto, ossia come orizzonte interpretativo del proprio “uso” di tutto ciò che ci serve per vivere, significa lanciarsi – ogni giorno come persone e come comunità – in una ricerca di equilibrio tra ciò di cui sentiamo il bisogno e ciò di cui abbiamo realmente bisogno. Da questo punto di vista la povertà non è rinuncia fine a se stessa, ma fatica di adeguamento continuo tra bisogni e desiderio, tra desiderato-desiderabile e possibile, tra ciò che posso prendere per me e ciò che devo non solo condividere, ma talora lasciare ad altri. Tutto ciò può certo essere catalogato come <fedeltà amante>!

Uno sguardo ora sulla realtà presente delle comunità religiose, tra l’altro da Lei spesso visitate, in occasione di ritiri o predicazioni. Quali sono secondo Lei i virus che minano da dentro le comunità religiose, e le maschere che ne nascondono le ferite?

Quanto ai virus, penso che quello più grave sia l’ipocrisia che è l’unico vero male contro cui si è scagliato il Signore Gesù la cui compassione è stata capace di accogliere tutte le malattie fisiche, psichiche e morali. L’ipocrisia rimanda come parola alla maschera usata durante le rappresentazioni del teatro greco un po’ per amplificare la voce, un po’ per caratterizzare i personaggi. Nessuno può andare in giro senza indossare una maschera che in latino si chiama, appunto, persona. Tutti abbiamo bisogno di giocare ad un personaggio: ne abbiamo bisogno noi, ne hanno bisogno gli altri. L’importante è non crederci troppo tanto ad identificarvisi. È necessario ripartire continuamente dal <vero> che condiviso anche solo con una persona al mondo, ci permette e ci obbliga ad essere umani con noi stessi e con gli altri. Se ciò non avviene ecco che cadiamo in un meccanismo implacabile di una sofferenza che crea violenza la quale crea ancora sofferenza che non può che creare violenza… all’infinito. La maschera dell’irreprensibilità rischia di farci perdere l’appuntamento con la grazia e con l’amore.

E in positivo, pensando agli alberi di cui non si parla ma che stanno portando silenziosamente frutti buoni nel mondo, quali sono i semi che promettono nuovi frutti e il concime da spalmare con coraggio sui campi della vita consacrata?

Tutto ciò è conosciuto nella sua pienezza solo dal Padre che è nei cieli e che vede <nel segreto>. La cosa che mi commuove, incontrando consacrati e consacrate, è il desiderio che c’è in tutti e tutte di dare la propria vita. Talora questo desiderio di darsi e di fare ciò che è giusto e richiesto – nella logica del cammello di cui parla Nietzsche – rischia di non armonizzarsi con la capacità di assumere se stessi con semplicità e umiltà. Il concime che fa sperare nuove messi è proprio ogni passo – sempre faticoso – di consacrati e consacrate che amano chiamare le cose con il loro nome e non hanno paura di condividere la fatica e la fragilità. Laddove si spalma – come dice lei – questo concime, la cui puzza certo non fa piacere, si preparano nuovi raccolti. In un suo sermone Taulero parla appunto dello sterco del cavallo che è una benedizione per il campo al fine di accogliere il seme.

Per concludere, una domanda sulle prospettive: quel rinnovamento, che Lei preferisce chiamare “riformattazione”, lo vede possibile per le realtà esistenti o come nuovo programma da realizzare ex novo ?

Per ritornare all’abbecedario della filosofia antica: <Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma>. Per lasciarci ispirare dalla Tradizione, così come già fece Giovanni Paolo II nella Vita Consecrata, il parametro è quello della Trasfigurazione. Ma quando parliamo di trasfigurazione spesso rischiamo di dimenticare la fase necessaria della s-figurazione. Pur non essendo molto a mio agio nell’informatica, mi sembra che il parametro della riformattazione sia capace di dire come la sfida è di cercare un nuovo equilibrio tra la macchina della vita consacrata – intesa come fosse un computer – e tutto quello che possiamo fare con essa a partire dai programmi che possiamo installare. Penso che il “novum” non sia da sperare né semplicemente da programmi sempre più sofisticati, né da computers sempre più potenti, ma dalla miscela alchemica di tutti gli elementi in gioco. Questo esige di mettere in conto qualche svista e persino qualche errore, ma l’importante è obbedire al primo comandamento che troviamo nelle Scritture e fonda tutti gli altri: <siate fecondi>. La cosa importante è crescere, è camminare. Essere perfetti, talora corrisponde ad un atteggiamento statuario, essere felici non è altro che essere in cammino… insieme. Sarebbe molto bello se la nostra vita consacrata, invece di essere un museo, diventasse sempre di più un laboratorio, certo meno ammirabile, ma forse più testimoniale e interessante da visitare non soltanto per ciò che ricorda, ma per ciò che promette… e permette.

G.R.



[1] Fratel MichaelDavide è monaco della Koinonia de la Visitation a Rhêmes Notre-Dame in Valle d’Aosta (www.lavisitation.it). Il suo pensiero nel suo libro: Non perfetti, ma felici

Per una profezia sostenibile della vita consacrata. Prefazione di Felice Scalia. Ed. EDB

[2] C. G. JUNG, Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, Boringhieri, Torino 1982, p. 594.

[3] Ibidem, p. 596.

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