Siamo chiamate a integrarci armonicamente nella vita della gente per il bene di tutti
La fraternità tra gli uomini – come ogni fraternità – discende da una comune paternità. Non si scelgono i fratelli: si trovano. Dio è padre di tutti: ogni uomo è perciò mio fratello, ogni donna è mia sorella. Questo implica che nella società – e a fortiori nella vita consacrata – ciò che deve cambiare sono le relazioni per arrivare al cuore della famiglia umana. Non ci sono padroni e schiavi nella società, non ci sono cittadini e stranieri, maggiori e minori. Tutti siamo fratelli.
Desidero partire da lontano, dal libro del Genesi: “Caino, dov’è tuo fratello Abele?” (Gen 4,9). E dal Deuteronomio: “Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama i forestieri e gli dà pace e vestito: amate dunque il forestiero” (Deut 10,17-19).
Anche per noi consacrate, c’è sempre da imparare in proposito, e dopo aver imparato c’è da mettere in pratica, soprattutto oggi, nella nostra società sempre più multiculturale e multirazziale, in cui la mobilità umana aumenta ogni giorno. E’ vero infatti che la società globalizzata – e ne facciamo ogni giorno l’esperienza – ci rende ogni giorno più vicini, ma non ci rende automaticamente fratelli e sorelle. E’ vero che la nostra società diventa sempre più multiculturale, ma è con fatica che cammina verso l’interculturalità, cioè verso il riconoscimento e l’accettazione reciproca del genio delle diverse culture.
Il grande Papa Paolo VI, per la giornata della Pace del 1° gennaio 1971 scelse opportunamente come tema il noto richiamo biblico: “Dov’è il tuo fratello?” (Gen 4,9), che venne poi ripreso successivamente in alcune giornate per le migrazioni a livello italiano e mondiale e trova spazio anche nell’Enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI e in tanti interventi di Papa Francesco.
Scrive Papa Francesco nella Evangelii gaudium:
“l poveri e i deboli hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente”. Dobbiamo farci evangelizzare da loro (tutti dal vescovo di Roma fino all’ultimo dei cristiani). La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a riconoscere Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli e comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.
E ancora: “L’altro (il povero, il bisognoso, il bambino che fugge da una situazione di guerra) è terra sacra …”.
Queste parole sono un invito a guardarci attorno per verificare se i fratelli e le sorelle che Dio ci dona (nella nostra comunità, in chiesa, per la strada, nei negozi, all’angolo delle strade, nella nostro servizio quotidiano …), qualunque sia la loro lingua, cultura, etnia e colore della pelle, hanno per noi volto di fratelli; ma sono anche un invito a guardarci dentro, nelle pieghe della coscienza, per verificare se la nostra fraternità ha radici profonde, quelle che si ancorano ai valori fondamentali del Vangelo, e se le nostre comunità credono nella fecondità dell’incontro, soprattutto con chi viene messo ai margini. Sono un invito a riscoprire la forza vitale dei poveri di beni materiali, persone senza lavoro, donne e bambini calpestati nella propria dignità, anziani abbandonai, malati, giovani in ricerca di un senso della vita.
Domandiamoci: dove trovare la forza per questo cammino perché sia sempre in salita? Come renderci capaci di riscoprire un nuovo modo di vivere insieme con persone di diversa cultura, provenienza, religione nel segno della convivialità delle differenze e della solidarietà?E come educarci alle relazioni, vera sfida per vivere in una società, in una Congregazione religiosa sempre più multietnica e multiculturale? Come vivere con semplicità, sapienza, creatività e pace il dono della diversità, della multiculturalità e come farne una ricchezza interculturale in cui sia valorizzato il “genio” delle diverse culture; e come integrarci nella vita della gente, dei nostri fratelli e sorelle?
A me pare che ci sia una strada preferenziale: lasciarci inquietare dalla meditazione di un aggettivo ricorrente nella preghiera che ci ha insegnato Gesù: l’aggettivo “nostro”.
Padre nostro che sei nei cieli…Dacci oggi il nostro pane quotidiano… perdona i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori …
Dire Padre nostro è possedere la certezza di avere un padre, il padre di tutti, e questo ci libera dalla tentazione di escludere alcuni dal nostro amore; dire Padre nostro è scoprirsi figli, e questo ci libera dalla tentazione di rivendicare dei diritti in più rispetto ai nostri fratelli e sorelle; dire Padre nostro è scoprirsi fratelli e sorelle, e questo libera dall’indifferenza e dalla non comprensione dell’altro.
Anche i nostri fratelli e le nostre sorelle immigrati hanno bisogno di sentire che hanno un Padre vicino alla loro vita e che li ama; di sentire il calore degli altri fratelli e sorelle – il nostro calore di sorelle e madri; di scoprirsi figli della Chiesa e del cammino di evangelizzazione che essa ha compiuto e va compiendo con il contributo di tutti
1. Padre “nostro” che sei nei cieli … venga il tuo Regno
Dire “Padre nostro” è avere il coraggio di riaffermare che tutti siamo chiamati da ogni terra, popolo e nazione a vivere nella Casa del Padre per costruire il Regno, che è Regno di verità, di
amore e di pace. Così ci vuole Dio: ingegneri, architetti, artisti di questo Regno.
Il cuore della rivelazione del Regno è che non esiste nulla al di sopra delle persone e alla comunione delle persone: dobbiamo crederlo e fare di questo dono un impegno. Dice S. Agostino: “Dio vuole che il Suo dono diventi tua conquista”.
Di fronte a un’umanità che ha perso la consapevolezza della propria comune origine e il gusto della fraternità, Dio ci chiama ad essere testimoni di un nuovo umanesimo, a fare memoria che ciascuno di noi è unico e irripetibile e che ciascuno – proprio per la sua originalità – è importante per la vita della società e per la sua armonia. Non solo, ma ci ricorda che Egli è Padre, il Padre di tutti. Un “Padre che ama e ha cura”, il “Padre nostro”, di ciascuno e di tutti. Dio è un Padre che ama tutte le sue creature, nate dal suo amore e uscite dalle sue mani; Dio ama ciascuno di noi, e ogni nostro fratello e sorella, in modo particolare, privilegiato, unico e ci insegna ad amarci, a rispettarci, a fidarci uno dell’altro, a sostenerci.
Gli altri, i fratelli e le sorelle con cui veniamo a contatto ogni giorno, ci appartengono e per questa appartenenza noi continuiamo a credere nella fecondità del comandamento di Gesù: “Amatevi come io vi ho amato…”, e a lasciarci trasformare dal suo esempio quando lava i piedi ai discepoli, quando chiama Giuda “amico”, quando piange su Lazzaro morto, quando risuscita il figlio della vedova, quando riscatta l’adultera, quando prega per chi lo uccide… Ed è da questa appartenenza reciproca che nasce l’esigenza e il dovere ìdi capire l’altro nella sua differenza, senza giudicarlo o condannarlo. Ma più ancora di confermarlo nei suoi doni e nella sua differenza.
- 2. Dacci oggi il “nostro” pane quotidiano
Il mio pane è anche dei miei fratelli e delle mie sorelle e il pane dei miei fratelli e delle mie sorelle è anche il mio pane, un pane che alimenta e fa bella la vita. Si chiama condivisione, gratuità, responsabilità, dialogo, capacità di valorizzare le differenze, di essere “custodi” dei fratelli e delle sorelle, di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, di attenzione al bene dell’altro, a tutto il suo bene. E’ pane fresco ogni giorno, che dà la forza per il cammino. Pane fresco ogni giorno: Dio non accumula nei granai, ma distribuisce a dismisura…
L’impasto del pane quotidiano inizia col vestire a festa le cose di tutti i giorni e mettere al bando ogni rivendicazione di superiorità. Non ci sono culture minori o maggiori (non ci sono maggiori e minori in una società multiculturale), come non ci sono minori e maggiori nelle nostre comunità. Ogni cultura ha le sue ricchezze e le sue preziosità e ogni persona è ricca della sua dignità e delle ricchezze della sua cultura. La fraternità vera chiede di instaurare quel clima di minorità francescana per cui, all’occorrenza, ciascuno è disponibile a diventare maestro e allievo, a offrire il proprio pane e a ricevere il pane del fratello o della sorella per condividerlo alla stessa mensa. E ciò è fondamentale perché ognuno di noi è limitato, ogni cultura è relativa e la comunità ha bisogno di tutti e di ciascuno: ciascuno con quello che è e che sa fare.
Nella preghiera del “Padre nostro” diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Con questa domanda ricordiamo e affermiamo il nostro esistere gli uni per gli altri. Affermiamo che viviamo di ospitalità reciproca. Ciò significa che “l’altro mi appartiene; la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza” (Messaggio quaresima 2012).
Hanno scritto acutamente Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola:
«Ciascuna donna e ciascun uomo, nella reciprocità del convivere, apprendono l’umiltà di essere limitati, la necessità di riconoscersi l’uno nell’altro, di stimare ed essere stimati, di essere, alternativamente, ora il pieno ora il vuoto, ora l’attivo ora il passivo, ora il discepolo ora il maestro […]. Sarebbe un danno essere sempre maestri […]. Sarebbe parimenti un danno essere sempre e solo discepoli, se ciò significasse rinunciare a far emergere i tesori nascosti che ciascuno porta in sé…». Maestri e discepoli. Felici di essere ora l’uno ora l’altro.
- 3. Perdona a noi i “nostri debiti” come noi li perdoniamo ai “nostri” debitori…
Di grande importanza, anzi di assoluta necessità, per la pace e l’armonia di una società multiculturale di una Congregazione che vuole allargare la propria tenda sulle frontiere dell’interculturalità, è il pane del perdono offerto e accolto: 70 volte 7. La fratellanza, l’unità, non hanno altra regola. Ce lo ha insegnato Gesù, con la parabola del Figliol prodigo, con lo sguardo rivolto a Pietro dopo il tradimento, con le parole dette al ladrone sulla croce: “Oggi sarai con me in paradiso…..
Riguardo al perdono, non posso non fare memoria del Beato Giovanni Paolo II.
Ci vorrebbe un’enciclopedia per tratteggiare qualche elemento di questo aspetto della sua vita … Il perdono del suo attentatore, il perdono per i mali della Chiesa, fatti alla Chiesa e dalla Chiesa… Chiese perdono per tutte le persecuzioni, per tutti i perseguitati del mondo, chiese perdono agli Ebrei, chiamandoli, i nostri fratelli maggiori, chiese perdono ai Cristiani Ortodossi, agli africani per quando furono ridotti in schiavitù. Chiese perdono per colpe non sue, assumendosi il dolore e le colpe del mondo.
Ovviamente, non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi sulle difficoltà che il perdono comporta., Possiamo sperimentare il dissenso, il conflitto, la distanza, la paura, ma devono essere espressi sempre in forma rispettosa e collaborativa. La difficoltà fa parte della vita. Ciò che va bandito è la distanza, il rifiuto, il giudizio, la pretesa di avere ragione a tutti i costi…
E’ solo facendo l’esperienza del perdono che Dio ci offre gratuitamente che possiamo disarmare il cuore, imparare a perdonare a nostra volta e camminare più speditamente verso l’unità dell’amore, quell’armonia delle culture e delle genti che è “il sogno stupendo” del Padre.
Concludendo. L’incontro con nuove culture e nuovi popoli non può lasciarci immobili nella contemplazione di una storia già compiuta e che si vuole solo diffondere. L’incontro è autentico, invece, se comporta non solo un processo di adattamento alle nuove esigenze esteriori, ma soprattutto una rilettura del carisma e del suo sviluppo. In questo sforzo di inculturazione, non basta mirare a rinnovare i metodi pastorali, né a meglio adattare le strutture dell’istituto, né ad esplorare con maggiore acume i fondamenti biblici e teologici della fede; occorre suscitare un nuovo slancio di santità.[1]
Enrica Rosanna fma
Già Sottosegretario CIVCSVA