Il racconto della lotta di Giacobbe con un personaggio misterioso al fiume Yabbok appartiene a una delle grandi storie familiari contenute nella Genesi. Essa si colloca alla fine del viaggio di ritorno a casa di Giacobbe e segna il cambiamento del patriarca, ma in realtà comincia lontano, al cap. 4 di Genesi, con il racconto di Caino e Abele. Questa narrazione si conclude infatti con l’errare di Caino nel paese di Nod, il paese del vagabondaggio e il suo errare può essere simbolicamente un attraversamento dell’insieme delle storie della Genesi . L’incapacità di vivere la differenza tra fratelli come un’occasione propizia di condivisione, facendo diventare la diversità motivo di rivalità, gelosia, violenza, divisione, continua a manifestarsi dopo Caino nelle vicende dei patriarchi. Per quanto riguarda il ciclo dedicato a Giacobbe, la storia comincia alcuni capitoli prima. In Genesi 25 Isacco prega il Signore per Rebecca sua moglie che, come tutte le madri di Israele, era sterile e «il Signore lo ascoltò e Rebecca concepì due gemelli» (25,21). «Gemelli» dovrebbe alludere a una somiglianza radicale, invece – dice il testo – «i bimbi si urtavano nel suo seno», tanto che Rebecca si domanda se, in queste condizioni, valga la pena essere madre (v. 22). Il Signore risponde con un oracolo: i due bimbi sono due nazioni, due popoli, rivali, ancora prima di nascere. Esaù è il primo ad uscire dal ventre materno, ma il secondo lo stringe al calcagno, perciò si chiamerà «Giacobbe», perché ‘aqab significa appunto «tallone»; la radice verbale vuol dire «essere tortuoso, soppiantare, fare trabocchetti» e il calcagno ha a che fare con l’insidia, l’inganno. È come se si prefigurasse già la sua storia, fatta di imbrogli e furbizie allo scopo di prevalere. Il litigio dei due, nel ventre materno, infatti, non era altro che una lotta fratricida per il potere. La fraternità è sempre fonte di differenziazione. Come Caino ed Abele anche Giacobbe ed Esaù sono diversi: uno è primogenito, l’altro è il secondo e l’ultimo; Esaù ama lo spazio aperto, la caccia; Giacobbe invece preferisce abitare sotto la tenda, facendo il pastore in ambito domestico;il maggiore è preferito dal padre; il minore dalla madre. Una sera che Esaù ritorna nella tenda, affamato e affaticato, Giacobbe non gli offre da mangiare, come si conviene tra fratelli, ma gli tende un’insidia, proponendogli un baratto: la primogenitura per un piatto di verdura rossa. Divorato dalla fame, Esaù accetta il baratto, provando poi a rifarsi contro quella astuzia. Più tardi la tensione diventa maggiore, perché con la complicità della madre, Giacobbe inganna il padre anziano e ormai cieco, facendosi credere Esaù ed estorcendo dal padre la benedizione che assicura fecondità e prosperità. Per sfuggire all’ira di Esaù, Giacobbe deve scappare; giunge a Betel, dove di notte ha una visione e riceve una promessa divina, quindi si rifugia da Labano, fratello di Rebecca, presso Haran, e lì lavora per poter prendere come mogli due figlie di Labano: Lia e Rachele. Giunge infine il momento in cui Dio chiede a Giacobbe di ritornare nella terra di suo padre, dove lo attende il fratello – nemico. Senza incontrare e affrontare Esaù, non potrà esserci per Giacobbe un vero ritorno a casa e un futuro. Giacobbe, sentendo che Esaù gli viene incontro con 400 uomini (32,7), ha paura, è un rischio autentico, perché se il fratello arriva con cattive intenzioni sarà una strage. Affrontare il fratello vorrà dire però e innanzitutto confrontarsi con il proprio passato, con una storia di sotterfugi e di inganni, ammettere la propria violenza di un tempo e la propria vulnerabilità del presente. Così Giacobbe si prepara a incontrare Esaù, ma preparandosi a rivedere il volto del fratello, vede invece il volto di Dio. È descritta una lotta intrecciata a un dialogo e alla fine Giacobbe passa il guado zoppo e il posto cambia nome. Gli elementi che collegano la scena di Giacobbe nella tenda del vecchio Isacco e questa situazione allo Yabbok sono numerosi. La cecità del padre era come una oscurità della quale Giacobbe aveva approfittato con scaltrezza; ora, nell’oscurità, in difesa c’è lui e lui viene assalito. Giacobbe, protetto da Rebecca, aveva lottato con Esaù, prediletto dal padre; adesso Giacobbe si trova solo. Ha mandato avanti tutta la sua famiglia, è rimasto lui da solo, e deve affrontare la sua lotta con le sue forze. Quando il padre Isacco gli aveva chiesto chi era, Giacobbe aveva usato il nome di suo fratello; ora gli viene chiesto il suo nome, lo dice e lo riceve cambiato. Giacobbe in quell’occasione ottenne con frode la benedizione paterna senza fare nulla, adesso con fatica e sforzo riesce ad ottenere la benedizione di questo personaggio misterioso. Alla fine di quel racconto era esplosa l’ira di Esaù che aveva giurato di vendicarsi, ora, quando si fa giorno, Giacobbe è pronto a incontrare il fratello e a riconciliarsi con lui. Questi elementi evidenziano come l’episodio simboleggia il cambiamento profondo del personaggio; è avvenuto qualcosa dentro di lui che segna la sua vita, un cambiamento avvenuto in una lotta corpo a corpo con il mistero. Giacobbe attraversa di notte il confine del fratello, per non farsi vedere: è il momento scelto dai malfattori, in qualche modo Giacobbe confessa la sua colpa. La notte di Giacobbe è la notte della paura e della crisi, ma proprio questa situazione è lo spazio e il tempo del passaggio di Dio nella sua storia. Giacobbe è solo: la terra dove aveva trovato rifugio dall’ira del fratello è lontana; la frontiera del fiume apre il cammino in un territorio nuovo. Il capo fa attraversare la carovana e rimane senza compagni, senza aiuti umani. Giacobbe è solo come accade in ogni momento fondamentale e decisivo della vita di un individuo. Giacobbe dunque rimane solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. In ebraico «uomo» è espresso dal termine ’iš che, usato senza articolo, come in questo caso, ha connotazione indefinita: «qualcuno». Il testo lascia indefinita l’identità dell’altro. Giacobbe non sa chi è e non vede perché è notte. Il testo ebraico lascia entrare nell’esperienza di Giacobbe, che lotta senza riuscire a vedere l’altro, omettendo i soggetti: vv. 25-26 «Giacobbe rimase solo e lottò qualcuno con lui fino al salire dell’aurora e vide che non riusciva a sopraffarlo e colpì l’articolazione del suo femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò nel suo lottare con lui»; solo alla fine si capisce che il colpito è Giacobbe. Al v. 27: «e disse: “lasciami andare perché è sorta l’aurora” e disse “non ti lascerò” e disse». Non si sa chi dice “Lasciami andare”, a rigore di logica dovrebbe essere Giacobbe perché è stato colpito, ma solo al v. 28 si capisce che chi chiede “lasciami andare” è l’altro. Chi legge rimane sconcertato perché è difficile identificare i protagonisti e perché non si capisce che cosa stia succedendo. Giacobbe sembra aver perso perché ha il femore spezzato, ma è l’altro che chiede di andare. Dunque Giacobbe sembra guidare il gioco, ma ciò è contraddetto perché Giacobbe rivela il suo nome, si consegna all’avversario dichiarandosi vinto e accettando di perdere. Al v. 29 Giacobbe cambia il nome, l’altro non rivela il suo nome, non perde svelando la sua identità, e tuttavia benedice Giacobbe secondo quanto Giacobbe ha chiesto, e alla fine Giacobbe esce dalla lotta zoppo. Chi è dunque questo «qualcuno» che lottò con Giacobbe? Occorre soprattutto riconoscere il carattere di mistero di questa figura che il patriarca riconosce come Dio quando scompare. Giacobbe lottò con Dio, perché alla fine il personaggio misterioso benedice. Giacobbe lottò con Dio che in qualche modo sentiva estraneo a sé. Dio è l’Altro nel senso forte, e ciò significa affermare l’indicibilità, l’ineffabilità di Dio, il suo inesprimibile mistero. Scrive Dietrich Bonhoeffer «Noi distruggiamo il mistero, perché abbiamo il presentimento che qui incorreremmo in un limite del nostro essere, perché vogliamo disporre ed essere signori di tutto, e proprio questo non è possibile con il mistero. Il mistero ci crea disagio […] Vivere senza mistero significa non sapere niente del mistero della nostra stessa vita, del mistero dell’uomo, del mistero del mondo, significa rimanere in superficie, significa prendere sul serio il mondo solo per quel tanto che può essere assoggettato al calcolo e sfruttato, non risalire indietro rispetto al mondo del calcolo e dell’utilità. Ma vivere senza mistero significa non vedere assolutamente i fatti decisivi della vita o addirittura negarli. Non vogliamo sapere che le radici dell’albero stanno nell’oscurità della terra e che tutto quanto viene alla luce viene dall’oscurità e dal mistero del grembo materno, che anche tutti i nostri pensieri, tutta la nostra vita spirituale, viene dal mistero di una oscurità nascosta, così come la nostra vita e ogni vita» [Cfr. D. Bonhoeffer, Gli scritti (1928-1944), Brescia 1979, 400-401]. L’autentico incontro non è possibile senza mistero: essere davanti a qualcuno significa anzitutto essere davanti al suo mistero; solo riconoscendo la distanza si può entrare in comunione. «La tentazione dell’uomo è di inglobare l’altro, farlo proprio, misconoscendo che l’altro esiste prima di ogni mia iniziativa e di ogni mio potere. Non si può stabilire nessuna autentica comunione dove sussiste il desiderio di essere irresistibili, dominare, vincere, sottomettere. La comunione autentica presuppone la distanza, il riconoscimento dell’alterità» (Grilli). Giacobbe lottò con se stesso per poter dare spazio a Dio, lottò con il proprio io vecchio, con la propria natura corrotta, con l’attaccamento alla propria vita, ai propri interessi. E allora la lotta di Giacobbe diventa un simbolo della storia di ogni uomo che si incontra con il misetro dell’altro; è un’immagine notturna e acquatica, è profondamente battesimale, è legata alla pasqua, alla morte e alla resurrezione, alla nascita di una novità, è l’immagine del nostro battesimo, di un battesimo continuato, come lotta continua per essere veramente noi stessi, per lasciarci trasformare dalla potenza di Dio, per essere disposti ad accogliere la benedizione (Doglio). È il mistero della relazione con Dio e quindi della relazione con ogni essere umano che è «altro», dove se si vuol vincere bisogna che si perda, se si vuole conoscere, si accetti di non conoscerlo, se si crede di volere conoscere lui, si scopre che si sta conoscendo se stessi, perché lui lo sta rivelando e addirittura cambia il nome, e dando il nome nuovo rivela la vera identità. Anche nel nome di Giacobbe permane questa ambiguità che perdere è vincere e vincere è perdere. Dicendo il suo nome, Giacobbe rivela la sua identità, la sua storia. Ritorna la radice ‘aqab che sintetizza la storia di Giacobbe: una storia di astuzie posta ora davanti a Dio. Giacobbe deve riconoscere come sua questa storia, che non è solo la rincorsa del primo posto, ma la complicità con la madre, l’inganno del padre, la frode cosciente del fratello, le trappole tese a Labano e alle tradizioni che egli incarnava… Giacobbe deve riconoscere tutto questo prima di incontrare il fratello nemico. Deve perdere, finalmente, deve localizzarsi nella sua storia, riconoscerla come propria, senza più astuzie e menzogne. È a questo punto – e solo a questo punto – che la storia viene trasformata, e diventa una storia benedetta. Dio gli cambia il nome, facendolo diventare tutto positivo: Yisra’el: Dio è forte, Dio vince. Vincere vuol dire portare nel nome, vivere nella propria vita, il fatto che Dio vince, testimoniare la vittoria di Dio. Giacobbe può decifrare il volto di Dio e ricevere la benedizione che viene da Dio quando riconosce di non essere più capace di ingannare colui che ha davanti e così la benedizione diventa definitiva. Ed è qui che il Dio “altro” diventa il Dio vicino, il Dio di Israele, il Dio di Giacobbe. Finisce l’epoca delle astuzie, inizia l’epoca di Israele, il popolo che Dio ama. Nella lotta Giacobbe viene colpito letteralmente «nella cavità del muscolo», la zona ampia dei lombi. È difficile sapere di quale parte anatomica si tratti; si può pensare che Giacobbe sia stato colpito nella zona genitale che è quella della massima potenza dell’uomo: diventa padre del popolo attraverso una paternità ferita, un riconoscimento della paternità come dono che si riceve e non come ciò che viene solo dalla potenza dell’uomo. Solo dopo questa lotta corpo a corpo Giacobbe è pronto ad incontrare suo fratello e dall’incontro con Dio in cui Giacobbe esce vinto, cioè benedetto e diventa Israele, nasce la possibilità di riconciliazione con il fratello. Alla fine della lotta Giacobbe zoppica, e zoppicando andrà dal fratello, nella condizione di chi è ferito, debole, incapace di sopraffare l’altro. Il racconto si conclude con l’assegnazione di un nome (un cambio) al luogo della lotta: quel luogo si chiama Penuel, che significa: «Volto di Dio». Giacobbe ha visto il volto di Dio, chiamerà quel luogo così e in questo modo diventa capace di riconoscere il volto del fratello. Emmanuel Lévinas cercando di definire il Volto afferma: «Il volto non è l’accostamento di un naso, di una fronte, di occhi, eccetera; è tutto questo, certo, ma prende il significato di un volto mediante la dimensione nuova che si apre nella percezione di un essere. Attraverso il volto, l’essere non è solamente rinchiuso nella sua forma e a portata di mano: è aperto, si installa in profondità e, in questa apertura, si presenta in qualche modo personalmente. Il volto è un modo irriducibile secondo cui l’essere può presentarsi nella sua identità» (Difficile liberté, Paris 1963,20; citato da Chenu, Tracce del volto, p. 17), per cui «la vera unione, o il vero insieme, non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia», sia perché l’uomo è destinato a trovare il senso della “sua” vita solo “di fronte” all’altro, sia perché l’altro, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che non si può né catturare, né uccidere. La visione del volto di Esaù spezza la padronanza che Giacobbe ha esercitato finora e lo richiama alla responsabilità, al comportamento etico, al decentramento. Il volto è in definitiva l’esperienza dell’altro, l’incontro dell’estraneità di fronte a me e al di sopra di me (Chenu, 18) «Così si realizza la “comunione dei Volti”, in cui ciascuno scopre la propria profonda vulnerabilità e si affida. Nella “comunione dei Volti” la parola non insiste, non vuole essere irresistibile ad ogni costo per conquistare e vincere. Nella “comunione dei Volti” è superata anche la paura che porta l’uomo a nascondersi. Nella “comunione dei Volti” si esprime l’agape, che non è mossa dal desiderio di possedere, ma di appartenere, e di assumere l’altro nella sua libertà e nel suo peccato, a dirgli: “mi importa di te”» (Grilli). E così Giacobbe ed Esaù si riconciliano. L’iniziativa di accoglienza è di Esaù e si manifesta con gli stessi gesti che Gesù riprenderà raccontando la parabola del padre misericordioso: Esaù abbraccia Giacobbe e tutti e due piansero e in questo pianto sta la riconciliazione. È finita l’epoca dell’odio e degli imbrogli, in questo pianto, abbracciati, i due si riconoscono fratelli, sono maturati, hanno superato tante difficoltà, hanno lottato entrambi. Nei vv. 8-10 si usa un linguaggio religioso: «trovare grazie, venire alla presenza, essere gradito», sono espressioni che si adoperano rivolgendosi a Dio, e difatti espressamente il narratore mette in bocca a Giacobbe queste parole: «io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio». In ebraico la parola presenza è molto semplice, è la parola «faccia». Giacobbe nella notte ha visto il volto di Dio e adesso vede il volto del fratello come se fosse il volto di Dio. Giacobbe riesce a vedere sul volto del fratello il volto di Dio, sa andare oltre.
Sr Grazia Pepola, osc