Costruire la fraternità: la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli – Gen 37

Posted by usmionline
apr 29 2011

Introduzione[1]

Il libro della Genesi è compreso tra due storie che hanno come protagonisti dei fratelli, Caino e Abele al cap. 4, Giuseppe e i suoi fratelli nei cap. 37–50: entrambe le coppie rappresentano la famiglia umana e la difficile via della relazione fraterna. All’interno, le storie narrate sviluppano il tema delle molteplici relazioni umane, ma la fraternità mantiene un ruolo primario. Il narratore non idealizza questo legame, al contrario racconta storie in cui la fraternità, sebbene rimandi, innanzitutto, all’esperienza familiare della consanguineità, quindi alla fondamentale consapevolezza di una coappartenenza, e perciò possa generare una solidarietà e una condivisione molto forti, in realtà è lo spazio di tensioni, conflitti, gelosie, e odi a volte feroci e tenaci. D’altronde. porre all’origine «il fratricidio, l’assassinio di Abele – scrive P. Ricoeur – fa della fratellanza stessa un progetto etico e non un semplice dato della natura».

La fraternità, infatti, costituisce una relazione imposta, non scelta, che dipende dal fatto di avere gli stessi genitori. L’essere fratelli non dipende da una scelta, ma da una accoglienza. Se fra amici ci si può scegliere, tra fratelli ci si deve accogliere e o ci si accetta o ci si rifiuta. Nella fraternità il fondamento non è l’elezione, ma l’accoglienza. Questo elemento si può ulteriormente approfondire con un’altra osservazione. Perché ci sia fraternità devo riconoscere l’altro come fratello. Si tratta appunto di un ri-conoscimento. Non sono io a creare o a predeterminare le condizioni della fraternità, le posso solo accogliere e riconoscere.

Ora, l’accoglienza del fratello passa sempre attraverso il riconoscimento della sua diversità ed è proprio questo l’aspetto problematico. La diversità è iscritta nel progetto originario di Dio, ma la diversità è percepita dall’essere umano sempre in termini di una prova.  Proprio la diversità perciò è il luogo maggiormente esposto all’esplodere del conflitto, o della difficoltà, mentre la parità, la comunione, l’accordo, la condivisione appaiono sempre molto fragili, facilmente contestati e continuamente esposti alla smentita.

La fraternità, perciò, è un luogo di relazioni faticose, perché è l’ambito in cui si manifestano alterità e differenze e i rapporti appaiono sempre esposti alla dinamica della gelosia, dell’invidia, della predilezione e della paura.

La storia di Giuseppe è la storia di una famiglia lacerata dall’invidia e dall’odio, tragicamente divisa, che attraversa dure prove e tribolazioni per raggiungere una inaspettata e immeritata riconciliazione.

 

La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli

Noi conosciamo questo lungo racconto con il titolo di «la storia di Giuseppe», in realtà è, più propriamente, la storia della famiglia di Giacobbe. Di solito si fa di Giuseppe il protagonista della vicenda, e senz’altro questa figura è centrale e determinante in ordine alla trama e allo sviluppa della storia, tuttavia, per il tema che affrontiamo, quella della fraternità, occorre valorizzare la presenza di tutti i personaggi coinvolti. Giuseppe non è il fratello innocente, gli altri figli di Giacobbe non sono i cattivi, Giacobbe non è privo di responsabilità rispetto a quanto avviene nella sua casa. Di una fraternità che si rompe o fallisce, che incontra lacerazioni e persino violenze, la storia di Gen 37-50 dice che tutti sono responsabili, sia della rottura, sia della possibile ricostruzione e che la fraternità implica strettamente anche la relazione di paternità-figliolanza.

La fraternità non si costruisce perciò solamente su un piano orizzontale di rapporti, né bastano solamente la simpatia o l’affinità a costruirla, poiché è imprescindibile anche una linea verticale, il riconoscimento di un padre comune e il riconoscimento da parte del padre della diversità e della libertà dei figli.

I primi versetti del cap. 37 si dilungano a presentare la situazione della famiglia di Giacobbe, quando ormai sono nati tutti e dodici i figli del patriarca e Rachele è morta dando alla luce Beniamino. Il narratore ci presenta una famiglia divisa al suo interno in blocchi contrapposti: Giuseppe, il padre, gli altri figli, con alleanze che ulteriormente acuiscono la divisione: Giuseppe e il padre da una parte, il resto dei fratelli da un’altra.

Le prime informazioni riguardano Giuseppe, che sta con i figli delle schiave, come dice il suo nome è «aggiunto» a loro, ma non pare integrato nel gruppo; a ciò contribuisce il fatto che egli riferisca al padre i pettegolezzi che riguardano i suoi fratelli. Forse Giuseppe non si sente accolto, forse è immaturo, forse è un ragazzo viziato, in ogni caso usa la preferenza che il padre gli dimostra non per favorire i suoi fratelli, ma per gettare sospetti e discredito nei loro confronti. D’altro canto la preferenza del padre nei suoi riguardi è spiccata e visibilizzata nel dono della tunica. In un contesto così la reazione di fratelli non stupisce: lo odiavano e, dice il testo letteralmente, «non potevano parlarlo in pace», nel senso di parlargli e nel senso di parlare di lui. Se si fa attenzione non è chiaro chi sia il destinatario di questo sentimento e di tale atteggiamento, se Giuseppe o Giacobbe; probabilmente il narratore lascia aperte entrambe le possibilità.

I tratti essenziali e tuttavia estremamente espressivi di questa descrizione mettono in evidenza le ragioni delle tensioni familiari, delle cause e dei sintomi. All’origine pare che ci sia la preferenza che Giacobbe ha per Giuseppe, un amore che separa Giuseppe dagli altri figli invece di unirli. Di questa separazione e della difficile convivenza diventa spia l’uso della parola che si modula nella forma della mormorazione e del pettegolezzo, che come tale non è mai benevolo, e di una incapacità a parlare pacificamente, in pace e di pace. Se l’essenza del linguaggio è relazione, incontro, in cui si riceve donando, se la parola introduce a una reciprocità e postula un riconoscimento, il narratore mette qui in evidenza che non basta scambiare una parola per costruire un autentico legame di fraternità, la fraternità esiste nell’orizzonte di una parola scambiata e condivisa solo quando chiamo l’altro fratello, solo quando lo riconosco fratello.

Questo non avviene nella famiglia di Giacobbe. Nel corso del capitolo si farà riferimento ad altre parole, Am non c’è alcun autentico dialogo tra i personaggi, nessuna relazione che crei comunione; le uniche parole che circolano dall’inizio alla fine sono parole di calunnia (v. 2), non di pace (v. 4), suscitano odio (vv. 5.8.11) e rimprovero (v. 10), macchinano la morte (v. 19), sono interessate (vv. 21. 26-27), sono menzognere (v. 32) e ipocrite (v. 33).

Ora, nella crisi che si profila all’orizzonte, tutti hanno responsabilità e tutti hanno attenuanti: Giacobbe è vedovo di Rachele, la moglie intensamente amata e la madre di Giuseppe; i fratelli soffrono della predilezione, sentendo di essere destinatari di un sentimento meno esclusivo o meno forte; Giuseppe è in una situazione difficile di non accoglienza e gelosia da cui cerca di uscire legandosi al padre. Si potrebbe dire che tutti i personaggi reagiscono alla situazione che vivono  coltivando ciascuno il proprio interesse senza provare a guardare la situazione dalla prospettiva dell’altro, senza perciò cercare di comprendere le ragioni dell’altro, mentre provare a occupare un posto diverso, quello dell’altro, fa sì che le cose si vedano diversamente.

Ai vv. 5-11 sono raccontati i sogni di Giuseppe, che egli racconta ai suoi fratelli, forse ancora espressione della sua impudenza, o forse un tentativo di creare un dialogo, che tuttavia fallisce con un risultato tragico: «i suoi fratelli lo odiarono ancora di più» (v. 8). D’altronde, già aver fatto un sogno e raccontarlo ai fratelli accresce l’odio, prima ancora di sentirne il contenuto (v. 5), a motivo di quanto viene detto al v. 11: la gelosia. Non è di fatto il sogno a suscitare la loro reazione di odio, ma la gelosia da essi provata per l’amore preferenziale di Giacobbe; il sogno rappresenta un aggravante, si aggiunge a un timore già concreto. I fratelli non hanno semplicemente paura che Giuseppe giunga a diventare loro re, ma che questo evento divenga il segno di una benevolenza incondizionata e ingiustificata. Essi avvertono che l’amore di Giacobbe per questo figlio è sottratto a loro senza ragioni e senza merito da parte di Giuseppe; sentono che manca loro qualcosa per essere pienamente felici; la predilezione verso Giuseppe è interpretata come un meno di amore nei loro confronti e non come un amore diverso.

Conoscendo come va avanti la storia noi interpretiamo questi sogni come anticipi del potere che Giuseppe avrà, anche sui fratelli, come profezie dell’incontro che ci sarà in Egitto tra lui e i suoi fratelli affamati; tuttavia il narratore è molto più abile di noi e in realtà distingue tra chi racconta i sogni e chi li interpreta. Questa distinzione consente di domandarci se davvero i sogni siano predizioni riguardanti il futuro, come sembra ritenerli tutta la famiglia del sognatore, se esprimano l’ambizione, forse un po’ingenua, di Giuseppe o piuttosto il suo desiderio, ancora acerbo, di riunire intorno a sé la famiglia lacerata. D’altronde occorre anche chiedersi se gli interpreti siano affidabili e lucidi o se l’invidia che nutrono non li porta a stravolgere le parole e le intenzioni di Giuseppe.

L’esito dei sogni è quello di allontanare i fratelli che vanno via segnando così non soltanto una distanza fisica ma anche la divisione ormai in atto all’interno della famiglia.

Giacobbe decide di mandare Giuseppe dai fratelli. L’incarico che rivolge al figlio prediletto suona letteralmente così: «vai a vedere lo šalom dei tuoi fratelli e riportami la parola»; è preoccupato della pace e di una parola che non è di pace. Non conosciamo le ragioni per cui Giacobbe invia Giuseppe. Forse vuole colmare la distanza stabilitasi tra i suoi figli, forse ha riflettuto sul sogno del figlio e si è accorto che nella sua famiglia c’è un problema di fraternità e che lui ne è in parte la causa.

La ricerca è condotta dapprima in obbedienza la padre (v. 14) e poi viene assunta personalmente (vv. 15-16). Il passaggio avviene attraverso l’incontro con un uomo misterioso che domanda a Giuseppe «Che cosa cerchi?».

Questo breve dialogo è di per sé inutile ai fini della trama e inoltre è strano che sia l’uomo a trovare e interrogare Giuseppe e non il contrario: «l’incontro con questo personaggio misterioso consente di esplicitare come tutta la storia di Giuseppe vada intesa quale ricerca di fraternità umanamente fallita, ma divinamente e quindi anche umanamente ritrovata attraverso gli imprevedibili meandri del suo stesso fallimento» (Wénin).

Giuseppe risponde: «Cerco i miei fratelli», non «che cosa», ma «chi» e in più afferma «io cerco», io desidero. Questo è diventato realmente il suo desiderio e l’oggetto della sua ricerca. La sua risposta è ancora più  rilevante se si tiene conto che questa è l’ultima parola che Giuseppe dice in questo capitolo e diventa il suo programma che guiderà il resto della storia.

Per trovare i suoi fratelli Giuseppe deve andare oltre il luogo indicatogli da suo padre, deve andare oltre il desiderio del padre, oltre il desiderio e il progetto di fraternità del padre per seguire il suo. Se Giuseppe segue le indicazioni dell’uomo misterioso è perché desidera davvero trovare i suoi fratelli. Così egli va ora dietro a suoi fratelli: non è il primo, ma l’ultimo, occupa il posto giusto, quello del più giovane, rinunciando simbolicamente al posto privilegiato a cui lo aveva promosso l’elezione paterna. Quando prende il suo posto, lontano da chi lo aveva messo da parte, Giuseppe trova i fratelli.

L’esito della sua ricerca, però, sfocia nel dramma, perché i suoi fratelli non sanno tutto ciò.

Con il v. 18 cambia la prospettiva della narrazione che diventa quella dei fratelli. Essi non vedono in Giuseppe un fratello (v. 19) e non vogliono che il suo sogno si realizzi. Giuseppe è per loro «il padrone dei sogni»: colui che li ha e colui che nei sogni è padrone.

Essi cessano di essere chiamati «i suoi fratelli» (tranne al v. 23) e questa locuzione indicherà solo le relazioni interne al dieci, perché Giuseppe è escluso da questa fratellanza (cfr. vv. 19.26.27.30). Le parole scambiate rivelano il movente del complotto, l’opportunità offerta, il progetto di omicidio, l’intenzione di agire segretamente e lo scopo cercato. Preparano così un progetto per uccidere Giuseppe e farlo sparire e in questo modo colpire anche Giacobbe e il suo amore. I fratelli inventano anche la storiella dell’animale feroce, che come ogni menzogna contiene una verità (cfr. 4,7); inoltre, il progetto ha un risvolto ironico, perché il modo in cui i fratelli cercano di annullare i sogni di Giuseppe, apre la strada al loro compimento.

All’arrivo di Giuseppe la prima azione è togliergli la tunica (nominata due volte nel v. 23), cioè togliere il segno della preferenza del padre; essere privato del segno della predilezione diventa il passo necessario verso la fraternità. Ruben non è solidale con il progetto omicida; non c’è piena solidarietà tra i fratelli, prima Ruben e poi Giuda si oppongono o propongono un piano differente: la violenza non crea vera comunione, ma rende soltanto complici del delitto e uniti a motivo di un terribile segreto da custodire.

Giuseppe è gettato in una cisterna; essa è vuota e perciò non affoga, ma può morire di sete; la cisterna vuota è simbolo della morte nascosta, oppure è il luogo paradossale che non fa morire Giuseppe sebbene egli sia morto agli occhi dei fratelli.

Quindi, al v. 25, i fratelli si siedono per mangiare, un atto di estremo cinismo: il gesto della condivisione è stravolto e pervertito nel suo significato.

Il progetto di uccidere Giuseppe si trasforma all’improvviso in quello della sua vendita; di fatto è sempre una morte simbolica, attraverso la quale Giuseppe dovrà passare per ricostruire la fraternità.

Il narratore sembra dire che sono i madianiti a tirare fuori e vendere Giuseppe: sono loro ad avere il profitto, perché il male non paga. Inoltre per «madianiti» usa un termine che vuol dire «dissidi» (Pr 6,14.19; 10,12). Coloro che hanno venduto Giuseppe sono uomini divenuti mercanti a seguito di dissidi.

I fratelli di per sé potevano non informare Giacobbe, essi in fondo non erano a conoscenza del progetto del padre di inviare loro Giuseppe, ma lo fanno per colpire deliberatamente il padre, rimandano la tunica perché sanno che così il padre soffrirà. Si nomina 5x la tunica e 3x si usa il pronome per indicarla; l’enfasi ha lo scopo di indicare che la preferenza del padre non serve più, e che la tunica che li ha fatti soffrire ora fa soffrire lui. Giacobbe dovrà farsi del male interpretando il messaggio insanguinato. Così Giacobbe verrà ingannato attraverso un capretto, come lui aveva ingannato suo padre separandolo dal figlio prediletto. Lo scopo dei fratelli è pure quello di riprendere una vita finalmente riconciliata ora che Giuseppe non c’è più. Questo sembra uno scopo buono ed essi hanno fatto del male pensando che ciò li avrebbe liberati dal male subito; la tragedia che subito appare è la scoperta che si trattava di un inganno.

Giacobbe, infatti, riconosce la tunica, interpreta il segno nel senso suggerito dai fratelli, grida la sua disperazione e rifiuta il conforto dei suoi figli: più profondamente, egli rifiuta di entrare in una riconciliazione se questa nega un fratello. Non ci si può riconciliare prescindendo dal ricordo di Giuseppe, che Giacobbe tiene vivo; non ci sono le condizioni per la pace perché c’è la menzogna; la pace è possibile solo se i fratelli sono tutti presenti, solo se tra loro circola una parola di verità e solo se lo sguardo reciproco non è geloso.

 

Il ritrovamento e la riconciliazione avvengono solo al cap. 45, quando Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli e nel v. 15 il narratore chiosa: «dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui», segnalando il ritorno della parola scambiata tra fratelli.

I cap. da 38 a 44 raccontano l’itinerario che conduce alla riconciliazione. È un cammino lungo, anche dal punto di vista della durata (circa venti anni). L’indicazione non è priva di importanza perché suggerisce che la costruzione della fraternità ha bisogno necessariamente di tempo, non c’è nulla di scontato e, quando ci sono state rotture, ferite, quando scattano dinamiche di rivalità e paura, il percorso non può sfociare immediatamente nella riconciliazione e nel perdono, perché ciò non sarebbe in realtà autentico.

In questi capitoli viene raccontato un itinerario che coinvolge tutti i personaggi e che non consiste nell’allontanarsi dal male, nel fuggirlo alla ricerca di un luogo non abitato da esso. Il male è cancellato da un tracciato che ripassa su quel male. La trama del racconto rivisita la sciagura del male, ripassa dove c’è stato il dolore. È così che il bene toglie forza al male; perché ciò avvenga è necessario che ognuno faccia i suoi passi per andare verso la vita, perché ognuno ha a che fare con il male di cui all’inizio è vittima e complice nello stesso tempo.

 

Brevemente tratteggio l’itinerario verso la fraternità estesamente raccontato dal narratore in questi capitoli.

Nel cap. 39 si narra l’episodio molto celebre della seduzione tentata dalla moglie di Potifar, di cui Giuseppe era diventato uomo di fiducia. Giuseppe si trova in una situazione analoga a quella che viveva nella sua casa, dove godeva il favore esclusivo del padre, ma adesso, invece di approfittare dell’opportunità di usurpare il posto del padrone, riproducendo l’ambiguità della relazione con i suoi fratelli, non cerca di imporsi, di prendere il primo posto; egli accetta il limite per riconoscere la verità di tutti coloro che sono coinvolti nella trama della donna. Nonostante il male che ha subito non getta la sventura su altri nel tentativo di liberarsene, non entra perciò nel gioco della donna, non invidia il suo padrone. Inoltre, accusato ingiustamente dalla moglie di Potifar, non si difende. Certo così evita di entrare in un conflitto che rischierebbe di rivelarsi controproducente, perché per lui finirebbe male, manifestando un realismo pieno di sapienza, ma soprattutto non accusando la donna, rifiuta il male, rifiuta di aggiungere male al male, riconosce che il cattivo è qualcuno che è a sua volta ferito e sofferente. Giuseppe conosce bene il processo di scalata del male, e perciò evita di riprodurlo, in modo tale da non rendere infelici altre persone nel disperato tentativo di sfuggire alla sventura subita. Egli non abbandona il suo rifiuto del male anche quando ne è vittima. Non tenta di vendicarsi su altri della violenza e della sofferenza che lo colpisce, ma sceglie di fermare il male su di sé, invece di fornirgli l’occasione di proliferare. Si ritrova quindi in carcere, giusto tra i cattivi (39,20-23), allora Jhwh gli si avvicina, raggiunge e favorisce Giuseppe nell’avversità, come se confermasse che la giustizia e la sapienza di Giuseppe costituiscono la buona scelta di fronte al male, ma non per risparmiargli l’ulteriore sventura.

In carcere Giuseppe interpreta i sogni del coppiere e del panettiere del faraone, dicendo la verità, anche quando questa è scomoda o può produrre dolore, perché ormai ammaestrato dal danno prodotto dalla menzogna (cap. 40)

Conosciamo come i sogni del faraone diventano la modalità attraverso cui Giuseppe diventa il viceré di Egitto (41).

Il cap. 42 racconta l’incontro tra Giuseppe e i fratelli a causa della carestia. Anche questa è una tappa estremamente ricca, di cui colgo solo alcuni particolari.

Il capitolo si apre presentando Giacobbe che prende l’iniziativa e rimprovera i suoi figli per la loro passività: essi non vedono la fame perché sono occupati a vedersi; sembrano paralizzati e ciechi; non vedono quello che bisogna fare. Guardandosi l’un l’altro si chiudono nel loro cerchio familiare, cosa che, in questa circostanza, può portare alla morte. Il padre li invia in Egitto, dove ha saputo che c’è il grano, perché per vivere e non morire c’è bisogno del grano.

I figli giungono in Egitto e vanno da Giuseppe (v. 6) davanti al quale si prostrano, senza riconoscerlo, è per loro uno straniero. È Giuseppe che li riconosce, e che impedisce di fatto il loro riconoscimento. Può stupire che Giuseppe adotti questa strategia invece di rivelarsi e perdonarli, ma è troppo generoso per desiderare o sfruttare l’umiliazione dei fratelli, facendosi riconoscere subito e rimproverandoli per quello che gli avevano fatto ed è troppo prudente per tendere la mano in un gesto di riconciliazione immediata, perché, se i fratelli non fossero cambiati, la riconciliazione non sarebbe stata autentica. Egli può perdonare perché ha riconosciuto come Dio ha agito nella sua vita trasformando il male in bene, e rimanendo con lui non per risparmiargli il male, ma per aiutarlo «Giuseppe perdona i suoi fratelli non perché lo meritano, ma perché Dio lo merita» (Schenker), per questo sceglie di costruire un percorso all’apparenza ambiguo in cui la pressione che esercita sui fratelli porta questi a fare la verità su loro stessi e sul male passato, a toccare con mano le conseguenze che hanno prodotto e poi a mostrare quanto il loro comportamento familiare sia cambiato. La sua è una durezza pedagogica.

Di questo itinerario fa parte anche la prigionia per tre giorni per la quale il narratore utilizza una formulazione particolare: «li riunì in custodia», dove il verbo«riunire» è ‘asap: li “giuseppizzò”. Mettendoli in carcere, Giuseppe fa sentire loro quello che lui stesso ha patito a causa loro. Come lui un tempo, i fratelli vengono privati della libertà in modo arbitrario e ingiusto e costretti a vivere in una crudele incertezza riguardo al futuro e costretti a ritornare sul passato familiare che hanno evocato e che smentisce la loro pretesa innocenza. Solo la verità toglie al male la sua forza distruttiva. Per vivere è necessario entrare nella verità. Se per Giacobbe per vivere occorre il pane, per Giuseppe per vivere occorre la verità di una parola affidabile.

Questa esperienza sarà determinante: ravvivando il ricordo della vittima, i fratelli sono indotti a ripercorrere il loro delitto per essere guariti. Infatti i fratelli, posti nella situazione di conoscere l’angoscia dell’innocente, di ricordare il passato e di avere come prospettiva quella di incontrare il dolore del padre, parlano tra loro del passato e lo rileggono alla luce del presente (v. 21; cfr. 37,19).

Per la prima volta parlano di Giuseppe come di «nostro fratello», riconoscendolo come tale nel momento in cui confessano la colpa commessa nei suoi confronti. La colpa consiste nel non aver ascoltato lo sgomento di Giuseppe, nell’essere rimasti insensibili e senza pietà quando lui li supplicava. I violenti vedono la violenza tornare su di loro e colpirli e questo gliela rivela. I fratelli vedono finalmente l’angoscia del fratello e che, non senza ragione, vivono la medesima angoscia.

Gen 37 aveva taciuto il grido di Giuseppe. Il lettore scopre a questo punto questo grido e che la colpa dei fratelli non è semplicemente aver aggredito Giuseppe, ma avergli negato la fraternità.

I fratelli quindi tornano da Giacobbe senza Simeone e trovando nel sacco di ciascuno il denaro del grano. Il padre li crede responsabili dell’assenza di Simeone accusandoli della sua scomparsa.

I fratelli sono così messi di fronte alla verità di un padre che li accusa del male subito e ch si presenta come vittima delle loro macchinazioni. E tuttavia la verità progredisce: Giacobbe a potuto dire il suo dramma e i figli misurare i danni tuttora presenti del loro odio passato.

Giacobbe rifiuta di lasciare andare con loro Beniamino. Egli è «mio figlio», a motivo dell’esperienza passata, della situazione presente, del timore futuro.

Giacobbe non è guarito dal suo attaccamento per i figli di Rachele, anzi, il dolore lo ha come ripiegato.

La prova data ai fratelli da Giuseppe consisterà anche nel riuscire a staccare Beniamino dal padre, affrontando con lui i motivi della crisi familiare e dunque vedendo cosa farne del suo amore preferenziale, ora che Giacobbe sembra essersi intestardito.

I fratelli comprendono che entrare nella verità facendo autocritica non è sufficiente per guarire le ferite aperte dalla violenza e dalla menzogna. Il cammino è ancora lungo, perché il cambiamento interiore non basta: occorre che dei segni di questo cambiamento riescano a vincere una sfiducia giustificata. Giuseppe è sempre presente come vittima o come signore: grazie a lui i fratelli sono in cammino verso la fraternità e quindi verso il fratello perduto.

Nel cap. 43 la carestia mette di nuovo in pericolo la famiglia e Giacobbe tenta di inviare nuovamente i figli in Egitto. La figura determinante diventa Giuda, che nel cap. 38 lui si è trovato in una situazione simile e ha imparato che un rifiuto pieno di paura, la diffidenza e il timore della morte portano morte. Inizialmente Giuda chiarisce la responsabilità di ciascuno e le conseguenze evidenti della scelta da fare, quindi chiede di lascia andare «nostro fratello con noi», domandando a Giacobbe di fidarsi nella loro capacità di fraternità e di dimostrarsi padre di tutti, rinunciando ad essere padre di uno solo. Giacobbe deve rinunciare al suo amore geloso per i figli di Rachele altrimenti la fame ucciderà tutti e la fame è anche fame di fraternità.

Davanti al rifiuto di Giacobbe, al meccanismo di reciproca colpevolizzazione che nuovamente si innesca tra il padre e i figli, Giuda interviene una seconda volta chiedendo «a suo padre il ragazzo», non «tuo figlio», né «nostro fratello». Per Giuda un padre deve fidarsi della parola dei figli e della loro capacità di fraternità, senza rinchiuderli nei loro errori passati, deve preoccuparsi della vita di ognuno, anche quando, per questo, deve lasciare andare i figli per la loro strada.

Giuda indica al padre la sua responsabilità, ma, contemporaneamente, non si sottrae alla propria, perché si impegna a riportare indietro suo fratello facendosi carico di ciò che gli spetta personalmente: dimostrarsi fratello e così inverte l’atteggiamento di Caino, perché si fa custode del fratello. Giuda non propone a Giacobbe di vendicare il suo dolore su degli innocenti, ma si mette in gioco lui stesso, prendendo su di sé la colpa, per bloccare la catena di sciagure, e obbligando suo padre a fidarsi realmente di lui, senza altre garanzie che la parola.

Giacobbe è persuaso e i fratelli tornano con Beniamino in Egitto. Conosciamo la vicenda, con la scoperta della coppa del viceré nel sacco di Beniamino. La scena è drammatica, e i fratelli quando potrebbero liberarsi del prediletto, che, lontano dal padre e in posizione di vittima, è completamente vulnerabile di fronte a loro, scelgono invece la via della solidarietà: non possono più abbandonare il fratello al suo destino. La fraternità emerge nel cuore della prova.

Davanti al signore egiziano è ancora Giuda a prendere la parola. Il tema centrale della sua supplica ruota sull’affetto privilegiato di Giacobbe per i figli di Rachele e sul carattere vitale di questo legame la cui rottura porterebbe il padre alla morte. Tutti nella famiglia, i figli, il padre e Giuda, sono ora d’accordo a proteggere l’amore preferenziale del padre per Beniamino.

Giuda per amore del padre è pronto a essere fedele alla parola data; si offe di sostituire il fratello non solo perché si è impegnato, ma per amore del padre, di un vecchio per il quale la nuova sventura vorrebbe dire morire. Il suo discorso annulla in tal modo, punto per punto, la violazione perpetrata dai fratelli del legami fraterni e filiali.

Questo vuol dire che Giuda accetta suo padre così com’è, con la sua predilezione per i figli di Rachele. Ha rinunciato alla gelosia, poiché non solo acconsente alla realtà della famiglia, ma giunge a sacrificarsi al posto del giovane fratello, per proteggere la relazione preferenziale, da cui dipende la vita del padre, e per salvaguardare la libertà di un fratello più amato di lui. Inoltre, se Giuda diventa schiavo mentre Beniamino va via, Giuda occuperà il posto del colpevole e Beniamino quello dell’innocente: è la verità rispetto alla colpa antica e Giuda inverte l’agire di 20 anni prima.

 

Conclusioni

La fraternità è riscoperta e vissuta quando non si guarda più alle colpe e alle divisioni del passato con spirito di rivendicazione, di gelosia, di vendetta o di concorrenza, ma ci si rivolge al futuro insieme. La storia di Giuseppe indica la possibilità del perdono e della fraternità attraverso la prova.

L’esperienza della fraternità non rientra pertanto semplicemente nell’ambito di ciò che io posso produrre con la mia volontà, con lo sforzo delle mie mani o con la fantasia della mia intelligenza; ha sempre la dimensione di un dono che mi precede e dunque anche la dinamica di una vocazione che mi interpella personalmente. Quella della fraternità è sempre esperienza di una vocazione e quindi di una responsabilità: devo rispondere all’appello della fraternità.

La fraternità esige pertanto un  itinerario spirituale, un cammino che attraversa la profondità della vita personale, non si costituisce soltanto sul piano delle relazioni, ma anche su quello della profondità della propria vita ed è a questo livello che è necessaria una continua trasformazione. Questo vuol dire pure che la fraternità non è stabile possesso o godimento acquisito una volta per sempre, ma è la meta di un cammino, spesso in salita. Verso di essa ci si protende, si giunge anche a goderla, ma sempre dentro un orizzonte segnato dalla fatica, dalla distanza, dall’assenza e quindi dalla ricerca.

Ciò che ci affratella non è tanto ciò che abbiamo in comune, quanto, paradossalmente, quello che ci divide: ciò che io ho e lui non possiede, la sua alterità, che diventa non spazio della concorrenza, della gelosia o dell’invidia, ma rimane la distanza necessaria a consentire l’incontro reciproco attraverso il dono di sé. Non si crea fraternità allargando i confini, ma dilatando lo spazio del cuore e della vita, perché l’altro possa entrarvi con la sua diversità e il suo bisogno. Questo vuole anche dire che attraverso la vita fraterna l’altro mi costituisce in una nuova identità. Nel momento in cui chiamo l’altro «fratello», io do un nome nuovo anche a me, appunto quello di fratello. Non posso chiamare l’altro fratello se nel contempo non riconosco questa nuova identità personale che la vita fraterna mi dona di vivere. Questo implica che la relazione di fraternità diventa autentica solo se giunge a un impegno totale di vita, che coinvolge tutto l’essere della persona, non solo alcuni aspetti, la sfera dell’avere o quella del fare e dell’agire. L’imperativo è a essere fratello, prima ancora che a vivere determinate relazioni o a compiere specifiche azioni verso l’altro. Ne consegue che il mio essere fratello non precede la relazione, ma si costituisce attraverso di essa.

La fraternità ha bisogno perciò di una parola che sappia benedire e di uno sguardo che sappia compiacersi. La parola qualifica il gesto, mentre il gesto invera la parola. Posso accogliere e servire il bisogno dell’altro, ma se non lo chiamo fratello, tra me e lui ci sarà la condivisione solidale di un servizio o di un bisogno, non ancora una fraterna comunione di vita.

Infine, ma non ultimo aspetto, la vera fraternità è dono di Dio. «È Dio che dona di vivere nella fraternità e che si rende Egli stesso percepibile, riconoscibile nella bellezza del vivere insieme come fratelli. La fraternità è frutto della benedizione di Dio e nello stesso tempo è il luogo in cui la benedizione di Dio diviene manifesta e assaporabile» (Fallica).

In tutta la storia Giuseppe e i suoi fratelli non appaiono alla ricerca di Dio, ma Dio è sentito presente e operante; guida la storia in maniera nascosta, invisibilmente. Le vicende interumane non si esauriscono in se stesse, ma comportano sempre una profondità misteriosa che le ricollega con il Signore della storia. Dio dunque guida i passi dei fratelli a passare dall’odio alla riconciliazione.

Niente è estraneo all’opera di Dio: tutto rientra nel suo disegno salvifico, anche il peccato dell’uomo, e tuttavia la storia è lasciata alla libera iniziativa umana. L’agire di Dio non si sostituisce, non fa concorrenza al libero gioco delle azioni umane libere. Dio è la forza misteriosa che può dare alla libertà umana la direzione giusta.

 


[1] Bibliografia: L.Alonso Schoekel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Brescia 1987

A. Bonora, La storia di Giuseppe. Dio in cerca di fratelli. Genesi 37–50, L.O.B. 1.3, Brescia 19953

A. Wénin, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. IV Gen 37–50, Bologna 2007 (in particolare); L. Fallica, La rugiada e la croce, Ancora Milano 2001

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