Paolo era riuscito a far nascere a Corinto una comunità cristiana numericamente piuttosto modesta. Ciò nonostante, al suo interno era una comunità molto divisa[1].
Le fratture e le divisioni si erano verificate all’insegna del motto «Io sono di Paolo/Apollo/Cefa/Cristo» (1,12) e si erano sviluppate nell’ambito del battesimo (1,10-17) e della sapienza che è dono dello Spirito (2,6-16) o dell’esposizione retorica di essa (2,1-5).
Paolo non si mette a fustigare la comunità con invettive severe e inefficaci, non attribuisce l’intera responsabilità della situazione incresciosa, in cui versava quella chiesa, ai vari leader, tanto meno si lascia vincere dalla frustrazione davanti alla constatazione che certi problemi fossero causati da comportamenti inautentici non tanto dei fedeli, quanto piuttosto dei missionari. Non si limita però all’analisi della situazione né a esortare alla concordia (1,10), ma cerca di individuare le cause di certe dinamiche ecclesiali contrarie alla carità evangelica, così da aiutare a intraprendere, a questo livello radicale, efficaci cammini di conversione. Non si accontenta di soluzioni parziali, propone risposte di ampio respiro ed elabora una visione di chiesa come comunione di persone, delineando in concreto alcuni criteri evangelici di fondo per vivere in maniera evangelica le differenze personali all’interno della comunità cristiana. Non misconosce le differenze presenti nella comunità, ma, proprio per invitare i Corinzi a valorizzare le differenze senza incrinare la comunione ecclesiale, traccia due prospettive di cammino comunitario: una cristologica e una spirituale. Paolo, dunque, esalta la ricchezza di carismi (1,7), ma ponendo tale ricchezza sotto un approccio all’insegna della teologia della croce, a partire dalla quale deve essere ordinata e giudicata ogni vita spirituale (1,18-31).
L’unico fondamento della comunità è un avvenimento caratterizzato a un tempo da una sconfitta e da una vittoria: l’evento pasquale di Cristo.
La croce è rivelazione paradossale dell’identità di Dio, di Cristo, dell’annuncio evangelico, di cui mostra un volto controcorrente: un Dio potentemente e sorprendentemente operante là dove regna la debolezza e l’insipienza, per questo Egli stesso debole e insipiente agli occhi della saggezza umana, un non-Dio addirittura; un Messia che, contro le più divulgate attese, incarna non splendore e potere, ma quanto di più vergognoso e infame ci sia;
Grazie a questo approccio, la teologia della croce comporta sempre anche un fondamentale accento polemico: le valutazioni dell’uomo relative a ciò che è “sapienza” e “stoltezza”, “forza” e “debolezza”, le classificazioni effettuate sulla base della formazione culturale, del potere politico, dell’appartenenza familiare (1,22.28) vengono contrastate.
Nella croce accade il ribaltamento nel giudizio di valore su tutte le cose appartenenti a questa realtà e ciò in una maniera permanente e vincolante, poiché il Crocifisso annuncia una volta per tutte soltanto il Dio che intende essere Dio e salvatore nella profondità, nella miseria mortale, nella perdizione, nella nullità.
Paolo esorta i Corinzi a riflettere su se stessi e sul loro modo di comprendere la realtà a partire da questo approccio. Essi non possiedono nulla di cui possono vantarsi di fronte a Dio; possono gloriarsi soltanto del Signore (1,28.31).
È necessario vigilare perché i criteri mondani di valutazione (1,22.26) non trovino di nuovo accesso, di soppiatto e travestiti da valori spirituali, nel comportamento della comunità, come è accaduto palesemente con la rivalità creatasi a Corinto intorno ai doni dello Spirito.
Dei doni dello Spirito si occupano i capitoli 12-14 che formano un’unità chiaramente individuabile. 1Cor 12,1 segna un inizio: Paolo, come anche in 7,1 e 8,1, comincia ad affrontare un tema che era trattato o dibattuto dalla comunità e che gli era stato sottoposto. Il discorso si estende fino a 14,39-40, che riassume e sintetizza la riflessione condotta dall’apostolo nei tre capitoli. In 15,1 si passa ad un altro argomento.
Paolo, dunque, esordisce annunciando che parlerà «riguardo le cose spirituali»; non specifica però quale sia precisamente il problema dibattuto a Corinto. Si trattava di uomini spirituali, dotati di capacità eccezionali, o dei doni spirituali, e in questo caso di quali? È del tutto probabile che questa formula indicasse le manifestazioni pneumatiche di carattere estatico, in concreto la glossolalia, una forma di preghiera espressa con voci emotivamente cariche ma non comprensibili. Si trattava di esperienze assai ricercate dai credenti della comunità corinzia, perché considerate segno inconfondibile della divinizzazione del beneficiario, strappato a viva forza dai limiti umilianti della sua creaturalità terrena. Sono aspirazioni a cui Paolo fa più volte riferimento in questi capitoli (12,31; 14,1.5.12).
Di fatto queste esperienze cristiane furono interpretate alla stregua di analoghe esperienze pagane (culti delle baccanti), con il risultato di puntare tutta l’attenzione sull’aspetto esperienziale spettacolare e sulla gratificazione psicologica del soggetto beneficiario, innalzato ad altezze sovraumane.
Ma non tutti i credenti di Corinto potevano vantarsi di essere estatici e glossolali. Di qui una frattura discriminatrice tra carismatici esaltati e auto compiaciuti, affetti da un complesso di superiorità, e credenti privi di esperienze estatiche e perciò vittime di un complesso di inferiorità. Tale contrasto emerge quando Paolo afferma con forza che a tutti lo Spirito è donato come fonte di doni ora eclatanti e ora invece umili e modesti ma non per questo meno utili alla crescita della comunità (12,7.11).
Infine, le esperienze pneumatiche erano consumate dai beneficiari all’interno delle loro persone, in modo assolutamente individualistico ed egocentrico. Certo, gli estatici si esibivano durante le riunioni comunitarie, ma senza alcuna utilità spirituale per gli astanti ridotti a spettatori stupiti e magari invidiosi. Nessuna edificazione della comunità, solo autoesaltazione dei carismatici.
Paolo evidentemente conosceva bene la situazione della comunità, ma non dà subito la risposta alla domanda formulata dai Corinzi, o la soluzione alla questione sorta all’interno della comunità. Il suo procedere si snoda attraverso un percorso che può essere sintetizzato come un passaggio da una riflessione più generale, a un approfondimento, fino a trattare questioni che paiono più concrete.
Ritenere che Paolo stia semplicemente affrontando il tema di uno o due fenomeni spirituali pone delle difficoltà rispetto al cap. 13. I capitoli 12 e 14 infatti trattano il tema delle manifestazioni dello Spirito, dapprima a livello generale e poi nel dettaglio di due carismi, l’encomio del cap. 13 interromperebbe allora lo sviluppo del pensiero.
Il percorso dei capitoli 12-14 va considerato nella sua globalità e progressione argomentativa, proprio perché l’impressione che si riceve è che per Paolo non sia un dono o l’altro il vero problema da affrontare; egli inserisce le questioni pratiche, che i suoi interlocutori ben conoscevano, in un quadro molto più ampio e articolato di ragionamento in cui anche il cap. 13, con l’encomio dell’agape, ha una precisa motivazione e importanza.
Non è più o solo una questione relativa a quale carisma sia il più importante: a Paolo interessa piuttosto chi sia il credente all’interno di quale comunità.
Lo schema dei tre capitoli risulta il seguente:
a 12,1-30: i fenomeni spirituali
b 13,1-13: l’elogio della carità
a’ 14,1-40: due fenomeni spirituali
Tra il cap. 12 e il cap. 14 c’è evidentemente un rapporto, dal momento che si parla di fenomeni spirituali, al centro Paolo introduce un altro tema e un altro vocabolario, quello della carità.
La diversità e l’apparente non pertinenza rispetto al tema generale della cornice sono indizi del fatto che il centro è la chiave di interpretazione: è il vocabolario e il tema della carità che permettono di comprendere cosa intendere per carismi e come.
I primi tre versetti costituiscono l’introduzione non solo al cap. 12, ma a tutta l’unità; si tratta di versetti difficili, dal momento che non sembra abbiano un significativo aggancio con quanto segue Si può intendere che Paolo sottolinei qui lo sfondo, determinato dall’esperienza che i Corinzi hanno fatto di Cristo, e che stabilisca il terreno da cui partire.
Il criterio per distinguere ciò che viene dallo Spirito e ciò che non viene dallo Spirito è Gesù Cristo.
L’argomentazione vera e propria si sviluppa a partire dal v. 4.
Lo schema complessivo del cap. 12 è:
a vv. 4-11 i doni
b vv. 12-26/27: l’esempio del corpo e delle membra
a’ vv. 27-30: i doni nella chiesa
La chiave di lettura appare l’esempio del corpo e delle membra in riferimento alla chiesa nella sua unità e complementarietà.
I vv. 4-6 sono costituiti da tre frasi molto simili, divise ciascuna in due membri: il primo sottolinea la diversità, il secondo mette in evidenza l’unicità, attraverso una formulazione trinitaria.
Nella chiesa corinzia si parlava di esperienze pneumatiche e si accentuava il versante psicologico e l’aspetto dei vissuti sovraumani provocati da impulso esterno e irresistibile. Paolo, invece, sottolinea che si tratta di «charismata», cioè di doni concreti di grazia provenienti dall’alto. Dunque, nessun esibizionismo dei beneficiari appare giustificato: tutto è grazia e dono immeritato. D’altra parte, la loro origine divina e gratuita dice che non si può prescindere dal donatore e dalle finalità da lui perseguite. Di fatto, Paolo precisa, lo Spirito dona i carismi per l’utilità (12,7), per l’edificazione della comunità (14,12). Si tratta dunque di doni di grazia prettamente funzionali.
Paolo non utilizza soltanto il termine «carisma», ma anche «ministero» e «operazione». «Ministero» indica il servizio e la parola scelta fa riferimento a un servizio libero e volontario, diverso da quello imposto allo schiavo. I servizi o ministeri vengono dalla libertà del Signore che dà a ciascuno la possibilità di volere e il potere di fare un servizio nella Chiesa. L’iniziativa, anche in questo caso, è riportata al Signore e il servizio, più che l’atto compiuto, esprime la relazione con qualcuno: si è servi di qualcuno, non di sé o per sé.
L’altro termine, «operazione», indica propriamente l’energia, per cui nel contesto dei doni, esprime l’efficacia, la dinamica, la forza di Dio. Dunque non si intende indicare soltanto la diversità dei doni, ma anche che tutto è efficace perché opera di Dio. L’attenzione è così posta sull’effetto dell’azione: l’uomo, destinatario del dono, ha in deposito il risultato di azioni compiute da un Altro.
Paolo affronta la questione consentendo di distinguere tra uniformità e unità, e mettendo a tema il rapporto tra molteplicità e unità. Non insiste su una o sull’altra, ma cerca di abbinare le due componenti, per cui una è conseguenza dell’altra e la diversità trova la sua fonte nell’unicità: l’unico Signore dà doni diversi e ogni dono deve capirsi in funzione di un insieme e della totalità. Paradossalmente, Paolo afferma che è l’unità/unicità dello Spirito la fonte della diversità. Questa relazione di origine è ciò che permette di dire che qui non si sottolinea o la molteplicità dei doni o l’unità, ma il loro rapporto, la loro combinazione, così che la molteplicità deriva dall’unicità e questa rimanda alla diversità.
Ogni membro della comunità è pertanto chiamato a sostenere tale paradosso. La diversità dunque non è dispersione, perché porta il segno o il sigillo dell’unicità. Focalizzarsi su un unico dono è assurdo, perché occorre vedere tutti gli altri.
Non c’è nessun elitarismo perché lo Spirito ripartisce i suoi doni di grazia tra tutti i membri della comunità, nessuno escluso. A ciascuno dunque è data una manifestazione particolare dello Spirito «per l’utilità». Nel v. 7 la traduzione CEI parla di «bene comune»; in greco, tuttavia, c’è solo il sintagma «per l’utilità», e ciò vuol dire che il dono dello Spirito ricevuto da ciascuno è finalizzato all’utilità, innanzitutto l’utilità di chi lo riceve, nel senso che gli fa bene avere quel dono, lo aiuta nella salvezza e, nello stesso tempo, quel dono viene messo a servizio degli altri e diventa utile per la comunità. La manifestazione è per te e per tutti.
Nei vv.7-10 Paolo offre quindi una lista dei doni dello Spirito; si tratta solo di un elenco esemplificativo, non ci sono tutti i carismi possibili, tanto è vero che dopo, ai vv. 28 e 29 darà un altro elenco in cui alcuni ritorneranno e altri saranno nuovi.
In base alle forme che esprimono i doni (neutri in -ma o mancanza di articolo), si può dire che Paolo insiste sulla loro occasionalità, per cui si sottolinea che l’origine del dono non è nell’uomo. La costruzione delle frasi, d’altronde, con all’inizio il riferimento al destinatario del dono, è un indizio del fatto che l’enfasi non va sul carisma, ma sull’uomo, sul fratello quindi, membro della stessa comunità, e questo è un fatto che verrà ulteriormente sviluppato.
Si ha una ripartizione di dono diversi concessi a soggetti diversi, per cui nessuno li possiede tutti e nessuno non ne possiede alcuno. Non si ha la partecipazione di tutti agli stessi carismi, ma ciascun credente riceve un suo proprio e caratterizzante carisma. Come fonte di carismi diversi lo Spirito è sorgente di diversità e di individualità nella comunità cristiana.
Nell’elenco figura come primo carisma la parola di saggezza, da intendere come la capacità di far gustare le cose, di trasmettere l’insegnamento in modo giusto. Il linguaggio di conoscenza indica un approfondimento scientifico, teologico, teorico della fede, la capacità di intuire, di comprendere.
La fede è probabilmente quella forza di fede particolare che si manifesta in situazioni estremamente difficili. Segue il carisma di guarigioni, un sintagma che può avere un doppio significato, quello di guarire, cioè di superare la malattia e quello di far guarire, cioè di aiutare un altro a superare la malattia. Anche l’espressione successiva «energie di potenze» è molto generica e indica ogni manifestazione forte, energica, di impegno, di organizzazione, di servizio, di potenza.
La profezia non è ovviamente la previsione del futuro, ma l’interpretazione del senso, cioè la capacità di leggere dentro le persone, dentro gli eventi per cogliere il significato di ciò che sta capitando. Discernere gli spiriti invece indica la capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Da ultimo Paolo elenca la varietà delle lingue, cioè la glossolalia, e l’interpretazione delle lingue: vale a dire la capacità razionale di spiegare questi suoni inarticolati.
Dopo aver elencato i carismi dell’apostolato, della profezia e dell’insegnamento, l’apostolo si domanda se tutti i credenti possono essere apostoli, o tutti profeti, o tutti maestri, e la risposta ovviamente è no.
A scopo illustrativo nel brano dei vv. 12-26 Paolo paragona la chiesa di Corinto all’organismo umano, che si caratterizza per la presenza di molte e diverse membra concorrenti, ciascuno a suo modo, alla crescita armoniosa del tutto.
A prima vista il paragone dei vv. 12-26 interrompe il filo del discorso. Si potrebbe infatti passare al v. 28 senza difficoltà. Occorre perciò domandarsi cosa aggiunga l’esempio all’argomentazione precedente, perché Paolo l’ha inserito e perché ha scelto proprio questo momento per farlo.
L’accento non cade sull’unità del corpo ma sulla necessaria pluralità e diversità delle membra che lo costituiscono. Per arrivare all’unità la molteplicità è importante e non si oppone all’unità. Proprio per sottolineare questa unicità nella molteplicità, il corpo umano è appunto un esempio estremamente efficace, perché è fatto di tante parti diverse le une dalle altre, eppure il corpo è una unità sola.
I vv. 12-13 mettono in evidenza che a lui non interessa parlare della chiesa in sé, ma nella sua relazione con Cristo a cui abilita lo Spirito. Infatti Paolo non si ferma al puro e semplice paragone: la chiesa di Corinto è sì come un corpo, ma ancor più è il corpo di Cristo, cioè una grandezza organica che appartiene al Signore Gesù e i singoli membri della comunità corinzia ne sono le membra. Questo determina la possibilità per Paolo di leggere in chiave escatologica e non sociale un’immagine, quella del corpo e delle membra, che era conosciuta e usata al suo tempo. Questo vuol dire che l’unità del corpo non viene dai gruppi sociali che formano la Chiesa; Paolo riprende le categorie sociali diversificate (Giudei e Greci, schiavi e liberi), ma l’unità nasce dal battesimo, nasce dalla partecipazione al mistero della morte e resurrezione del Signore Gesù. È dunque un principio che supera ogni unità sociale e si radica nel mistero di Dio.
La relazione chiesa-Cristo, fondata nel battesimo, è infatti una realtà escatologica[2]. La metafora ha il suo fondamento nel fatto che le membra richiamano la molteplicità, Cristo l’unità. In un corpo ci sono molte membra e molte funzioni, ma tutte sono a servizio dell’unico corpo. Lo sviluppo del paragone, che procede per tappe, mostrerà che questo fatto è voluto da Dio (v.1 8 e v. 24).
Con il v. 14 inizia il paragone vero e proprio che si può suddividere in due parti. Nella prima prendono la parola il piede, simbolo del movimento, e l’orecchio, simbolo dei sensi. Piede e orecchio erano ritenuti parti inferiori rispetto alla mano e all’occhio. Le oro affermazioni sono pertanto espressioni di auto disprezzo e tuttavia, dice Paolo, non perché lo dicono lo sono.
Nella seconda parte (vv. 21-24) sono invece le membra superiori a esprimere il loro disprezzo per quelle inferiori, ma anche in questo caso il ragionamento, dice Paolo, non funziona. Dunque, nessuno può disprezzarsi e nessuno deve minimizzare il ruolo dell’altro, ma è necessario un rispetto nei confronti di tutti. A fondamento di ciò c’è la convinzione che è Dio ad aver voluto che il corpo ecclesiale fosse così.
Riportando il paragone alla situazione della comunità di Corinto, esso manifesta che non ci sono carismi più importanti di altri, al contrario è necessaria la diversità e la complementarietà dei membri per la costruzione e la valorizzazione dell’unità. È la molteplicità a manifestare, paradossalmente, l’unità e la favorisce.
Contro la divisione e l’orgoglio Paolo afferma che, in quanto membra dell’unico corpo, ogni membro va considerato come appartenente a me, parte di me, mia ricchezza, pur o a motivo della sua diversità da me; si tratta pertanto di recuperare la visione autentica della comunità e dei diversi carismi che si manifestano al suo interno.
I carismi perciò non vanno considerati in sé, ma in funzione di un insieme. Certo, c’è una gerarchia di carismi, ma non è detto che quello che conta di più, quello più evidente, sia anche il più importante. Ciò che effettivamente vale è che ogni carisma è in relazione agli altri.
Non si tratta di distinguere o di opporre, ma di riflettere a livello comunitario su ciò e ad accogliere la sfida.
Nei vv. 27ss. superando il paragone, Paolo fa seguire un elenco dei molteplici e complementari servizi o carismi presenti nella chiesa (v. 28). I primi tre sono elencati in maniera classificatoria e se ne qualifica i possessori con termini specifici: si tratta rispettivamente di apostoli, profeti e maestri. Poi vengono menzionate alcune funzioni carismatiche in una enumerazione esemplificativa non esaustiva.
La contrapposizione carisma-istituzione non regge a una analisi approfondita della teologia dei carismi. Anzitutto perché carisma, secondo Paolo, non vuol dire esattamente espressione di uno slancio spontaneistico interiore, ma dono di grazia, il cui principio è Dio stesso, o anche Cristo, come pure lo Spirito. In altre parole, il carisma per l’apostolo è realtà specificatamente teologica. Soprattutto, a suo avviso, tutti i servizi utili e necessari per il buon funzionamento della comunità cristiana sono carismi, cioè doni di grazia. Anche il governo della chiesa e la sua presidenza sono di natura carismatica, essendo concretizzazioni storiche della grazia di Dio.
Affermando che tutti i servizi sociali della comunità cristiana sono carismi, Paolo ultimamente intende sottolineare che questa è diretta da Dio, vero responsabile del suo buon funzionamento. L’apostolo afferma così il primato della grazia nell’essere della comunità.
La complementarietà dei diversi servizi ripartiti tra i diversi membri della chiesa postula una fattiva solidarietà degli uni a favore degli altri, solidarietà visibile nel corpo umano dove le diverse membra si prendono cura le une delle altre secondo il criterio del bisogno.
A conclusione di questo discorso Paolo invita a non disprezzare, ma a desiderare i carismi più grandi, e nello stesso tempo egli mostra la via migliore di tutte, quella infinita (12,31). Vale la pena recuperare il testo originale del v. 31, che risulta molto più incisivo e sottolineare che a questo punto l’apostolo non parli più di carismi ma di via.
Usando «via», egli va verso qualcosa di smisurato. La «via» è identificata con l’agape, vale a dire l’amore di Dio che abita nell’uomo e ne plasma la vita. La via è il comportamento dell’uomo, il suo atteggiamento, il modo in cui vive. Essa è oltre i carismi e Paolo la qualifica con una locuzione particolare che può essere resa con l’aggettivo «smisurato», per indicare l’eccedenza che intende segnalare. Questa via non è pertanto semplicemente la migliore, ma è la via per eccellenza, anzi, è l’unica via possibile per il discepolo; per questa ragione, se mancasse l’agape, uno non è più ciò che è, cioè credente e membro del corpo di Cristo.
I carismi elencati al cap. 12, infatti, sono doni spirituali dati da Dio per occasioni precise e non sono distribuiti a tutti; ogni carisma, cioè, è un dono divino, utile alla persona stessa o ad altre persone, un dono che corrisponde a una diversificazione delle membra del corpo di Cristo e quindi non si trova in tutti i credenti. L’agape, invece, non può essere un dono del genere, dal momento che va dato a ogni credente continuamente. Gli altri doni possono esistere senza la carità, che è invece qualcosa di più interno e indispensabile a tutti i credenti. Paolo così passa dall’esterno all’interno, cioè dall’organizzazione esterna della chiesa, con la molteplicità delle mansioni, al principio di vita dal quale dipende il valore di tutto il resto.
La carità dunque non è qualcosa che permette di eseguire cos buone: quelle descritte sono tutte cose buone (glossolalia, profezia, scienza dei misteri, dare tutti i suoi averi) e sono già effettuate (ma senza la carità). Si può quindi fare del bene senza la carità. La carità è ciò che fa esistere il credente e ciò che gli dà la sua identità.
[1] Bibliografia: Fascicoli di «Parole di vita» dedicati a Paolo nel 2002; G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1995; R. Penna, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, EDB 1984; Id. L’apostolo Paolo, Paoline 1995
[2] Paolo utilizza diverse metafore per parlare della chiesa; alcune si ritrovano in 1Cor nei capitoli precedenti: campo, edificio (3,9), tempio di Dio (3,16-17), membra di Cristo (6,15). In particolare, la metafora della chiesa come corpo di Cristo trova la sua validità e il suo senso nella resurrezione di Cristo. Sulle immagini della Chiesa in Paolo, J-N. Aletti, “Le statut de l’église dans le lettre pauliniennes. Réflexion sur quelques paradoxes”, Bib 83 (2002), 153-174.