Lettera Enciclica Lumen Fidei

Posted by usmionline
lug 09 2013

 

Lumen fidei Piccola

All’uscita della prima Lettera Enciclica di Papa Francesco (29 giugno 2013), qualcuno si è chiesto: ha senso indire un Anno della Fede (Benedetto XVI) e un documento ufficiale sulla Fede quando tutto il tempo del cristiano è un percorso di fede?

Perché, allora, i due Papi – in notevole sincronìa – proseguono in tale impegno dottrinario e pastorale?

Per comprendere, allora, la scelta del Magistero Pontificio occorre rivedere alcune situazioni che nel recente periodo sembrano essere divenute sempre più problematiche.

Una prima questione riguarda il significato della Fede in sé.

Se sul piano teorico nessuno ha osato confrontarsi con i Papi Ratzinger e Bergoglio, sul versante delle prassi, dei comportamenti, delle scelte contingenti, si è strutturato un indirizzo di pensiero che, nei fatti, non segue l’orientamento cattolico.

In alcuni fedeli, ad esempio, si è ritenuto utile accentuare un fideismo che, nel tempo,  non ha reso più bella la Chiesa, Sposa di Cristo.

Nel fideismo l’idea centrale è che fa tutto Dio. Il credente  rimane fermo. Attende. Non è chiamato a partecipare alla costruzione del Regno. Fa tutto la Grazia. L’essere umano deve solo aver fiducia in azioni improvvise e liberanti del Signore. Il fideismo, dunque, per evidenziare al massimo la Presenza di Dio pone in ombra l’impegno umano, la risposta a una vocazione.

In altre situazioni, il comportamento è caratterizzato da una linea opposta. Quella dell’indifferenza. L’indifferente non manifesta negazioni. Non fa polemica. Non si pone in contraddittorio con coloro che operano nelle comunità ecclesiali.

L’indifferente non è neanche spettatore. Valuta la Chiesa come una delle tante associazioni che nascono e muoiono nel modo. Punto.

Esiste, poi, una linea di comportamento che confonde la fede con la filosofia. La filosofia privilegia il ragionamento. E in più casi è stato dimostrato, nei secoli,  come la dottrina cattolica ha profondamente valorizzato il contributo della ragione.

Ma i passi di taluni filosofi non  condividono una fede ragionata, ma sospettosa. Per tale motivo si preferisce piuttosto esaltare il libero arbitrio, il metodo dubitativo, le tecniche di iniziazione  all’armonia del sé e alla sintonìa cosmica.

Alcuni filosofi, quindi, affermano di essere in cammino verso la verità, ma non riescono a superare un orizzonte immanente. Tutto è concentrato in schemi umani. In logiche umane. In conclusioni verificabili nell’immediato.

La fede, però, è stata anche letta come desiderio di eternità. E in questo senso, molti autori si sono agganciati ai riti naturali, ai culti ancestrali che privilegiavano ciò che vedevano (o che temevano).

In tal senso tutta la dottrina cattolica è stata messa in discussione: da Cristo che muore e che  risorge come altre divinità pagane, allo stesso significato del pane e del vino, alla verginità della Madonna.

Nei luoghi di sepoltura di diverse popolazioni si è arrivati  a scolpire l’entrata in pietra di aree sepolcrali con il disegno di una porta.

Anche l’acqua è divenuto sia un segno di separazione tra la città dei vivi e quella dei morti, sia un rito cultuale di purificazione, sia un immagine di vita.

A questo punto  la riflessione sulla Fede si è inserita in credenze ferme oggi davanti a sepolcreti che non comunicano nulla.

Una seconda questione riguarda la Fede cattolica.

Essa non è un trattato di auto-controllo. Non indica le fasi di tecniche liberanti in un oggi problematico. Non si pone come dottrina politica che svela finalmente il segreto di una liberazione totale.

La Fede, nel Magistero pontificio, basato sulla Parola di Dio e sulla Tradizione,  non spinge verso un’auto-salvezza. E non pone al centro lo sforzo umano.

La Fede è un incontro. Con una Persona viva. Che ha parlato. Che è entrata nelle case. Che ha mangiato con l’umanità presente in Palestina nell’Ora dell’Incarnazione.

Però, la Persona di Cristo non si è limitata “a fare amicizia”, ad essere “un semplice fratello”, a ideare forme nuove di comunità religiose capaci, ad esempio, di proseguire l’esperienza degli Esseni.

La Persona di Cristo è segno. Orientamento. Fonte di liberazione dal peccato e dalla morte.

Il segno non rimanda a consigli di semplice applicazione di norme di comportamento.

Il segno non è neanche un suggerire miglioramenti a vite comunitarie costruite intorno alla sinagoga, all’elencazione di precetti, al rispetto di formalismi.

Cristo è il Segno per eccellenza perché nella Sua unica Persona si trova vera umanità e autentica divinità.

Il Signore della Storia entra nelle storie umane ma le pone davanti all’annuncio della Buona Novella. Del Vangelo.

Il Signore Gesù è orientamento perché non addita solo dei traguardi, delle nuove prospettive, e  una novità in Lui, ma perché si presenta come il Figlio talmente amato dal Padre che addirittura diventa sacramento del Padre. Parola del Padre. Manifestazione del Padre. E, contemporaneamente, perché promette l’invio dello Spirito Santo. Il Paraclito.

Gesù di Nazaret, poi, è colui che libera dal peccato e dalla morte.

Tale aspetto, ancora oggi, non è sempre compreso dai fedeli. Perché?

Forse, perché – in assenza di una visione della Storia della Salvezza -  si arriva a ritenere che Cristo è un mero “protettore”. Qualcuno da invocare solo quando l’esperienza terrena diventa “valle di lacrime”.

Ciò ha in sé qualche elemento  di verità. Ma tale dinamica ha senso se il fedele si fa accompagnare in un itinerario di fede, di speranza, e di carità. Altrimenti, l’emotività prende il sopravvento.

Davanti a un mondo moderno, specie nella ricca area occidentale, che non ha scrupoli a investire su santoni, fattucchiere, portafortuna, analisi di segni zodiacali, carte, fondi di caffè, voci dall’oltre-tomba, e che non esita a consegnare capitali per una liberazione da fatture e malocchi, i due Pontefici del nostro tempo hanno chiesto a tutti i fedeli di invertire la rotta.

È questa la terza questione da affrontare. Che significa invertire la rotta?

Significa prima di tutto non cercare né sapienza umana né episodi “straordinari”. L’incontro con la Persona di Gesù avviene nel silenzio.

Nel raccoglimento. Nella partecipazione alla vita sacramentale. Nell’ascolto della Parola. Nelle opere di carità.

Forse, alcuni fedeli non si rendono conto che ogni giorno, quando il sacerdote celebra l’Eucaristia, avviene un miracolo straordinario.

Se “quello” è un miracolo che getta luce, grazia e che ribalta la stessa storia umana, che serve andare alla ricerca di altri fatti prodigiosi?

Ricordo ancora la figura affaticata di san Pio da Pietrelcina. Usciva dalla sacrestia. Si era già incurvato e in un’ora molto mattiniera iniziava a celebrare la messa.

Andava avanti rispettando i tempi previsti per quella celebrazione nella chiesetta di Santa Maria delle Grazie.

Poi si arrivava al momento della Consacrazione. Lui iniziava a recitare la formula. Tutto proteso in avanti. E si fermava.

Con i suoi occhi intensissimi fissava la particola che stava consacrando.

Che avveniva in quel momento?

Egli vedeva Gesù. Era consapevole della Sua Presenza.

Con l’andar del tempo il superiore, per obbedienza, gli ordinò di proseguire. E lui ubbidì.

Perché tale episodio mi torna continuamente in mente?

Perché in padre Pio c’era una continua testimonianza sacerdotale che richiamava al primato di Dio.

Forse, ma lo dico sottovoce perché non voglio criticare nessuno, le nostre moderne chiese parlano poco di una fede vissuta anche nel progetto di alcuni ambienti.

Forse, e lo affermo ancor più sottovoce, gli abiti indossati da alcuni sacerdoti e da taluni religiosi sembrano testimoniare il desiderio di entrare nel mondo con abiti laicali ove si fatica a individuare il prete (manca talvolta anche un piccolo Crocifisso).

Forse, e qui parlo proprio a fatica, è difficile pensare che i fedeli possano comprendere la centralità di Cristo nella Chiesa se, entrando in un luogo di culto, trovano al centro del presbiterio una sedia elegante riservata al celebrante e, spostato a destra, un tabernacolo disadorno.

Su questo punto sarebbe utile rileggere la lettera che proprio san Francesco di Assisi indirizzò ai sacerdoti.

Nel contesto sommariamente accennato si potrebbe far riferimento anche a degli stili che non aiutano a vivere la Fede.

Ha senso insistere su vesti liturgiche “all’ultima moda”?

Quale significato possono avere le croci ove il design evita di presentare il Crocifisso per accentuare i due assi della croce con curve eleganti?

E che valore di insegnamento può essere attribuito a Crocifissi di tipo gianseniano ( mani legate in alto a significare che la Salvezza è per pochi)?

In molti casi, alcuni richiami a un ritorno più rispettoso delle immagini religiose (di ogni tipo) sono stati accolti come una resistenza alla modernità. Come un non capire i “nuovi linguaggi”, le nuove “forme di comunicazione”.

Penso che non sia così.

E l’Enciclica Lumen Fidei lo conferma.

Pier Luigi Guiducci
Università Pontificia Salesiana

 

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