Quei “33″ come una parte di noi

Posted by usmionline
ott 15 2010

Uno dopo l’altro vengono alla luce, e nascono di nuovo.

Arrivano sulla terra uno ad uno, i trentatrè uomini minatores imprigionati nelle viscere di San Josè in Cile dal giorno in cui le rocce che essi dovevano scavare sono crollate. Astronauti al contrario, dopo 68 giorni di prigionia a 700 metri dentro il cuore di Madre Terra. Sotto e sopra le dune dell’Atacama, il deserto più arido del mondo.

E nel loro passaggio dal buio alla luce, un senso di liberazione e di felicità finalmente prende tutti, da un capo all’altro del mondo. Lacrime di gioia spazzano via il reality show organizzato dai grandi mass media e dal governo di Sebastían Piñera, in prima fila a ricevere con un lungo abbraccio ciascuno dei protagonisti che tornavano alla luce.

Tutto dipende dalla prospettiva, dice un motto popolare in Cile. Da un lato, la stragrande maggioranza dei cileni versa lacrime per quegli uomini divenuti simbolo di un modello economico che li usa come risorsa, anziché considerarli persone. Dall’altro, il presidente Piñera, simbolo del potere pubblico e dello spazio politico, trasforma gli sconosciuti in celebrità, portandoli via dalla loro nuda vita. Egli, attraverso lo sforzo del governo per salvarli, offre la sensazione di qualcuno che si preoccupa per l’altro, mentre tenta di rappresentare la cinghia di trasmissione con una società abituata allo stress lavorativo e alle divisioni.

«Non sono una star»

I minatori ringraziano tutti e chiedono: «Non trattateci come star dello spettacolo o come giornalisti. Siamo solo minatori». È  quello che, giustamente, chiedono anche milioni di cileni attraverso facebook e twitter. «Sono super contento di vivere questo momento» dice Mario Sepulveda, elettricista, 39 anni, diventato famoso in tutto il mondo come l’animatore dei filmini inviati in superficie. Abbraccia la sua famiglia gridando «Viva il Cile» e subito aggiunge: «Però questo Paese deve capire che il mondo del lavoro ha bisogno di  molti cambiamenti. Nessuno deve scordare che questa esperienza deve servire ai dirigenti del nostro paese per cambiare le condizioni lavorative» che hanno originato il dramma.

Ora il Paese inizia un periodo di riflessione sulla vicenda per non dimenticare le cause dell’incidente e affrontare seriamente il problema della scarsa sicurezza sul lavoro. In molti attendono il “Rapporto sulla sicurezza nel lavoro” che dovrebbe arrivare entro un paio di settimane.

Aggrappati alla mano di Dio

Le statistiche dicono che se di lavoro si vive, purtroppo di lavoro si muore, ancora oggi, ogni giorno. Anche nella nostra Italia. Ma il mondo sembra immerso nell’ottavo vizio capitale dell’indifferenza (come lo definisce don Gallo) e la cosa non fa molta audience. Intorno alla miniera cilena invece si è creata una grande partecipazione e anche una preghiera, che non si erano viste in disgrazie ben più grandi come quella del terremoto verificatosi nello stesso Cile!

Il fatto è che “I 33″ minatori, rimasti imprigionati sul fondo di un’umida e calda miniera alla temperatura di 36 gradi e già dati per morti, erano vivi e decisi a vivere, per la speranza che respirava in loro. E alla speranza – si sa – gli uomini sono radicalmente, originariamente legati.

Ad uno sguardo immediato infatti vivere appare come un inesorabile essere «gettati verso la morte», un lungo viaggio verso le tenebre che aspettano ognuno -prima o poi- come l’ultima sponda, l’assoluto silenzio. E per questo la vita è impastata di dolore. Con gli anni sentiamo crescere in noi la segreta indicibile ansia -di cui normalmente si tace- di potere in qualche modo rinascere ‘altri’, trasformati.

Devono farcela. Ha pregato il Papa, e Obama, e i minatori sardi. E prima ancora le famiglie e gli amici, i cileni. E tutti siamo stati a guardare. Con loro in attesa di nascere. «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi, e ha vinto Dio: mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che mi avrebbe tirato fuori di là», ha raccontato un minatore. E alla fine: «Io vorrei risalire per ultimo, per favore», ha detto uno. E allora un altro: «No, amico mio, ho detto io che sarei stato ultimo». «No, no, davvero, io voglio andare per ultimo, ha cominciato allora a dire un altro». E la loro storia di paura e di lacrime è diventata ancora storia di vita. L’attesa si scioglie in un abbraccio. E con ogni uomo che risale in superficie, rinasce una famiglia di gente umile che piange di gioia.

Storia di vita

 “I 33” sono realmente diventati un gruppo, uno per tutti, tutti per uno: «Abbiamo formato una meravigliosa famiglia con persone che fino a due mesi fa neanche conoscevamo».

E’ splendido anche ritrovarsi attesi e amati. Gli 800 parenti e i soccorritori rimasti per tanto tempo a Camp Hope, vicino alla miniera, tutti sono sicuri di una cosa. I legami e le amicizie nate nella disperazione e poi alimentate dalla speranza non finiranno qui.

La lezione è per tutti e per ogni persona: l’empatia dell’uno per l’altro, per ogni altro nessuno escluso, avvia a quella solidarietà che trascende qualsiasi discorso politico.

Bentornati alla luce e alla vita, cari minatori. Il vostro ritorno ci richiama alla via della fede e della speranza, del cameratismo e della solidarietà, di un amore concreto da costruire di nuovo ogni giorno.

E noi con voi ci rimettiamo in cammino.

  Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

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