GUARDARE AL FUTURO DELLA VITA RELIGIOSA

Posted by usmionline
gen 28 2011

Alla luce di questo impegnativo tema, ho condiviso con le sorelle dell’USMI diocesana di Roma  alcune riflessioni sulla nostra vita di donne consacrate che oggi più che mai vogliono ritmare i passi della loro quotidianità consacrata a volte faticosa, pesante e deludente sulle corde della speranza per cantare la vita ovunque e in modo particolare là dove è maggiormente calpestata, negata o distrutta.

Ripropongo la stessa riflessione sul web oggi 2 febbraio, giornata in cui a livello mondiale si prega per tutti i consacrati: tutti coloro che, attratti e affascinati dalla persona di Gesù, lo hanno seguito perchè hanno visto in Lui la pinezza della vita.

Dedico la stessa riflessione a tutti coloro che sono alla ricerca del volto del Signore perchè come la donna emorroissa, la donna samaritana, Maria di Magdala, Lidia  e molte altre donne possano incontrare Gesù,  Colui che davvero riempie il cuore, lo rende libero e capace di dono.   

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Guardare al futuro della vita religiosa

Il tema ci orienta a guardare alla vita religiosa femminile nella sua dinamica di cammino e di impegno nel presente della storia per un futuro realistico, audace e abitato dalla speranza. La speranza è infatti una dimensione essenziale e portante della profezia della vita religiosa, missione iscritta nella sua identità più profonda.

Voglio contemplare per alcuni istanti il volto della vita religiosa femminile riflesso sul volto di una icona evangelica che potrebbe risultare strana di primo acchito, ma che da un po’ di tempo non smette di interpellarmi.

La donna emorroissa.  Vangelo di Marco cap. 5, 25-34.

Seguo rispettosamente con lo sguardo la povera donna che perde sangue da 12 anni. Un’ansia profonda la spinge a passare da un medico all’altro cercando una soluzione al suo grave problema. Sì, è un problema che la penalizza nella sua identità di donna e nella sua dignità umana. Dodici anni sono un tempo troppo lungo per il suo calvario; esso pesa sulle sue relazioni tanto da condizionarne in maniera evidente il comportamento. Perde sangue! Nella cultura del suo popolo ciò significa perdita della vita. La donna il cui fisico è fatto per gestire e far crescere la vita, vede invece la vita uscire, andarsene portandosi le forze della fecondità e lasciandola prostrata, sola, ai margini.

Il mio sguardo si sposta quasi naturalmente da questa icona alla storia di tante donne, a noi religiose, alle nostre Congregazioni, in questo tempo fortemente caratterizzato da cambiamenti valoriali che intaccano persino i livelli strutturali delle nostre società di provenienza.

Mi chiedo: non sta forse accadendo qualcosa di simile anche a noi? Siamo spesso incerte e confuse per un presente annebbiato in cui tutto diventa relativo, siamo disorientate per un futuro che sembra non avere una chiara direzione, abbiamo la sensazione che la nostra identità si vada frantumando scontrandosi con le emergenze di vario genere. Cerchiamo soluzioni,  forse passando da un “medico” all’altro, e forse anche incolliamo toppe su un passato e un presente a cui amiamo rimanere aggrappate e non sempre per fedeltà all’intuizione originaria dei nostri fondatori. Stiamo cercando affannosamente, e a volte soffrendo molto, ma…che cosa? Stiamo investendo molte energie; ma… per che cosa?

 “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando…” (Mc. 5,26).

Per la donna emorroissa il lungo tempo della malattia fisica, culturale e morale ha contribuito ad indebolire le sue forze, soprattutto la sua forza generativa, molto probabilmente la sua malattia nasconde anche  una vena di anoressia. E non credo di cadere nella forzatura.

Per l’emorroissa non c’erano molte prospettive di futuro; aveva speso tutti i suoi averi ed era peggiorata. Si ritrovava isolata con una sensazione molto brutta. Il permanere a lungo nella malattia l’avrebbe portata poco a poco alla morte.

Noi sappiamo che il fenomeno fisico anoressico ha quasi sempre radici affettivo/spirituali e, dapprima senza avvertirlo poi in maniera consapevole conduce al rifiuto di ogni nutrimento. Non curata in tempo e con i giusti mezzi porta lentamente alla morte prima spirituale, poi fisica.

Ho una sensazione strana che mi fa chiedere se, qua e là, questa malattia non stia intaccando anche i nostri ambienti. Dove? Come? Non è semplice individuarla  e definirla perché la sua insidiosità molto spesso la rende irriconoscibile.

Mi pongo però alcune domande: Individualismo e orizzontalismo non stanno minacciando alla radice il senso della nostra vita fraterna in comunità? Non stanno dicotomizzando sempre di più il nostro vissuto tra fede e vita, tra privato e comunitario, ecc?  E’ possibile una vita religiosa, quando esclude o emargina dalla mente, dal cuore e ancora più dalla sua azione la fede? Può essere il solo criterio psico/sociologico a fondare la nostra missione?  

Una delle cause più forti che spinge l’emorroissa ad errare tra molti medici è l’emarginazione dal suo popolo. Non può infatti essere toccata o toccare perché contamina. La sua è una cultura che non libera ma condiziona, le inculca la vergogna per una malattia tabù, la opprime in maniera insopportabile. In una parola è una persona sradicata, divelta dalle sue radici, dalla sua identità più vera.

“Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv. 15,4).

Le conseguenze del suo girovagare?  Il vangelo di Luca parla anche di una donna curva tenuta così da una lunga malattia  (Lc.13,11-13).

 La malattia tiene curvi. Chi è curvo guarda per terra. Gli orizzonti sono molto ridotti, limitati e angusti. Non c’è futuro, tutto finisce lì. Inoltre chi è curvo vede la realtà un pezzetto alla volta, gli manca quindi la lungimiranza, la possibilità di una creatività. Quanto più rimane curvo tanto più il suo cammino diventa incerto e potrebbe essere assalito da paure di varia natura e poi dalla vergogna di essere così, di essere visto, notato, di entrare in rapporto con gli altri. L’icona dell‘emorroissa ci offre molti stimoli per la riflessione e la ringraziamo!

Qualcuno però aveva deciso un appuntamento con lei.

“Sentì che Gesù passava di là……e venne in mezzo alla folla, dicendo tra sé…anche se solo potrò toccare il lembo del suo mantello…” (Mc.5,25-27).

La bella notizia è che la malattia non aveva distrutto in lei: il desiderio della guarigione, di essere se stessa, di ritrovare la sua identità e libertà. Ma ridotta in quelle condizioni, da dove poteva sorgere in lei il desiderio di toccare Gesù? 

Una domanda sempre aperta

 “ Che cosa sta dicendo oggi il Signore alla vita religiosa?

Può sembrare una domanda scontata, ma non è così, in un tempo in cui profonde trasformazioni  funzionali e anche strutturali di molti micro o macro sistemi organizzativi, stanno precipitando il nostro pianeta nella nebbia più fitta e nella confusione più totale, si avverte il malessere della mancanza di punti di riferimento capaci di indicare percorsi in cui l’uomo e la donna del nostro tempo possano almeno decidere se percorrerli o no.

E’ dunque notte, la “grande notte nella nostra società post moderna che dilapida a volte molto disinvoltamente il patrimonio di valori fondanti e vive danzando irresponsabile sull’orlo dell’abisso ecologico, finanziario, culturale, antropologico”(1).

La vita religiosa non è un giardino protetto, inviolabile, esente da qualsiasi influenza o influssi disorientanti e devastanti. Sembra sia notte anche per la vita consacrata, ma con una differenza.

Benché ogni giorno essa faccia esperienza della fragilità e della vulnerabilità, essa porta dentro di sé, quale vaso di argilla, un tesoro, un’acqua pura e fresca  che zampilla e scorre  anche quando è notte. (cfr. Giovanni della Croce)

Questa è la consapevolezza a cui è chiamata oggi la vita consacrata.

Il dono è dato, ma va riscoperto perché nella misura in cui la vita consacrata saprà vivere e far risplendere la sua vera identità, che è quella della mistica e della profezia, porterà nel mondo una presenza di speranza.

L’esperienza di Paolo ci dice: <Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla>. Se guardiamo soltanto al vaso d’argilla che siamo noi, c’è proprio da scoraggiarsi. Ciò che vale, e su cui dobbiamo volgere tutta l’attenzione, è il tesoro che portiamo dentro!

Paolo sperimentava la sua debolezza di fronte alla missione affidatagli, ma sapeva che il suo vaso d’argilla era inabitato dalla luce di Cristo: era Cristo stesso a vivere in lui e questo gli dava l’audacia di esporsi per il vangelo. Anche noi possiamo sperimentare il tesoro infinito che portiamo dentro: è la Trinità. “Mi guardo dentro e scopro come una voragine d’amore, come un abisso, come l’immenso, come un sole divino dentro di me. (S. Caterina da Siena).

Guardandomi attorno scorgo anche negli altri, al di là del loro vaso di creta, il tesoro che li inabita. «Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla»

 “Nell’incontro con Dio, la vita consacrata abita la fonte di un amore che si fa contemporaneamente dono e servizio al prossimo e da qui si sente sospinta sia verso la dignità della persona tanto spesso disprezzata, per servirla, sia verso il Dio dell’amore e della misericordia” per vivere la consegna di sé (2). La dimensione mistica e quella profetica, lo ripetiamo, non possono essere separate.

Questo stile e forma di  vita spingono la vita religiosa ad abitare quotidianamente quelli che potremmo definire come i nuovi areopaghi della mistica e della profezia:

- La fede, vissuta a volte “alle intemperie” soprattutto in Europa. La vita consacrata nasce e si alimenta nella fede come adesione piena a Dio. Non c’è fecondità in un annuncio che non nasca dalla familiarità con Dio.

- La Parola di Dio, alimento essenziale della fede. Diviene una condizione importante quindi mettere al centro della vita la Sacra Scrittura per leggerla, pregarla, meditarla, condividerla (3).

- L’esperienza di Dio “nel bel mezzo della vita”; ciò significa riconoscerlo e incontrarlo là dove ogni giorno Lui si fa presente: nel povero, nel piccolo, nel malato, dell’ignorante, insomma  in ogni dolore ed in ogni gioia umana.

“Ora capisco il comandamento di amare Dio con tutta la tua anima. Se Dio prende la tua anima tu lo amerai…e, nella misura in cui noi saremo capaci di vedere l’ immagine di Dio in una porzione sempre più ampia di umanità, ci apriremo sempre di più alla presenza di Dio. Vedere Dio in ogni essere umano non è un compito facile. Potremmo passare la vita intera e non avere ancora raggiunto la perfezione di quest’arte, ma vi chiedo di unirvi a me in questo compito”(4).

- La testimonianza. L’uomo di oggi, ha bisogno e crede di più ai testimoni che ai maestri, cerca la testimonianza di vite che siano accanto a lui quali “presenza trasfigurante di Dio” (5).

- La famiglia, essere casa con le porte aperte, soprattutto quelle del cuore dove chi entra possa sentirsi accolto e ascoltato, possa sentirsi persona e l’incontro sia prima di tutto un evento umanizzante in una società che invece tecnicizza, virtualizza e di conseguenza  disumanizza sempre di più le comunicazioni e le relazioni tra gli esseri umani.

- L’umanizzazione a partire dal coraggio della tenerezza, senza la paura di mettersi dalla parte di chi è emarginato o separato, con la saggezza di piccoli, forse deboli, ma sempre concreti gesti di amore, di accoglienza, di fiducia. Il segno del Regno di Dio è il granellino di senapa: seme della carità che si coltiva in un “cuore che vede”, che si accorge e che irresistibilmente agisce.(6)

L’umanizzazione passa anche attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che viviamo, una povertà che si lascia incontrare come la samaritana al pozzo di Sicar e diviene un’audace presenza di speranza per quelli che abitano la città. “Venite a vedere uno che mi ha detto tutta la verità”. (7)

Abbiamo bisogno di molta povertà per poter riconoscere e accogliere le sfide della missione oggi, sfide che comunque si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Il futuro della vita religiosa femminile passa attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che sta vivendo, una povertà però che si lasci incontrare  come la donna emorroissa che, grazie all’incontro, diviene un’audace presenza di speranza per la folla che la circonda.

L’audacia della debolezza accolta diviene forza per la missione.

Enzo Bianchi parlando della vita religiosa oggi ripete spesso che essa è “povera ma non decadente”. E’ un’affermazione che stimola a non cadere nella tentazione del ripiegamento su noi stesse tanto più vicina di quanto non lo percepiamo.

Oggi è necessaria molta povertà per  poter accogliere le sfide della missione, della interculturalità e della intercongregazionalità, vie che si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Di questo sono molto convinta.

Ci possiamo allora chiedere:

La vita consacrata femminile avrà il coraggio di riconoscere e accogliere la sua povertà perché questa si trasformi come per Abramo in una notte di promessa di fecondità così grande e numerosa come le stelle nel cielo che tanto più brillano quanto più la notte è oscura e tanto son numerose da non poterle contare? Sarà così lucida da affidarsi alla promessa fino al punto di sentire il gorgoglìo della fonte che scorre, irrora e continua la sua azione fecondatrice lungo tutta la sua notte,  radicando tutte le sue energie nella speranza che crede che Dio non viene mai meno  alle sue promesse?

In concreto si tratta di percorrere con audacia un cammino che porti al cuore della identità mistica e profetica della vita religiosa e questo cammino è lungo.

C’è un’altra figura di donna che ci può aiutare a guardare alla vita religiosa con realismo e audacia e questa è Lidia, la incontriamo nel libro degli Atti degli apostoli.

L’ invito di Lidia (Atti 16)

La rilettura contemplativa e teologica della storia della conversione  di Lidia (cfr. Atti 16,11-15.40) ci offre  intuizioni meravigliose per comprendere l’urgenza di un cammino di conversione per la nostra vita di donne consacrate, cammino che inizia  sempre come un momento gratuito di incontro con Qualcuno che cambia l’ orientamento della nostra vita. Momento/evento che non inizia e termina in uno spazio definito di tempo e di luogo, ma che diviene processo di trasformazione che dura tutta la vita e che passa attraverso fasi ben individuabili:

- L’ oscurità e la confusione accompagnate dalla consapevolezza di un vuoto che ricerca la pienezza, di una sete che vuole essere estinta, di molte domande che richiedono risposte vere. “IL tuo volto Signore io cerco, mostrami il tuo volto” ( Salmo 26). Quante domande si sta ponendo oggi la vita religiosa, e in tutti gli ambiti, da quello spirituale a quello delle opere. Ma sembra che la notte sia veramente lunga.

Lidia stava fuori della porta della città con alcune donne riunite per la preghiera.  

- Il risveglio: inizia quando il tocco di Dio suscita il desiderio, prepara all’ascolto e all’accoglienza della Parola.

Lidia, come credente in Dio aveva preparato il suo cuore all’ascolto.

“ C’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore  per aderire alle parole di Paolo” (Atti 16,14).

C’è un grido che sale dall’umanità di oggi. Esso interpella fortemente la vita religiosa. Ma lo sappiamo distinguere per cogliere in esso la parola che chiama noi, proprio noi e aderirvi?

Ancora Enzo Bianchi afferma che è urgente coltivare la capacità di lasciarci intercettare da questo appello come lo furono i nostri fondatori.

- L’azione profetica, liberazione dello slancio incontenibile della fede accolta, fuoco di carità che brucia nel cuore e diviene contagiosa fantasia di gesti concreti di misericordia e di accoglienza per ogni fragilità umana. “Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa” (Atti 16, 15). 

- La quiete, sperimentata come esigenza di intimità e di ascolto in cui si sviluppa l’amicizia con Dio e si inizia a conoscere e ad assumere i suoi punti di vista e la fede come dono del suo amore;  tempo in cui si matura la vittoria contro ogni resistenza alla predicazione. “Usciti dalla prigione, si recarono a casa di Lidia dove, incontrati i fratelli , li esortarono e poi partirono” (Atti 16,40).

- L’integrazione, fase necessaria per permettere alla persona di focalizzarsi sempre di più sulla Parola di Dio, sull’annuncio del Regno, nelle situazioni particolari della vita che si trova a vivere.

Negli Atti degli apostoli non si parla più di Lidia dopo la partenza di Paolo, ma il semplice fatto che la chiesa di Filippi è cresciuta ci testimonia la profondità della sua conversione e del suo impegno a continuare la missione di Cristo.

Lidia interpella il cristianesimo e in modo particolare la vita religiosa di oggi che, a volte travolta da affanni produttivi/economici rischia di trascurare la sua dimensione mistica cadendo nella stanchezza di una vita abitudinaria e non più guidata dal soffio dello Spirito a servire secondo il cuore di Dio e le sue prospettive.  Per questo, alla luce del cammino di Lidia si impongono alla vita religiosa femminile forti domande:

Come Lidia e la sua comunità di fede, quale parola guaritrice abbiamo bisogno di ascoltare oggi per essere fedeli alla nostra vocazione e a noi stesse? Che cosa impedisce il risveglio nelle nostre comunità? E, se dovessimo  aprire il nostro cuore e la nostra casa come ha fatto Lidia, chi inviteremmo a stare con noi? Quale chiamata ci spinge oggi ad illuminare di luce profetica le situazioni di oscurità e ad abitare con coraggio nuovi orizzonti là dove siamo?

Luci profetiche per il mondo

Non possiamo rimanere inerti perché, secondo la saggezza africana, “anche se la notte è lunga, il giorno arriva sempre”. In un mondo oscurato da tragedie senza confini, guerre distruttrici, violenze di ogni tipo e dal disprezzo dei diritti umani, la vita religiosa si sente sfidata ad inventare nuovi percorsi e nuove capacità per mantenere acceso il fuoco di Dio, ma soprattutto per abbracciare il mondo in modo profondo e nuovo, per essere presenti con la tenerezza di madri, con il coraggio anche della denuncia come i profeti là dove i nostri fratelli e le nostre sorelle feriti gridano.(8)

Liberata da strutture pesanti e da legalismi soffocanti, la vita religiosa femminile può generare donne, sorelle e madri che  percorrono sollecite le strade del mondo e della storia. In loro si può intravedere il volto della samaritana al pozzo che, incontrata da Gesù, riacquista insieme alla sua vera identità e libertà anche il coraggio dell’annuncio, oppure la mano del buon samaritano che si fa prossimo per chi è disprezzato, oltraggiato, ferito, percosso, gettato ai margini dell’umanità dove, se ti guardi attorno, incontri solo disperazione e abbandono, dove è scomodo andare, dove esiste il rischio concreto di pagare con la vita un gesto di amore; o il volto dell’emorroissa pacificata dal tocco liberatore del profeta,  e infine il volto di Maria di Magdala, che rigenerata nel profondo, lascia che il suo amore possessivo sia trasformato in irresistibile e gratuito annuncio della speranza pasquale fino ai confini del mondo, fino a noi: Cristo mia speranza è risorto! Sì, è veramente risorto, io l’ho incontrato. (cfr.Gv.20,18)

Il Concilio Vaticano II, quarantacinque anni fa, aveva esortato la vita consacrata a ritornare alle sue origini fondazionali e carismatiche per ritrovare la freschezza del primo amore, l’autentico spirito di carità e di missionarietà dei fondatori, dei primi fratelli e sorelle, la passione per Dio e per l’umanità che aveva reso i fondatori icone viventi dell’amore di Dio in mezzo al suo popolo.

L’invito di ritornare alle origini si fa sempre più incalzante oggi. Non può essere facoltativo ciò che ha il sapore di una urgenza e di una sfida.

Non si tratta di ritornare indietro o di rimpiangere i tempi passati che non torneranno più, ma piuttosto di guardare al futuro, radicate  alle nostre antiche radici, ma sempre servitrici del progetto di Dio per l’uomo e la donna del nostro tempo.

“Noi abbiamo, nella memoria ereditata, un alto tasso di mistica e profezia: tocca a noi oggi rimettere in gioco questa eredità”. E la dobbiamo rimettere in gioco nel quotidiano, con una perseveranza che affronta umilmente, ma decisamente, anche le resistenze più dure, con la gratuità che sbriciola la logica degli interessi di mercato, con l’amore che muove “mani e cuore  di madre” e, come i “rami di mandorlo” mantengono accesa la speranza nel nostro mondo pesantemente avvolto da una selva di “pentole bollenti” che rovesciano rovina e devastazioni su popoli e nazioni. (9)

Guardando al futuro:

In comunione con le 800 superiore generali che nel maggio 2010 si sono riunite a Roma in Assemblea plenaria, anche noi religiose italiane crediamo che il futuro della vita religiosa femminile  è nella forza della sua mistica e della sua profezia e ci impegniamo pertanto a:

 “ -  Individuare con audacia le “notti” della Chiesa, della società e delle rispettive Congregazioni.

   -  Scoprire le scintille di luce racchiuse nel cuore della violenza, della povertà e del non senso.

   -  Aprire gli occhi per scoprire nuovi sentieri di luce nelle tenebre del nostro mondo: la situazione precaria delle donne, il disagio esistenziale di molti giovani, le conseguenze delle guerre e delle catastrofi naturali, l’estrema povertà che genera la violenza …

  -   Offrire, come donne consacrate, un ministero di compassione e di guarigione.

  -  Lavorare in rete, a livello locale e globale, con le altre congregazioni e con i laici, per la realizzazione di diversi progetti e per la trasformazione delle strutture ingiuste.

  -   Superare i confini dei nostri rispettivi carismi e unirci per offrire al mondo una parola mistica e profetica.

  -   Dialogare nella verità con la Chiesa, a tutti i livelli della sua gerarchia, per un più

ampio riconoscimento del ruolo della donna.

Maria ci aiuti a, rimanere sveglie e vigilanti, in costante ricerca della Fonte che continuamente scorre, nella certezza che Essa si lascia trovare anche se è notte”.(10)

 

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 (1)   (cfr.B. Secondin, Il  ramo di mandorlo e la pentola bollente).

(2 )   ( Ciro Garcìa, uno stile di vita e i nuovi areopaghi).

(3)   (cfr. Sinodo dei Vescovi , 2008).

(4)    (Rabbi Arthur Green, Una teologia dell’empatia).

(5)   (Benedetto XVI,: Alla Plenaria UISG 2007).

(6)    (cfr. Deu Caritas Est n.31).

(7)   ( Judette Gallares, Aprire il cuore all’ascolto)

(8)    ( Liliane Sweko: chiamate ad illuminare di luce profetica le tenebre del mondo).

(9)    ( cfr. B.Secondin : il mandorlo e la pentola bollente).

(10)  ( Dichiarazione finale della Plenaria).  

 Sr M. Viviana Ballarin o.p.

Presidente Nazionale USMI

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