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Verbum Domini – Esortazione post-sinodale sulla Parola di Dio

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nov 19 2010

Il più importante documento della Chiesa sulle Sacre Scritture, dopo la Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

Pubblicato l’11 novembre 2010, a due anni dal Sinodo dei vescovi dedicato a La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, quando «forse c’era un po’ di polvere intorno alla Parola e bisognava rimetterla al centro» (G. Ravasi).

 Obiettivi dell’esortazione

Sono:

  • comunicare i risultati dell’Assemblea sinodale del 2008;
  • riscoprire la centralità della Parola nella vita personale e della Chiesa; e, nello stesso tempo, sentire l’urgenza e la bellezza di annunciarla;
  • promuovere l’animazione biblica della pastorale;
  • essere testimoni della Parola e intraprendere una nuova evangelizzazione.

Nelle sue quasi 200 pagine si percepisce la mano ferma, semplice e profonda del teologo Ratzinger, definito da qualcuno Papa della Parola di Dio. Egli vi sintetizza gli interventi dei Padri sinodali e li illumina con aspetti chiave del suo magistero. Ne viene un trattato che è come una cattedrale della Parola di Dio, con meravigliose vetrate aperte sul mondo. Un trattato complesso, ma fruibile da tutti; capace di rinnovare la vita dei cristiani a partire da una maggiore familiarità, conoscenza, lettura e preghiera della Parola.

Il contenuto

Il documento è suddiviso in tre parti secondo la struttura del tema dell’assise sinodale: Verbum DeiVerbum in EcclesiaVerbum mundo, racchiuse da una Introduzione che ne indica gli scopi e una Conclusione che ne sintetizza le idee portanti. Il testo si apre e si conclude con la parola ‘gioia’, particolarmente allusiva al bisogno fondamentale dell’uomo nei giorni cupi in cui viviamo.

Verbum Dei

In questa sezione viene sottolineata la dimensione trinitaria della rivelazione. La Parola di Dio non è parola scritta e muta, ma si comunica nell’universo creato, fonda la bellezza e dignità di tutto ciò che esiste e la grande sete di assoluto che è nel cuore degli uomini. E’ -novità inaudita e umanamente inconcepibile- una Persona -Gesù Cristo- che comunica con la sua vita la stessa vita di Dio, fino al silenzio della croce e alla resurrezione.

Verbum in Ecclesia

L’esortazione spiega la vitalità della Parola nella vita della Chiesa. Ne rileva la fecondità nella liturgia della Parola, nell’Eucaristia, nella preghiera dei Salmi, nella meditazione, nel silenzio come modalità di incontro fra ciò che Dio dice all’uomo e ciò che questi dice a Dio. Chiede una maggior cura della proclamazione della Parola ad opera di lettori idonei e preparati con impegno. Parla del lettorato alle donne, richiama a migliorare la qualità delle omelie e a scegliere canti di chiara ispirazione biblica. Benedetto XVI ricorda l’importanza del canto gregoriano; dà suggerimenti sull’architettura delle Chiese, sulla struttura dell’altare e dell’ambone. Evidenzia il contributo del ‘genio femminile’ negli studi biblici e il ruolo indispensabile delle donne nella famiglia, nell’educazione, nella catechesi e nella trasmissione dei valori.

Verbum mundo

I cristiani sono destinatari, ma anche annunciatori della Parola. Non possiamo «tenere per noi le parole di vita eterna che ci sono date nell’incontro con Cristo». Esse «sono per tutti, per ogni uomo. Ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio». «In un mondo che spesso sente Dio come superfluo o estraneo -afferma Benedetto XVI- non esiste priorità più grande di questa: riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, che parla e interviene nella storia a favore dell’uomo».

Questo significa cogliere il legame che c’è fra l’ascolto della Parola e la salvaguardia del Creato, la denuncia senza ambiguità delle ingiustizie, la promozione della solidarietà e dell’uguaglianza. Significa, in sintesi, impegnarsi a  rinnovare in sé e nel nostro tempo l’incontro tra la Bibbia e le culture. A noi la responsabilità di trasmettere quello che a nostra volta, per grazia, abbiamo ricevuto; di «continuare a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a rischio della persecuzione», senza cessare di «alzare la nostra voce perché i governi delle Nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione» e anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente. I pastori in particolare sono chiamati ad un annuncio chiaro ai giovani, ai migranti, ai sofferenti e ai poveri, che la Chiesa non può deludere. Sono chiamati ad ascoltarli, ad imparare da essi, a guidarli nella loro fede e a motivarli ad essere artefici della propria storia.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

L’Amazzonia ferita e l’utopia possibile

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nov 04 2010

Gli Indios plasmano e toccano continuamente la loro terra. Con saggezza la curano perché sanno che in essa è raccolto sicuramente non solo il loro presente e futuro, ma soprattutto quello del pianeta e dell’intera umanità. Noi abbiamo bisogno di loro per una reciprocità più o meno consapevole esistente fra noi: la foresta, elemento vitale ed essenziale alla sopravvivenza di tutti, non esiste senza gli indigeni.

Nella foresta le cose possono parlare

Abitano una natura selvaggia, rude e imponente, in cui è racchiusa la bellezza della diversità, il fascino dell’unità, la perfezione della stessa natura. Vivono in gruppi ridotti, di tipo tribale. Occupano aree molto vaste e attualmente diminuiscono continuamente di numero, perché si sta riducendo l’estensione degli ambienti primordiali che costituiscono la loro patria. All’epoca del caucciù -l’Ottocento- è seguita, infatti, nelle loro terre, l’epoca dei cercatori d’oro. Poi sono arrivati i trafficanti di terreni. E ancora i raccoglitori di noci, e poi i cercatori di legni pregiati, di minerali… Così fino ad oggi. L’uomo bianco cerca di usare l’indio solo per produrre, far produrre e far funzionare il suo sistema capitalistico. Se la sua ricerca di risorse implica inganno, inquinamento, malattie, morte, distruzione… tutto questo non sembra riguardarlo. Le vittime in fondo sono ‘solo’ gli Indios (che egli considera ‘minori, incapaci, pericolosi, superstiziosi…’) e la loro Terra.

Il Perù dei piccoli sfida i giganti del petrolio’, leggiamo su Avvenire del 28 ottobre 2010. I nativi affrontano come possono la sfida dell’uomo bianco per difendere i loro diritti ancestrali. Non cedono. Mantengono le loro feste, danze, celebrazioni come mezzi per ricreare il loro soggetto collettivo e continuare a essere i popoli che desiderano essere. Resistono ballando. Ma fino a quando?

Intanto nel nostro Occidente, insieme alla tecnologia che scandisce i tempi e ai progressi scientifici considerati ovvi e scontati, i valori spirituali e prima di tutti il valore della verità e dell’amore, cedono il passo all’ingordigia, all’avidità, all’ansia di possesso senza limiti. E i rapporti umani rischiano di impoverirsi sempre più.

Amazzonia: una diversa prospettiva

Il 6 ottobre 2010, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani in Senato, si è svolta la presentazione del volume ‘Amazzonia una diversa prospettiva: lasciamoci educare dagli Indios’, a cura della onlus Impegnarsi Serve. Nell’incontro – a cui hanno partecipato fra gli altri: l’on. Beppe Fioroni, mons. Roque Paloschi vescovo di Roraima, la professoressa Giuliana Martirani e padre Giordano Rigamonti – è stata sottolineata la necessità di «guardare con gli occhi degli Indios le cose che noi non riusciamo più a vedere». «Ci misuriamo infatti -ha detto l’on. Fioroni- su ciò che abbiamo e non per ciò che siamo. Ma un altro mondo è possibile per dare senso alla nostra vita. Bisogna però creare un nuovo modello di sviluppo». Ed ha concluso:«Qualcosa di diverso si può non solo predicare, ma anche realizzare».

Lasciamoci educare dagli Indios

L’Amazzonia in realtà è per noi come uno specchio, capace di riflettere debolezze, di smorzare presunzioni. Gli Indios sono un richiamo a quella umanità, forse sopita in noi, che ha bisogno di tornare a credere nella finitezza dell’uomo. «Siete troppo impegnati ad esistere e dimenticate l’essere» ha detto mons. Roque Paloschi. Gli Indios invece vivono semplicemente l’essere parte di un ecosistema, che conosce tempi e condizioni non imposte dall’uomo. La povertà e la sobrietà fanno sperimentare loro la bellezza delle cose, l’attenzione all’altro e all’Altro. Sanno che il Signore li ha posti in questo mondo perché ne avessero cura, non per distruggerlo. L’anziano tra loro è un valore aggiunto irrinunciabile, testimone nella staffetta generazionale: custode della memoria e della cultura e anello fondamentale tra passato e futuro, per cui non sarebbe mai emarginato. Tra loro non esiste la privacy, ma il loro modo di vivere la comunità a 360 gradi non è invadente, si basa su regole ben precise che comunque fanno sempre riferimento alla condivisione. Gli Indios hanno un concetto di ospitalità profondo e ben radicato.

I missionari, che condividono con le popolazioni indigene il rapporto fra cielo, terra e sottosuolo, sono amati e accolti. Per tutti questi motivi e per mille altri è importante riuscire a vedere e ascoltare la loro vita. Lasciare che la sapienza da cui essa è animata diventi un richiamo a comprendere dove sta veramente la persona e i suoi bisogni e a riscoprire la capacità relazionale che è dentro ogni uomo. Una bussola, insomma, che orienti a ritrovare lo spazio mentale per sognare per noi e per gli altri; ad investire capitali, talenti e speranze su un modello di sviluppo che nelle concrete circostanze della vita si ispiri al Vangelo.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Quei “33″ come una parte di noi

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ott 15 2010

Uno dopo l’altro vengono alla luce, e nascono di nuovo.

Arrivano sulla terra uno ad uno, i trentatrè uomini minatores imprigionati nelle viscere di San Josè in Cile dal giorno in cui le rocce che essi dovevano scavare sono crollate. Astronauti al contrario, dopo 68 giorni di prigionia a 700 metri dentro il cuore di Madre Terra. Sotto e sopra le dune dell’Atacama, il deserto più arido del mondo.

E nel loro passaggio dal buio alla luce, un senso di liberazione e di felicità finalmente prende tutti, da un capo all’altro del mondo. Lacrime di gioia spazzano via il reality show organizzato dai grandi mass media e dal governo di Sebastían Piñera, in prima fila a ricevere con un lungo abbraccio ciascuno dei protagonisti che tornavano alla luce.

Tutto dipende dalla prospettiva, dice un motto popolare in Cile. Da un lato, la stragrande maggioranza dei cileni versa lacrime per quegli uomini divenuti simbolo di un modello economico che li usa come risorsa, anziché considerarli persone. Dall’altro, il presidente Piñera, simbolo del potere pubblico e dello spazio politico, trasforma gli sconosciuti in celebrità, portandoli via dalla loro nuda vita. Egli, attraverso lo sforzo del governo per salvarli, offre la sensazione di qualcuno che si preoccupa per l’altro, mentre tenta di rappresentare la cinghia di trasmissione con una società abituata allo stress lavorativo e alle divisioni.

«Non sono una star»

I minatori ringraziano tutti e chiedono: «Non trattateci come star dello spettacolo o come giornalisti. Siamo solo minatori». È  quello che, giustamente, chiedono anche milioni di cileni attraverso facebook e twitter. «Sono super contento di vivere questo momento» dice Mario Sepulveda, elettricista, 39 anni, diventato famoso in tutto il mondo come l’animatore dei filmini inviati in superficie. Abbraccia la sua famiglia gridando «Viva il Cile» e subito aggiunge: «Però questo Paese deve capire che il mondo del lavoro ha bisogno di  molti cambiamenti. Nessuno deve scordare che questa esperienza deve servire ai dirigenti del nostro paese per cambiare le condizioni lavorative» che hanno originato il dramma.

Ora il Paese inizia un periodo di riflessione sulla vicenda per non dimenticare le cause dell’incidente e affrontare seriamente il problema della scarsa sicurezza sul lavoro. In molti attendono il “Rapporto sulla sicurezza nel lavoro” che dovrebbe arrivare entro un paio di settimane.

Aggrappati alla mano di Dio

Le statistiche dicono che se di lavoro si vive, purtroppo di lavoro si muore, ancora oggi, ogni giorno. Anche nella nostra Italia. Ma il mondo sembra immerso nell’ottavo vizio capitale dell’indifferenza (come lo definisce don Gallo) e la cosa non fa molta audience. Intorno alla miniera cilena invece si è creata una grande partecipazione e anche una preghiera, che non si erano viste in disgrazie ben più grandi come quella del terremoto verificatosi nello stesso Cile!

Il fatto è che “I 33″ minatori, rimasti imprigionati sul fondo di un’umida e calda miniera alla temperatura di 36 gradi e già dati per morti, erano vivi e decisi a vivere, per la speranza che respirava in loro. E alla speranza – si sa – gli uomini sono radicalmente, originariamente legati.

Ad uno sguardo immediato infatti vivere appare come un inesorabile essere «gettati verso la morte», un lungo viaggio verso le tenebre che aspettano ognuno -prima o poi- come l’ultima sponda, l’assoluto silenzio. E per questo la vita è impastata di dolore. Con gli anni sentiamo crescere in noi la segreta indicibile ansia -di cui normalmente si tace- di potere in qualche modo rinascere ‘altri’, trasformati.

Devono farcela. Ha pregato il Papa, e Obama, e i minatori sardi. E prima ancora le famiglie e gli amici, i cileni. E tutti siamo stati a guardare. Con loro in attesa di nascere. «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi, e ha vinto Dio: mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che mi avrebbe tirato fuori di là», ha raccontato un minatore. E alla fine: «Io vorrei risalire per ultimo, per favore», ha detto uno. E allora un altro: «No, amico mio, ho detto io che sarei stato ultimo». «No, no, davvero, io voglio andare per ultimo, ha cominciato allora a dire un altro». E la loro storia di paura e di lacrime è diventata ancora storia di vita. L’attesa si scioglie in un abbraccio. E con ogni uomo che risale in superficie, rinasce una famiglia di gente umile che piange di gioia.

Storia di vita

 “I 33” sono realmente diventati un gruppo, uno per tutti, tutti per uno: «Abbiamo formato una meravigliosa famiglia con persone che fino a due mesi fa neanche conoscevamo».

E’ splendido anche ritrovarsi attesi e amati. Gli 800 parenti e i soccorritori rimasti per tanto tempo a Camp Hope, vicino alla miniera, tutti sono sicuri di una cosa. I legami e le amicizie nate nella disperazione e poi alimentate dalla speranza non finiranno qui.

La lezione è per tutti e per ogni persona: l’empatia dell’uno per l’altro, per ogni altro nessuno escluso, avvia a quella solidarietà che trascende qualsiasi discorso politico.

Bentornati alla luce e alla vita, cari minatori. Il vostro ritorno ci richiama alla via della fede e della speranza, del cameratismo e della solidarietà, di un amore concreto da costruire di nuovo ogni giorno.

E noi con voi ci rimettiamo in cammino.

  Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

Verso il Sinodo per il Medio Oriente

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ott 04 2010

Fra qualche giorno (il 10 di ottobre 2010), si aprirà a Roma l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, sul tema “La Chiesa cattolica in Medio Oriente: comunione e testimonianza”. Ci sentiamo coinvolti in modo particolare in questo evento perché profondamente legati alle radici cristiane antiche di quelle terre (Iraq, Libano, Palestina, Turchia…), alla storia di fede e al cammino difficile e coraggioso delle minoranze cristiane che qui vivono oggi in un clima di grave discriminazione.

L’obiettivo di questa Assemblea speciale è duplice: confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità attraverso la Parola di Dio e i sacramenti, e far rivivere la comunione ecclesiale tra le Chiese particolari in modo che possano offrire un’autentica testimonianza cristiana, a contatto  con le altre Chiese e comunità. «E’ sempre vero che il primo passo nel diventare cristiani si fonda nell’incontro con uomini che vivono da cristiani convinti», ricordava monsignor Luigi Padovese, vero uomo del dialogo che aveva saputo costruire ottimi rapporti con le chiese ortodosse, con gli ebrei e con i musulmani.

Chicco di grano per la speranza di una Chiesa

«Vero discepolo di Cristo, anch’egli ha dato il suo corpo e ha stretto un’alleanza nel suo sangue, offrendo tutto se stesso per l’annuncio del Vangelo e per la vita di coloro che gli erano stati affidati. Nell’esistenza di questo nostro fratello e padre si è realizzata la Parola di Gesù che ha paragonato la vittoria della sua Pasqua al mistero del seme che porta frutto nel suo morire», rifletteva il Card. Dionigi Tettamanzi il 14 giugno 2010 nell’omelia delle esequie del Vescovo ucciso in terra di Turchia.

Particolarmente oggi, in epoca di pluralismo, è necessario ravvivare la consapevolezza che la testimonianza fonda e precede l’annuncio e anzi è il primo annuncio. Mons. Padovese e don Andrea Santoro e tanti altri che hanno versato il proprio sangue a testimoniare l’ostinata fiducia nel dialogo paziente, ci indicano la strada del chicco di grano che silenziosamente porta frutto. Con la loro vita e il loro martirio questi fratelli sono realmente ponti tra islam e cristianesimo, e anche tra Oriente e Occidente. Invitano anche noi a scommettere sulla follia del Vangelo contro la logica della vendetta e della violenza. Il loro sangue ci dona la fiducia in un futuro di pace, di giustizia e di rispettosa collaborazione con gli appartenenti al Giudaismo e all’Islam, per il bene di tutti gli abitanti della regione.

Essere cristiani oggi in Medio Oriente

Vuol dire emarginazione, isolamento, scarsità di clero, impossibilità di formare nuove leve, scomparsa di molti luoghi di culto espropriati e modificati nella loro destinazione d’uso, povertà di mezzi… Tutto concorre oggi a portare il cristianesimo verso un vistoso ridimensionamento, lungo una strada che sembra essere senza ritorno. A partire soprattutto dalla guerra in Iraq e dalla presenza delle truppe occidentali in Afghanistan, un forte nazionalismo sta facendo crescere giorno per giorno le distanze fra mondo europeo/occidentale e mondo turco. La gente comune, in maggioranza musulmana, vive fianco a fianco dei cristiani e certamente non li osteggia. Ma diverse componenti degli apparati politici, insieme a frange estremiste, alla stampa e ai mezzi di comunicazione cooperano purtroppo a creare un clima di pesante diffidenza nei loro confronti, spingendoli così all’omologazione nei confronti dell’ambiente circostante.

Saranno coinvolti anche ebrei e musulmani

La storia, quindi, ha fatto sì che i cristiani diventassero un piccolo resto in questa regione.

Da quel piccolo gregge che cerca di resistere a tale clima di intimidazione, un grido e un lamento arrivano fino a noi, che troppo spesso invece dimentichiamo il ‘martirio’ quotidiano della loro fede e della loro vita.

Il Sinodo non è ‘contro’ qualcuno: è uno spazio di dialogo aperto che punta alla comunione e alla pace nella giustizia e nella verità. Troverà sicuramente il modo di ascoltare voci del mondo ebraico e di quello musulmano. Il dialogo e il confronto con le altre religioni e le altre culture sarà uno dei temi centrali del Sinodo. 

Seminari di approfondimento a margine del sinodo

In occasione e per tutta la durata del Sinodo molte sono le iniziative programmate e in atto; fitto è ancora il calendario di incontri culturali, organizzati per riflettere con vescovi, religiosi, scrittori, giornalisti ed altri esperti sulle sfide e sulle speranze che toccano quelle Chiese e le comunità cristiane che in esse vivono. Il Sinodo stesso ci offrirà la possibilità di entrare in contatto con l’esperienza della pluralità sconosciuta e della ricchezza della tradizione orientale in larga parte ignorata in occidente.

Per portare pace nel Medio Oriente

Insieme a tutti coloro che hanno promosso queste iniziative e alle tante realtà che lì operano, vogliamo fare nostro il motto del Sinodo: impegnarci per i cristiani di Terra santa e del Medio Oriente con un cuor solo e un’anima sola.

Mossi, inoltre, dal bisogno e sete di pace che tutti viviamo, cercheremo di capire dal di dentro la realtà complessa che sta al cuore di quella Terra e di tutto il mondo e di sperimentare nella nostra vita quotidiana la fecondità del perdono di fronte alla sterile alternativa dell’odio e della vendetta per portare pace al Medio Oriente e intorno a noi.

         Ad approfondire ulteriormente il tema e a conoscere cosa sarà stato veramente il   Sinodo nel suo procedere e nelle conclusioni-proposizioni ci aiuterà l’intervista che verrà     pubblicata su questo stesso sito a Sinodo avvenuto.

         Luciagnese Cedrone

         usmionline@usminazionale.it

USMI: in comunione per la comunione

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set 28 2010

La velocità del tempo che scorre mi sorprende sempre di più.

In questi giorni nei quali, dopo la pausa estiva, si stanno avviando le molteplici attività e iniziative dell’USMI, riprendono i contatti, le comunicazioni, le condivisioni, i consigli a vari livelli, i convegni e gli incontri programmati già nell’anno precedente.

Sono davvero tanti!

Mi domando spesso: serviranno?

Ma, al di là della domanda, che a mio avviso è bene tenere sempre aperta, un fremito di commozione mi prende perché penso alla vita e alla vitalità che sottendono tutte le nostre iniziative. Comprendo che il fondamento e il senso profondo della realtà dell’USMI è un Dono prezioso ricevuto gratuitamente.

La comunione dei carismi e tra i carismi è la dinamica che muove tutto tra noi.

Infatti la vita dell’USMI si fonda e si alimenta al Dono che Dio fa costantemente alla sua Chiesa: suscitare molteplici carismi perché esprimano nel tempo la vita della Trinità, Amore che sostanzia la relazione tra le divine Persone, Amore di misericordia che per natura dilaga senza risparmi ovunque un uomo o una donna hanno fame e sete di amore e di verità.

Lo statuto della nostra Unione cita infatti al n.1:

“L’Unione favorisce ed esprime le esigenze di comunione tra gli Istituti femminili – nel rispetto e nella valorizzazione delle specificità dei vari carismi – per promuovere un dinamico inserimento della Vita Consacrata nella Chiesa in Italia”.

Come conseguenza logica, la passione della carità reciproca ci spinge ad amare il carisma e la missione le une delle altre, passione che si trasforma in un gioioso metterci a servizio reciproco perché ogni Famiglia religiosa nella Chiesa e nel mondo sia davvero bella, e manifesti la bellezza dell’amore di Dio per ogni creatura che Egli ama e che vuole salva.

Anche per questo secondo aspetto incontriamo le seguenti affermazioni al n. 4 dello stesso Statuto

 “  L’Unione nell’ambito della sua identità ecclesiale: Promuove l’approfondimento dell’identità carismatica della Vita consacrata secondo l’insegnamento del Magistero della Chiesa, gli orientamenti della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.

Favorisce, mediante opportune iniziative, la comunione e la collaborazione tra gli Istituti religiosi e le Società di Vita Apostolica;

coordina i rapporti di comunione e collaborazione con la Conferenza Episcopale e con i singoli Vescovi;

individua le sfide socio-culturali del nostro tempo per cercare insieme risposte profetiche, in coerenza con l’identità di donne consacrate e presta attenzione alle nuove forme di vita consacrata”.

Sono due linee fondamentali molto importanti che dovremmo meditare a lungo per ri-comprenderle e per viverle in maniera sempre più visibile, gioiosa, appassionata.

L’identità e la ragion d’essere dell’USMI non si limitano dunque e non coincidono con le molteplici attività che svolge seppur interessanti e di qualità, l’identità dell’USMI è essere  volto femminile e amante della Chiesa comunione, sempre in missione.

Ecco che cosa sottendono tanto impegno e tante iniziative!!

L’amore di Cristo ci spinge e ci rende feconde, l’amore dei fratelli ci rende attive e infaticabili nella gratuità del dono.

Desidero perciò raggiungere con il pensiero e l’affetto le tantissime sorelle che nella gratuità più piena offrono tempo, lavoro, genialità e creatività per programmare, animare, guidare, sollecitare , incontrare a livello nazionale, regionale e diocesano, in una rete di rapporti davvero capillari, le realtà in cui le religiose sono presenti e per coinvolgere tutte nell’unica missione che il Signore ha affidato alla vita religiosa femminile nella chiesa italiana e nel mondo. A tutte il mio grazie ed il mio incoraggiamento a perseverare nel compiere il bene, nel credere che nella costruzione della casa “ si dura molta più fatica a porre le fondamenta, ma se queste sono ben fatte e solide la casa vien su più velocemente” (cfr S. Caterina da Siena ), nell’amare il progetto di Dio che ci ha poste in mezzo ai fratelli come seminatrici di speranza consapevoli che chi fa crescere e maturare i frutti del nostro lavoro è soltanto Lui.

A tutte auguro un anno ricco di pace e di benedizione.

sr M. Viviana Ballarin o.p.

(Presidente Nazionale USMI)

Una visione sulla vita consacrata – Attualità e prospettive

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set 23 2010

 Don Pascual Chávez V., SDB -Presidente della Unione dei Superiori Generali- ha accettato di condividere con noi alcune sue riflessioni sulla vita consacrata. Lo fa in nome della nostra comune vocazione di persone consacrate, chiamate a rendere testimonianza che Gesù continua ad essere vivo in mezzo agli uomini e alle donne di questo tempo. E anche perché oggi, paradossalmente, la vita consacrata si trova a fare i conti con una profonda crisi d’identità, di credibilità e di visibilità, che si traduce nel calo vocazionale e in una perdita di stima non soltanto da parte della società, ma anche da importanti settori ecclesiali e degli stessi religiosi. 

Nella rubrica NEWS pubblichiamo il testo completo che Don Chavez ci ha fatto pervenire, certi che titolo e contenuti ci aiuteranno a vedere ed apprezzare meglio il momento presente e il futuro della Vita Consacrata.  (L.C.)

Hawking e il nulla dell’autocreazione

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set 14 2010

 «Dio non esiste, l’universo nasce dal nulla»: lo afferma il famoso astrofisico mondiale, Stephen Hawking, scienziato inglese di 68 anni condannato all’immobilità su una sedia a rotelle e privo della parola per un’astrofia muscolare progressiva. Lo scrive nel suo ultimo libro, “The Grand Design”, che sarà in libreria in concomitanza con la visita di papa Ratzinger (prevista per il 16 settembre 2010) nel Regno Unito. Hawking, in un suo precedente libro, Una breve storia del tempo, una decina di anni fa aveva sostenuto che non c’è incompatibilità tra un Dio creatore e la comprensione scientifica dell’universo. Ora, dunque, ci ripensa e afferma che il Big Bang, la grande esplosione che ha creato il mondo, fu una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica. Per usare le sue parole:«Poiché esiste una legge come la gravità, l’universo può essersi e si è creato da solo, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l’universo e per cui esistiamo noi».

Solo una rispettabile opinione

Hawking comunica grazie alla tecnologia, ha tutte le spiegazioni della sua malattia, fornitegli dalla scienza. Eppure la medicina non gli dirà mai perché proprio lui è stato colpito dal male e qual è il significato della sua sofferenza. Allo stesso modo egli ci dice com’è nato l’universo, ma non ne affronta il perché. Nella realtà però l’uomo non ha bisogno solo di una teoria che spieghi come è nato il mondo: ne cerca anche il significato. «Quello che Hawking afferma non è provabile. E non essendo provabile, misurabile e negabile non appartiene alla fisica. È solo un’opinione» (Massimo Robberto). Non c’è scienza che possa negare l’esistenza di Dio. Così il fisico Antonino Zichichi, presidente della Federazione mondiale degli scienziati con forza dichiara: «Se c’è una logica nell’universo c’è anche un creatore. Hawking riesca a dimostrare il teorema della negazione di Dio oppure stia zitto».

Scienza e Mistero

«La fisica di per sé -sostiene l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams- non risolve la questione del perché c’è qualcosa piuttosto che niente. Per lo stesso motivo potremmo affermare che siccome gli aeroplani volano grazie alle leggi della fisica, sono stati creati dal nulla senza il bisogno di un inventore». In realtà finché esisterà, l’uomo che ha lume di ragione non rinuncerà a domandarsi il significato della vita e della morte, del male e della bellezza.

Domanda di senso (soprattutto di fronte alla natura)

L’astrofisico dello Space Telescope Science Institute di Baltimora Massimo Robberto riflette:«Dio ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché gli uomini Lo cercassero, se mai arrivino a trovarLo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. Tutta la realtà ci è data come se il Mistero continuamente ci dicesse: Guardami. Sono qui. E tu ti guardi attorno, e non lo vedi. Ma senti questo richiamo. Non si svela. Perché si sveli occorre l’incontro con un Uomo». Per il cristiano quest’Uomo è Cristo nella cui persona l’uomo e Dio si sono perfettamente uniti. In Lui l’abisso è superato. Egli è il centro dove convergono tutti i raggi dell’universo. «Io non so -continua Massimo Robberto- se la fisica possa dimostrare o meno l’esistenza del Mistero. Ma la realtà ha dentro un richiamo oggettivo per chiunque. Noi lo cerchiamo, non è lontano, ma non è dato scoprirlo: occorre che Qualcuno lo annunci, deve passare da un’altra parte».  

Quello che dobbiamo fare anche se costa sacrificio e fatica è cercare di recuperare la complessità della realtà. Hawking in fondo decide di fermarsi, di smettere di cercare questo Mistero. Mentre la realtà, come avviene nel rapporto amoroso, rimane fonte inesauribile di provocazione e bellezza. Così più scopriamo, più siamo incuriositi. Stabilire la fine di questa dinamica porterebbe alla malinconia e alla disperazione.

Tra evoluzione e fede

Evoluzionismo e cosmologia sono i temi sui quali è intervenuto più volte Nicola Cabibbo, fisico italiano di sicuro tra i primi in campo mondiale e da poco purtroppo scomparso. Profondamente credente egli ha affrontato con grande equilibrio il rapporto fra conoscenza scientifica e testo biblico, fra scienza e persona umana. Sul rapporto tra scienza e fede sottolinea che la teoria dell’evoluzione non è in contrasto con l’opera della Creazione e che le due non si contraddicono affatto. Sono gli ‘-ismi’, cioè il creazionismo che pretende di negare l’evoluzione e l’evoluzionismo che pretende di negare la Creazione, che entrano in contrapposizione proprio perché si fa confusione tra i due piani.

Alle parole di Stephen Hawking due altri grandi intellettuali italiani rispondono:«La scienza non può porre difficoltà alla fede, perché quello che scopre è vero e non può essere in contrasto con la creazione» (Giuseppe Tanzella-Nitti). E Giulio Giorello: «Oggi tra gli scienziati cattolici è chiarissimo che si può benissimo credere nell’evoluzionismo e nella Creazione (non nel creazionismo). Dire il contrario è come sostenere che la Terra è piatta o che il Sole si muove perché così dice la Bibbia».

Ma il perché davvero “ultimo” per cui l’universo esiste (e nell’universo esisto io, ciascuno di noi) è una domanda alla quale le leggi della fisica non intendono né possono rispondere. È però una domanda che l’essere umano in quanto tale non può non continuare a porsi.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Solo folklore?

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set 06 2010

La visita del leader libico Gheddafi a Roma (29-31 agosto 2010) con le amazzoni che gli fanno da guardia del corpo e la tenda beduina; con il carosello dei cavalli e le hostess reclutate per un deliberato spettacolo di proselitismo; con gli show a beneficio delle telecamere e le sue “provocazioni” su un futuro musulmano per l’Europa: lascia l’amaro in bocca e strascichi pesanti, ma anche il bisogno di riflettere più a fondo su alcune questioni.

Gli affari non sono tutto

P. Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di storia della cultura araba e di islamologia presso l’Università Saint-Joseph di Beirut, commenta:«Non possiamo riempirci continuamente la bocca di belle parole sui diritti umani quando ci rivolgiamo all’interno dell’Europa, e poi far finta  di niente con un capo di Stato straniero che è al potere  da 41 anni e spesso ha mostrato disprezzo per i diritti fondamentali della persona umana; che lo ha dimostrato anche recentemente con centinaia di eritrei rinchiusi nei campi di detenzione. Lui non parla solo di affari, si atteggia a predicatore dell’islam. Qualcuno gli faccia notare che per noi gli affari non sono tutto». E anche che «i suoi show sono possibili grazie a quella cultura ebraico cristiana, che ha reso l’Europa libera, laica e democratica», commenta duramente il Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia Giuseppe Piperno, aggiungendo che finalmente vengano definiti invece, e una volta per tutte, gli indennizzi e i risarcimenti degli ebrei dovuti scappare dai pogrom del 1967 e di tutti gli italiani con l’avvento al potere di Gheddafi nel 1970.

Ancora ci si chiede:

-         perché Gheddafi fa il suo siparietto a Roma e non a Parigi o a Berlino?

-         possiamo definire tutto questo semplicemente folklore pensando alle condizioni disumane degli innumerevoli esseri umani deportati nei campi di concentramento libici dopo l’approvazione nel nostro Parlamento del cosiddetto “pacchetto sicurezza”?

I diritti umani interessano davvero?

Il presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori  e consulente della Commissione parlamentare per l’infanzia afferma:«Vorremmo poter conoscere in che stato versano i bambini, spesso in tenerissima età, reclusi nei campi di accoglienza libici dopo il loro respingimento dalle coste italiane». Le autorità libiche infatti non hanno mai avviato indagini sui casi denunciati, né sulle persone responsabili.

E il vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, molto critico sull’accordo Italia-Libia, spiega che «sull’immigrazione non si può affidare il presidio dell’intero fronte africano ad un solo Paese e sulla base di accordi bilaterali che prevedono, in cambio, contratti di carattere economico a vantaggio della Libia e dei nostri imprenditori». Per il vescovo, «è un errore affrontare in questo modo il problema dell’immigrazione. Non verrà mai fermata finché esistono situazioni di conflitto e di povertà».

L’Europa destinata a diventare islamica?
Le “minacce” di Gheddafi su un’Europa «nera» invasa dagli immigrati incassano solamente un “no comment” da parte di Bruxelles. Ma per P. Samir Khalil Samir, quella sull’islamizzazione dell’Europa è «una previsione non certo campata in aria. Ed io starei attento a liquidarla come una boutade di poco conto». Per questo egli invita a «guardare ai fatti» e cioè al tasso di natalità degli europei che è «la metà di quello degli immigrati di provenienza extracomunitaria, in gran parte musulmani». Nel 2050, ci dicono i sociologi, una persona su cinque sarà musulmana.

Totalitarismo islamico e cristianesimo

Benedetto XVI è forse fra le poche personalità del nostro tempo ad aver capito profondamente l’ambiguità in cui si dibatte l’islam contemporaneo e la sua fatica nel trovare un posto nella società moderna. Già da cardinale aveva visto con chiarezza la difficoltà essenziale del rapporto socio-politico con il mondo musulmano: la concezione totalizzante della religione islamica. Per questo egli insiste nel dire che non dobbiamo cercare di proiettare sull’Islam -il quale non fa distinzione fra religione e politica- la visione cristiana del rapporto tra le due. Il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini e rende l’Islam una religione totalmente diversa dal cristianesimo e dalla società occidentale.

La violenza e il nulla

Papa Ratzinger offre un’analisi a tutto campo sulle piaghe dell’Islam contemporaneo e sul modo in cui musulmani radicali e progressisti cercano di guarirle. Rileva che i terroristi uccidono e alimentano tanta violenza, ma la gente reagisce e non in loro favore. I terroristi dunque non riescono ad imporre né la sharia, quando lo vogliono fare, né un loro sistema di violenza che possa cambiare politicamente un Paese. Ma i tentativi continueranno finché non si capirà che la violenza non porta a nulla.

Via per la convivenza mondiale

 Il papa sta proponendo all’Islam una via per costruire la convivenza mondiale basata non sul dialogo religioso, ma su quello culturale e di civiltà, sulla razionalità e su una visione dell’uomo e della natura umana che viene prima di qualunque ideologia o religione.

Questo puntare al dialogo culturale spiega la sua scelta di assorbire il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso dentro al più grande Pontificio Consiglio per la cultura. Egli chiede perciò all’Islam un dialogo basato sulla cultura, sui diritti umani e sul rifiuto della violenza; e all’Occidente di ritornare a una visione della natura umana e della razionalità in cui non si escluda la dimensione religiosa. In questo modo – e forse soltanto così – si potrà evitare un conflitto delle civiltà, trasformandolo invece in un dialogo. D’altra parte chi «esercita la carità in nome della Chiesa sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare» (Deus Caritas est).

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Quando si ama a “distanza di sicurezza”

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set 01 2010

Se si parla di Rom è inevitabile pensare a una realtà lontana, distante da noi, a un mondo da tenere a bada, sotto controllo, da integrare con le buone o con le cattive e dal quale strappare tutto ciò che ai nostri occhi appare come un problema.

Ma «a guardare sempre dalla stessa parte -dice un proverbio africano- il collo s’irrigidisce». Non può essere che questa rigidità abbia colpito in qualche modo anche chi rimane troppo fermo nel pensare ai Rom solo come a una minaccia?

Chi sono i Rom

Rappresentano la minoranza etnica più numerosa d’Europa. Si stima che siano fra i 12 e i 15 milioni. La maggior parte vive in Romania, ma il nome “Rom” non ha niente a che fare con questa regione: deriva da una parola indi che significa “uomo”.

Si ritiene che vengano dall’India, da dove sarebbero partiti fin dal primo millennio dopo Cristo, per raggiungere l’Europa nei secoli successivi. Con l’allargamento negli ultimi anni dell’Unione Europea, molti sono partiti per andare a ingrossare le comunità già esistenti in Francia, Spagna, Italia o altrove. Perché nei paesi d’origine la vita è davvero difficile. Esclusi dalle scuole e con un tasso di disoccupazione a volte vicino al 100 per cento, si è aggiunta oggi la crisi economica a far sì che diventino Rom anche i più poveri dei cittadini non Rom. Solo una piccola minoranza comunque vive nei cosiddetti ‘campi rom’.

In passato sono stati lanciati in Europa programmi per l’integrazione, ma non sono mai stati una priorità. Due anni fa è stato convocato il primo summit europeo sui Rom, con l’obiettivo di combattere a livello nazionale e comunitario le discriminazioni e di migliorare le condizioni di vita di questa minoranza. Obiettivo -come è sotto gli occhi di tutti- ben lontano dall’essere raggiunto.

Giro di vite di Sarkozy

Così continuano ad esserci, su diversi territori d’Europa, Rom che nemmeno in anni di convivenza hanno imparato le regole del vivere civile, come ci sono Rom che vivono e lavorano tranquillamente perché hanno voluto e saputo integrarsi. Solo che questi ultimi non fanno notizia.

I Rom sono tornati al centro dell’attualità quando Parigi, che dall’inizio dell’anno ha espulso più di 8000 cittadini di origine Rom, ha proposto agli occupanti dei campi smantellati un rimpatrio ‘volontario’, organizzato dall’Ufficio per l’immigrazione che versa un aiuto di 300 euro per adulto e 100 per bambino. Una deportazione legittimata in nome della sicurezza. In realtà capro espiatorio per veicolare contro un nemico comune il malcontento dell’opinione pubblica. Capita quando l’economia va male e i governi non riescono a dare risposte vere.

Di fronte alla decisione del governo francese di procedere allo smantellamento dei campi e al rimpatrio di intere comunità Rom, il segretario del Pontificio Consiglio ripete che le espulsioni non possono essere “collettive”: «Bisogna stare attenti alle differenti situazioni e non si può colpevolizzare un’intera popolazione per violazioni di legge commesse da alcuni».

Malgrado le critiche che questa politica dei rimpatri sta suscitando in tutta Europa, la Francia non si ferma.

Il ‘modello’ bolognese e fiorentino

Al di là delle dichiarazioni di principio dei governanti, i Rom continuano a essere vittime di discriminazioni nella maggior parte dei paesi europei dove vivono o dove transitano.

Ma tra i Rom bolognesi c’è voglia di stabilità. Non è più la stagione dei grandi accampamenti e degli sgomberi. Così si cerca di organizzare piccoli gruppi o famiglie con figli che vanno a scuola.

A Firenze una mozione del PDL propone di smantellare i campi rom, ritenendo le spese comunali per i campi nomadi sproporzionate a fronte del ridotto numero degli abitanti.

Tante Associazioni di Volontari che assistono i nomadi dei campi (abusivi e non) romani e milanesi, rilevano le conseguenze negative degli sgomberi: a pagare più di tutti sono i minori, che devono interrompere il percorso scolastico; e le famiglie non ammesse nei campi regolari rischiano di finire in condizioni abitative peggiori di quelle precedenti.

Da parte sua la Commissione Europea ha annunciato che sta elaborando un rapporto sulle azioni compiute in Francia, che sarà presentato nel corso della prossima settimana. Il problema sarà affrontato a livello europeo. Ma concretamente che cosa si riuscirà a fare?

Decisivo è l’amore

Costruire con tutti la vita così come Dio la vuole è possibile soltanto se si fa dell’amore un imperativo assoluto, se ci si dispone a imparare da Lui: che continua a guardare ognuno con tenerezza e sorriso; e che manifesta la Sua grazia con la stessa generosità e bellezza dentro la vita dei Rom, come all’interno delle nostre bellissime cattedrali.

Bisognerebbe vivere con i Rom, relazionarsi con loro alla pari, guardarli in faccia per poterli realmente conoscere. Così come fanno ogni giorno tanti volontari, laici e religiosi. Perché è difficile amare qualcuno a distanza di sicurezza, o preoccupati solo di risultati da sbandierare.

È necessario invece cominciare a educare e curare il proprio sguardo per riuscire a scoprire frammenti di umanità anche nel ‘margine’, interiorizzato come luogo di vita. In questo caso le distanze pian piano si riducono fino ad annullarsi e senza accorgersene.

La sicurezza infatti certamente è necessaria, ma è un obiettivo da perseguire nella quotidianità e prima di tutto attraverso la costruzione di comunità locali ricche di coesione e di solidarietà. 

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

«Dialogo e comprensione reciproca»

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ago 28 2010

Nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo di solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano, l’11 agosto 2010 le Nazioni Unite hanno dato il via all’Anno Internazionale della Gioventù sul tema del dialogo.

L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere gli ideali di pace e solidarietà intergenerazionale, incoraggiando una piena ed efficace partecipazione dei giovani in tutti gli ambiti della società. L’ONU punta sulla loro «energia, passione e creatività» nella lotta per sradicare povertà e disuguaglianze, al fine di costruire un «mondo più sicuro e più giusto».

Obiettivi e principi tutti belli e pienamente condivisibili. Contemporaneamente però l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) lancia l’allarme per la crescente disoccupazione -destinata per altro a crescere ulteriormente-, sottoccupazione e conseguente scoraggiamento giovanile, a livello globale. Anche la possibilità di istruirsi si è già ridotta drasticamente.

In tale situazione occorre concentrarsi sull’obiettivo di aumentare gli impegni e gli investimenti sui giovani se davvero si vuole incrementare la loro partecipazione e collaborazione.

Intanto gli idoli della violenza, della vendetta e del potere sentito come risorsa definitiva ed ultima schiavizzano un po’ tutti giovani e meno giovani e accecano anche quando si presentano con le vesti rispettabili della giustizia e del diritto. Allo stesso modo, soprattutto in occidente, è ben vivo e radicato l’idolo del volere stravincere in tutto e del non cedere in nulla, del non volere accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ognuno sia disposto a perdere qualcosa in vista di un bene complessivo.

Un tragico vicolo cieco questo, per uscire dal quale è necessario prenderne reale coscienza, a tutti i livelli: quello della comunità internazionale, delle comunità locali, familiari, degli individui.

 Il loro anno, la loro voce

Esistono nella vita di un giovane momenti in cui egli perde le sue “fasciature”, le “stampelle” su cui si reggeva; allora è costretto a uscire dal branco e ad affrontare la vita da solo. Spesso questo tempo si consuma nella solitudine, che può diventare l’anticamera della disperazione o l’inizio di una vera coscienza per la formazione di un volto più umano.

L’esperienza del dolore e della morte è fin troppo presente nel mondo giovanile, ma manca assolutamente la capacità di elaborare il dolore. L’esperienza di fede ha certamente qualcosa di importante da dire al riguardo, ma non è risposta automatica.

 Creature di relazione oggi?

Molti giovani -ce lo ricordano anche le esperienze estive appena concluse- acquisiscono profondità di riflessione a contatto con il bisogno degli altri, assunto come misura anche solo di una stagione della propria vita.

Guardare al dolore dell’altro, dell’estraneo e perfino del nemico può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione: di sé, della vita, del suo senso. La memoria delle sofferenze accumulate negli anni infatti, quando è riferita esclusivamente a sé o al proprio gruppo, o alla propria “giusta” causa, alimenterà solo l’odio e le ragioni del risentimento, della rabbia, della vendetta. Imparare a guardare al dolore e ai problemi dell’altro, invece, permette di “vedere” il suo volto e di superare in sé l’idolo dell’odio. Si sperimenta così che non è poi tanto difficile vivere la vita come un dono e lasciarsi scavare l’anima dalle lacrime della gente.

 

Primo orizzonte: il dialogo

Nel corso dell’Anno della Gioventù, che si concluderà il 12 agosto 2011, molti sono gli eventi già programmati a livello internazionale. Ne citiamo per ora uno che ci riguarda da vicino: l’Agorà dei giovani del Mediterraneo che si svolgerà dal 12 al 19 settembre 2010 presso il Centro Giovanni Paolo II a Loreto.

Ai giovani inviati dalle comunità cristiani del Mediterraneo si uniranno in questa occasione anche i giovani inviati dalle comunità cristiane d’Oriente. Questo per allargare l’orizzonte del confronto, per far nascere possibilmente iniziative di cooperazione là dove non esistono e mettere in rete quelle che già esistono. In realtà si dialoga con tutti o non è dialogo con nessuno. E chi è animato dal desiderio vero di dialogare non aspetta, ma getta per primo ponti di apertura e di stima; copre ogni distanza senza contare i passi compiuti dall’altro; lo fa con assoluta fedeltà, senza soste e senza retromarce.

Chiamati tutti ad allargare gli spazi dell’essenziale e ad abbandonare i troppi idoli che ci ingombrano il cuore e la vita, entriamo allora, insieme ai giovani, in questo loro anno.

E il Signore ci renda viandanti con loro quando ci capitasse di pensarci più “arrivati” di altri nel cammino mai finito verso la pienezza.

 Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it