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Leadership in tempi difficili

Senza categoria | Posted by usmionline
apr 27 2015

10653874_1021649361184095_7176100715287269243_nRinnovare oggi il modo di gestire la fraternità per essere segno  che  la comunione fra diversi  è possibile. Con sé non prendere nulla se non un tratto del Volto del Figlio di Dio e renderlo riconoscibile nel modo di vivere insieme… E fecondare in silenzio la storia.

Svegliarsi per svegliare…
Quando ci si trova a vivere nel ‘passaggio’ fra due epoche e in un contesto com’è l’attuale di  paura e di chiusura, non è facile ‘vedere’ il senso della vita quotidiana e percepire nei propri giorni la presenza di un Mistero amico che sempre accompagna. E se è di tanti oggi trascinare la propria vita nel narcisismo, è la vita collettiva poi che continua a convincere e a trainare, nel bene e nel male. Il fatto è che ognuno porta in sé il bisogno di sapere e di sentire che la propria persona e la propria vita sono preziose per qualcuno. E ciò che primariamente si cerca – anche quando poi ci si perde per strada – ha per obiettivo relazioni autentiche. Il problema che davvero sollecita tutti è chiarire la possibilità di comprensione e di comunione tra le persone. La santità comunitaria oggi è necessaria forse più ancora di quella individuale, per dire al mondo che è possibile crescere insieme nella diversità anche se non ci si è scelti. Le comunità cristiane sono chiamate ad essere segno che la comunione tra diversi è possibile. E l’autorità in esse è esattamente al servizio di questo progetto.

… il compito vero dell’autorità
IMG_1040In rapporto a tale contesto, l’Assemblea Nazionale quest’anno è stata preziosa. Ha esaminato l’esercizio dell’autorità come servizio pasquale nella vita religiosa, indicando strade concrete per un cambiamento intelligente e illuminato della dinamica comunitaria alla luce della Parola. Ogni vita insieme (anche quella dei consacrati) naturalmente è sempre convivenza umana alle prese con i problemi dei singoli, destinati a complicarsi nella relazione. Cercare di rispondere al suo disagio con la forza pacata e creativa della riflessione è tipico di chi vuole accedere alla verità. Non potrebbe essere diversamente se si sta parlando di comunità religiose, che, per definizione, nascono attorno alla Parola e di essa si nutrono. I modelli biblici permettono di gettare uno sguardo positivo sulla convivenza dei consacrati per cogliervi quello che impedisce o ritarda la condivisione dei cuori e intravvedere la direzione da prendere.

In una nuova gestione della fraternità …
Comunità nuove vengono solo da una nuova gestione della fraternità, che conduca con mano ferma e calda verso il superamento di sé,
bimbo-dorme-con-il-canefacendo convergere energie e competenze nella direzione di un obiettivo comune. Il leader efficace, all’interno di una comunità religiosa, prima  di tutto tiene conto delle persone, delle loro esigenze e bisogni. Sa che le persone sono sempre più importanti del servizio che rendono. Agisce per loro e con loro con la forza della convinzione (e anche della provocazione), ma sempre rispettando il singolo e la sua libertà. Si mette in sintonia, percepisce, risponde con empatia; aiuta a trovare la giusta relazione tra le persone per conciliare le differenze e viverle come ricchezze; intento a promuovere un clima di fiducia reciproca, si propone come stimolo permanente di crescita e di conversione reciproca.

… corresponsabili tutti della ‘casa comune’ 
Nella comunità cristiana ognuno è chiamato a realizzarsi nella Parola e in una rete di relazioni, a vivere perciò nei sentimenti dell’altro, facendo proprie la gioia, la sofferenza, la speranza di chi è accanto e nello stesso tempo rimanendo se stessi, per giungere insieme ad un comune sentire. Gesù dà a ciascuno un’autorità  e a uno il compito di vegliare, ma per ognuno il primo compito è diventare e sentirsi figli di Dio. Nessuno quindi nella comunità è senza autorità e senza un compito da svolgere. Obbedienza allora è accoglienza quotidiana e faticosa della via evangelica alla libertà. E una buona leadership dipende principalmente dal rapporto che c’è tra il leader e coloro che le obbediscono, da vivere come servizio a Dio e ai fratelli.

La tentazione del potere: malattia dell’autorità
“Come mai la tentazione del potere sembra così irresistibile?” – si chiede H. Nouwen. Può darsi che il potere sia un comodo surrogato del compito faticoso dell’amore. Di fatto la tentazione di esercitarlo per un fine personale è sempre e per tutti in agguato. Sembra più facile controllare gli altri che amarli. Occorre proprio esserne coscienti. D’altra parte è facile scambiare la diversità per superiorità/inferiorità; considerare merito proprio quel di più d’intelligenza, di amore e far pesare questo sui meno dotati. Ma obbedire a Dio comporta libertà, solitudine e ”chi dice di stare in Lui, deve anche vivere come è vissuto Lui” (1Gv 2, 3-6).

Unico spazio di rifioritura…
È lo spazio che si riserva nella vita comune ad un colloquio autentico – nel quale poter  esprimere critiche, sofferenze e disagi – che può riaccendere i membri. Se questo spazio manca, sono fiumi di chiacchiere e pettegolezzi, che alimentano divisioni e problemi organizzativi. Il diritto alla critica fa parte di chi ha ricevuto un carisma, dono che certo non è da considerare possesso. Restare asserviti però a volte è più confortevole dell’essere liberi. D’altra parte gli obbedienti affascinano i superiori, ma vero obbediente è chi vuole obbedire, come vero orante è chi vuole pregare. Malattie della fraternità – cultura della lamentazione, ansietà, sconforto (che poi sono frutto della mancanza di fede!) – sono forza che distrugge. Per curarla c’è una sola medicina: la saggezza che nasce da cuori capaci di leggere la realtà lealmente e con onestà, senza illudersi di poter piegare le situazioni alle proprie visioni, né tantomeno di dirigerle attraverso le proprie paure; senza ‘mangiare’ insomma le persone, utilizzandole per… nutrirsi.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa possibilità di conflitti e di delusioni comunque è parte naturale della crescita, da accogliere e gestire sperimentando il processo pasquale per diventare adulti. C.M. Martini  confessa: “Quando mi capita di ascoltare i lamenti di chi si sente messo all’ultimo posto, non valorizzato, di chi si sente magari disprezzato e insultato, mi accorgo che ciascuno di noi, io stesso, rischia continuamente di ritornare all’ovvietà, di dimenticare le Beatitudini, di allontanarsi dalla via di Gesù”. Per essere in relazione occorre ‘essere’: né perdersi nella tentazione di possedere l’altro distruggendolo, né annullare se stessi nell’altro. Ma scoprire se stessi nell’altro, senza fuggire da sé, anzi approfondendo la propria vita interiore… E io che cosa sono disposto davvero a mettere in conto?

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

 

Quel bisogno di essere ‘connessi’…

Senza categoria | Posted by usmionline
apr 20 2015


jappoSoli, isolati e -disconnessi- si muore. Perché vivere è
essere-insieme: vibrare con ognuno, percepirne privazione, disperazione, gioia e – lontani dalla razionalità del calcolo e della convenienza – esserne commossi fino alle viscere. Ma l’arte di ‘connettersi’ rimane costantemente e inguaribilmente da imparare e reimparare…    

Un’epoca senza compassione?  
Smania di visibilità e di apprezzamenti, domande nel cuore senza risposta… Nella terra arida della vita di tanti si vive più o meno consapevolmente una quotidiana guerra emotiva gli uni contro gli altri. Feriti, risentiti – e prigionieri dell’ansia, della rabbia e del biasimo che ne derivano – si conosce la più intensa delle sofferenze. Si vivono insomma giorni di lacrime, chiusi come si è nel proprio giudizio e incapaci di vedere e/o di reggere i propri punti di difficoltà. Risulta troppo difficile fare posto a quell’emozione che fa uscire letteralmente da se stessi. E al cuore viene a mancare la capacità di riconoscersi in quegli altri che appaiono diversi e difficili. La possibilità di comprenderne il dolore e di condividerlo tende a svanire, insieme al senso di umanità. Inevitabilmente, in tale situazione, la connessione umana - che si esprime nello spiraglio di uno sguardo, nella luce di un sorriso, nella presenza che interroga e chiede di rispondere, come ha ben detto Levinas – si blocca.

In realtà lo stesso termine ‘compassione’ oggi è caduto in disuso. D’altra parte non è propriamente semplice cercare il sapore del bene in situazioni dove spesso l’unica cosa salata sono le lacrime. Una cosa però è certa: questa terra con i suoi poveri e le sue spine, con il suo sangue e la sua fame è il cielo di Dio (E. Ronchi); e i semi che nel suo grembo marciscono in realtà danno vita a frutti nuovi. La fede ce lo dice e i discepoli del Signore – chiamati come sono in quest’ora storica ad essere seme di Dio in terra – non possono dimenticarlo. Sapranno essi seguire Cristo, icona della vera compassione? E sull’esempio del Maestro sapranno vivere una vicinanza totale alla sofferenza degli uomini e delle donne che incontrano sul loro cammino, diventare luogo dell’azione di Dio, arricchire l’eredità dei secoli?… O vivranno rassegnati nell’impotenza?

Lungo una strada oggi poco battuta… 
È tanto comune preferire non interrogarsi veramente e non interrogare la storia. Accettare i fatti senza andare a fondo dei problemi e quindi senza una vera speranza. Semplicemente cercare di tirare avanti, per … sopravvivere e con tanta fatica. E intanto magari limitarsi a ‘guardare’ la realtà e le persone facendo solo chiacchiere e pettegolezzi che ‘uccidono’ (papa Francesco).

… qualcuno sa ‘vedere’ e ‘connettersi’
untitledSolo l’occhio contemplativo di chi si fa discepolo di Cristo – assicura Massimo Grilli - sa vedere  tra le possibili macerie della storia il fiore che sboccia e, sul tronco secco della propria
vita o della propria comunità, il germoglio di cui parla Isaia.
Certo è che tutto trova senso se si vive nell’amore, anche il negativo della vita, anche riconoscere i propri giorni pieni di promesse non mantenute. Perché non siamo Dio. Il Vangelo ci dice che solo Dio è compassionevole, non noi (H. Nouwen). E la fede vera non si nutre dei propri meriti, ma rimette la crescita nelle mani di Dio. In ogni caso mettere in discussione se stessi e le proprie certezze apre realmente al cammino di Dio e permette anche, se è necessario, di ricominciare da zero.

Lungo la via dei discepoli…
La compassione non è un valore qualunque; è al centro del Vangelo, nel quale ogni ansia umana trova risposta. Può dare forma ai rapporti anche nel nostro mondo, che funziona in modo terribilmente utilitaristico. L’autentico compito dei cristiani, in ogni tempo, è spendersi per il grande sogno di Cristo: la universalizzazione della tenerezza nel mondo. Questo e non altro, Gesù ha affidato a quel pugno di fratelli-amici che ha chiamato a seguirlo per portare al mondo la ‘buona notizia’ del Vangelo… Ripensarsi a partire dagli interrogativi che stavano a cuore a Lui, Figlio di Dio, quando camminava fra le nostre case e seguiva con tenerezza e amore il cammino di ogni uomo.

1422059950_10947255_1558042994452929_8018057496822169169_nCon la compassione ci sono sempre inizi, che non hanno mai fine. Ma forse tutto sta nel fare un primo passo per uscire dalla sensazione che non ci sia più tempo per fermarsi, guardare l’altro, accoglierlo, ascoltarlo… E fermare così quel tempo che rinchiude progressivamente l’essere umano nella solitudine. La saggezza poi sa che cosa contribuisce alla sofferenza e ciò che le mette fine; sa individuare anche nelle situazioni più disperate il vero, il buono e il bello, che magari è piccolo e fragile, ma accende la luce e alimenta la speranza. Salva perciò la compassione dall’essere solo un’emozione e non si ferma sul piano della… buona intenzione! Perché la fede intensa – confidava Martini a Scalfari – è una passione, è gioia, è amore per gli altri e anche per se stessi, per la propria individualità al servizio del Signore.il sentimento oggi forse più inattuale può tornare protagonista

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Fra Parola e parole umane

Senza categoria | Posted by usmionline
apr 07 2015

Ogni persona è incline a rimpicciolire le speranze e a ridurle di giorno in giorno di fronte alle delusioni. Ma quando si apre il cuore alla Parola nella verità, si arriva anche al cuore della libertà; tutto il resto si offusca e non conta più, insieme alle parole che fanno male. E la vita si trasforma in un’avventura di crescita e di bellezza. 

Per rimanere nell’amore…
insiemeIn un tempo di sradicamenti come il nostro, troppi sono i canali comunicativi bloccati o intasati. Questo in ogni ambiente, compresi i conventi. E una folla di solitudini grida il proprio bisogno di essere guarita. Alla radice di tale incomunicabilità umana – suggeriva C. M. Martini – c’è una visione grandiosa e affascinante dell’ideale comunicativo, ma anche sbagliata per eccesso. Si vuole cioè troppo e subito…ciò che nessun comunicatore umano può dare. Le comunità religiose in tale contesto hanno qualcosa da aggiungere, una direzione da indicare ad un mondo angosciato e distratto? Sono ancora in tal senso profezia di speranza?

“È proprio l’amore di Dio che dà senso ai piccoli impegni quotidiani e anche aiuta ad affrontare le grandi prove … È il vero tesoro dell’uomo!”, dice per esperienza papa Francesco. Per ognuno in realtà l’inizio della vocazione è accorgersi che Qualcuno gli sta sorridendo. Allora quando la persona si ritrova in cappella con tutto il proprio essere, la sua solitudine si colma di presenza e i problemi si immergono in un invisibile, incomprensibile mistero d’amore. Il tempo vissuto e quello che attende come un dono da riempire di vita sono lì. Il che consente di mettere in fila le priorità. Poi sotto lo sguardo di Dio – quello che davvero definisce ognuno – è più facile fare le ‘cose’, o cercare almeno di farlo. E la persona conosce la gioia di essere invasa da un amore che è oltre ogni misura.

Ma se in passato molte cose – silenzio, meditazione, adorazione … – erano ovvie e, così, facilmente diventavano una routine, oggi sono necessari momenti contemplativi più consapevoli, espliciti, personali per poter fare esperienza dell’unico Amore che conta e comunicarlo. Le persone consacrate oggi si pongono controcorrente solo con il loro “rimanere nell’amore” (Gv 15,9). Cosa questa quanto mai necessaria se si pensa alla fretta, alla frenesia, spesso alla superficialità dominanti un po’ dappertutto, nelle quali “si sono perse le risposte profonde della vita dell’uomo. E quel che è peggio, si sono dimenticate le domande” (Z. Bauman), che pervadono il destino dell’uomo.

… uscire allo scoperto!
“Comprendere le cose in modo nuovo apre nuovi modi di vivere” riflette T. Radcliffe. Gesù, inviando i discepoli ad annunciare la buona notizia del suo Amore, non discute con loro di piani satsag3714_zps56274beao di strategie. Sembra quasi che non gli interessi quello che ognuno fa. Solo chiede: “Mi ami tu?”. In altri termini: hai fiducia in me? E ancor prima: batte davvero il tuo cuore, o nel tran tran quotidiano si è fatto vuoto, desolato, ‘indurito’?… Perché in realtà “l’opposto della gioia non è il dolore, è la durezza di cuore” (T. Radcliffe), quella che rafforza l’egocentrismo e blocca; invade i pensieri e i sogni; fa credere di essere il centro del mondo e riempie di arroganza; facilmente fa troppo pieni di parole, congetture, supposizioni, astrazioni, giudizi che rischiano sempre di ‘ustionare’ il prossimo… E via elencando! Papa Francesco invita a guardarsi dentro nel guazzabuglio e chiedersi: “Hai un cuore che desidera qualcosa di grande o un cuore addormentato dalle cose?”. Certo per un cuore che non ha conservato l’inquietudine della ricerca diventa decisamente difficile percepire nel quotidiano il “seguimi” di Cristo e orientarsi alla sua luce; come pure capire il prossimo e il mondo. E probabilmente anche se stessi. Il cuore, infatti “da sempre, arriva dove la mente si ferma. Non perché sia migliore. Segue solo un’altra strada” (B. Severgnini). Ed è forse per questo che della propria storia – come scriveva Pavese – “non si ricordano i giorni; si ricordano gli attimi”, quelli nei quali sono in azione i ricettori dell’empatia.

Lo strumento dell’empatia
emozioni-1Il dono naturale di condividere gli stati d’animo è concesso a molti, ma non a tutti. Tra i fortunati, c’è chi lo coltiva e chi lo trascura. Eppure una bussola emotiva può mettere in grado di leggere le situazioni a partire dalle radici e l’intelligenza emotiva, come strumento umano per comunicare, funziona. Certo essa è un po’ come la fiducia: può essere tradita perché le emozioni  - che arrivano sempre prima dei ragionamenti e dei fatti – hanno due facce, una oscura e l’altra luminosa. L’esperienza dei grandi ‘populisti’ di ogni epoca ha molto da raccontare su questo… In genere, comunque, alle radici del fallimento comunicativo è l’atteggiamento di fondo del voler dominare e identificare con sé (scimmiottatura della vera comunicazione!!) come pure la fretta di comunicare; o il cercare di salvarsi con tutti senza però impegnarsi con nessuno; l’agire in modo che nessuno possa criticare il proprio comportamento e navigare tra le parti senza compromettersi… Ma così non si vive.

Comunicare: arduo, ma possibile
Sono le parole buone che guariscono e benedicono. Ed è chi ha sopportato un grande dolore che riesce a pronunciare le più forti parole di vita, quelle che aiutano a scoprire la verità di sé e della natura umana, e a raccogliere le persone per fare comunità vive. La sfida certo richiede profondità, attenzione alla vita, sensibilità spirituale… Ma quando si comunica mettendo in imagesgioco se stessi e accogliendo l’altro per quello che realmente è, certamente si diventa punto di riferimento per chi vive accanto. Il coinvolgimento personale infatti è la radice stessa dell’affidabilità.

Perplessi e confusi come tutti, i consacrati – lasciando che il Vangelo riporti il proprio cuore al silenzio – possono testimoniare che Gesù è maestro della comunicazione per chi si dispone a seguirlo nel cammino della speranza indicato da lui. Con Gesù comunicare rimane certamente arduo, ma possibile e gratificante. Così scegliere di incontrare chiunque non abbia nessuno aiuta a purificare le parole dal veleno implicito. E i propri fallimenti, accolti dalle mani di Dio, diventano parte del viaggio verso di lui. Soprattutto possono costruire comunione con tutti gli uomini che aspirano a qualcosa di più di quanto non sia puramente umano. Questo ‘di più’ si può solo chiedere come un dono. E intanto fare la propria piccola parte.

  Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

La grande transizione

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apr 01 2015

orme_di_Cristo  La grande transizione

nella riflessione di Luigino Bruni, 

che, su un tema attinente,

sarà relatore  all’Assemblea Nazionale USMI

dell’8-10 aprile 2015.

 

 

Leggi i suoi articoli:

Il ‘carisma’ messo alla prova delle culture

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mar 26 2015

Siamo chiamate a integrarci armonicamente nella vita della gente per il bene di tutti
La fraternità tra gli uomini – come ogni fraternità – discende da una comune paternità. Non si scelgono i fratelli: si trovano. Dio è padre di tutti: ogni uomo è perciò mio fratello, ogni _21_1_1_118_donna è mia sorella. Questo implica che nella società – e a fortiori nella vita consacrata – ciò che deve cambiare sono le relazioni per arrivare al cuore della famiglia umana. Non ci sono padroni e schiavi nella società, non ci sono cittadini e stranieri, maggiori e minori. Tutti siamo fratelli.

Desidero partire da lontano, dal libro del Genesi: “Caino, dov’è tuo fratello Abele?” (Gen 4,9). E dal Deuteronomio: “Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama i forestieri e gli dà pace e vestito: amate dunque il forestiero” (Deut 10,17-19).
Anche per noi consacrate, c’è sempre da imparare in proposito, e dopo aver imparato c’è da mettere in pratica, soprattutto oggi, nella nostra società sempre più multiculturale e multirazziale, in cui la mobilità umana aumenta ogni giorno. E’ vero infatti che la società globalizzata – e ne facciamo ogni giorno l’esperienza – ci rende ogni giorno più vicini, ma non ci rende automaticamente fratelli e sorelle. E’ vero che la nostra società diventa sempre  più multiculturale, ma è con fatica che cammina verso l’interculturalità, cioè verso il riconoscimento e l’accettazione reciproca del genio delle diverse culture.
Il grande Papa Paolo VI, per la giornata della Pace del 1° gennaio 1971 scelse opportunamente come tema il noto richiamo biblico: “Dov’è il tuo fratello?” (Gen 4,9), che venne poi ripreso successivamente in alcune giornate  per le migrazioni a livello italiano e mondiale e trova spazio anche nell’Enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI e in tanti interventi di Papa Francesco.

Scrive Papa Francesco nella Evangelii gaudium:
“l poveri e i deboli hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente”. Dobbiamo farci  evangelizzare da loro (tutti dal vescovo di Roma fino all’ultimo dei cristiani). La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a riconoscere Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli e comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.
E ancora: “L’altro (il povero, il bisognoso, il bambino che fugge da una situazione di guerra) è terra sacra …”.

Queste parole sono un invito a guardarci attorno per verificare se i fratelli e le sorelle che Dio ci dona  (nella nostra comunità, in chiesa, per la strada, nei negozi, all’angolo delle strade, nella nostro servizio quotidiano …), qualunque sia la loro lingua, cultura, etnia e colore della pelle, hanno per noi volto di fratelli; ma sono anche un invito a guardarci dentro, nelle pieghe della coscienza, per verificare se la nostra fraternità ha radici profonde, quelle che si ancorano ai valori fondamentali del Vangelo, e se le nostre comunità credono nella fecondità dell’incontro, soprattutto con chi viene messo ai margini. Sono un invito a riscoprire la forza vitale dei poveri di beni materiali, persone senza lavoro, donne e bambini calpestati nella propria dignità, anziani abbandonai, malati, giovani in ricerca di un senso della vita.

Domandiamoci: dove trovare la forza per questo cammino perché sia sempre in salita? Come renderci capaci di riscoprire un nuovo modo di vivere insieme con persone di diversa cultura, provenienza, religione nel segno della convivialità delle differenze e della solidarietà?E come educarci alle relazioni, vera sfida per vivere in una società, in una Congregazione religiosa  sempre più multietnica e multiculturale? Come vivere con semplicità, sapienza, creatività e pace il dono della diversità, della multiculturalità e come farne una ricchezza interculturale in cui sia valorizzato il “genio” delle diverse culture;  e come integrarci nella vita della gente, dei nostri fratelli e sorelle?

A me pare che ci sia una strada preferenziale: lasciarci inquietare dalla meditazione di un aggettivo ricorrente nella preghiera che ci ha insegnato Gesù: l’aggettivo “nostro”.
Padre nostro che sei nei cieli…Dacci oggi il nostro pane quotidiano… perdona i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori …
Dire Padre nostro è possedere la certezza di avere un padre, il padre di tutti, e questo ci libera dalla tentazione di escludere alcuni dal nostro amore; dire Padre nostro è scoprirsi figli, e questo ci libera dalla tentazione di rivendicare dei diritti in più rispetto ai nostri fratelli e sorelle; dire Padre nostro è scoprirsi fratelli e sorelle, e questo libera dall’indifferenza e dalla non comprensione dell’altro.
Anche i nostri fratelli e le nostre sorelle immigrati hanno bisogno di sentire che hanno un Padre vicino alla loro vita e che li ama; di sentire il calore degli altri fratelli e sorelle – il nostro calore di sorelle e madri; di scoprirsi figli della Chiesa e del cammino di evangelizzazione che essa ha compiuto e va compiendo con il contributo di tutti

1.    Padre “nostro” che sei nei cieli …  venga il tuo Regno

Dire “Padre nostro” è avere il coraggio di riaffermare che tutti siamo chiamati da ogni terra, popolo e nazione a vivere nella Casa del Padre per costruire il Regno, che è Regno di verità, di

giovani-insieme-15-8-13-21amore e di pace. Così ci vuole Dio: ingegneri, architetti, artisti  di questo Regno.

Il cuore della rivelazione del Regno è che non esiste nulla al di sopra delle persone e alla comunione delle persone: dobbiamo crederlo e fare di questo dono un impegno. Dice S. Agostino: “Dio vuole che il Suo dono diventi tua conquista”.
Di fronte a un’umanità che ha perso la consapevolezza della propria comune origine e il gusto della fraternità,  Dio ci chiama ad essere testimoni di un nuovo umanesimo, a fare memoria che ciascuno di noi è unico e irripetibile e che ciascuno – proprio per la sua originalità – è importante per la vita della società e per la sua armonia. Non solo, ma ci ricorda che Egli è Padre, il Padre di tutti. Un “Padre che ama e ha cura”, il “Padre nostro”, di ciascuno e di tutti. Dio è un Padre che ama tutte le sue creature, nate dal suo amore e uscite dalle sue mani; Dio ama ciascuno di noi, e ogni nostro fratello e sorella, in modo particolare, privilegiato, unico e ci insegna ad amarci, a rispettarci, a fidarci uno dell’altro, a sostenerci.

Gli altri, i fratelli e le sorelle con cui veniamo a contatto ogni giorno,  ci appartengono e per questa appartenenza noi continuiamo a credere nella fecondità del comandamento di Gesù: “Amatevi come io vi ho amato…”, e a lasciarci trasformare dal suo esempio quando lava i piedi ai discepoli, quando chiama Giuda  “amico”, quando piange su Lazzaro morto, quando risuscita il figlio della vedova, quando riscatta l’adultera, quando prega per chi lo uccide… Ed è da questa appartenenza reciproca che nasce l’esigenza e il dovere ìdi capire l’altro nella sua differenza, senza giudicarlo o condannarlo. Ma più ancora di confermarlo nei suoi doni e nella sua differenza.

  1. 2.    Dacci oggi il “nostro” pane quotidiano

Il  mio pane è anche dei  miei fratelli e delle mie sorelle e il pane dei miei fratelli e delle mie sorelle è anche il mio pane, un pane che alimenta e fa bella la vita. Si chiama condivisione, gratuità, responsabilità, dialogo, capacità di valorizzare le differenze, di essere “custodi” dei fratelli e delle sorelle, di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca,  di attenzione al bene dell’altro, a tutto il suo bene. E’ pane fresco ogni giorno, che dà la forza per il cammino. Pane fresco ogni giorno: Dio non accumula nei granai, ma distribuisce a dismisura…
L’impasto del pane quotidiano inizia col vestire a festa le cose di tutti i giorni e mettere al bando ogni rivendicazione di superiorità. Non ci sono culture minori o maggiori (non ci sono maggiori e minori in una società multiculturale), come non ci sono minori e maggiori nelle nostre comunità. Ogni cultura ha le sue ricchezze e le sue preziosità e ogni persona è ricca della sua dignità e delle ricchezze della sua cultura.  La fraternità vera chiede di instaurare quel clima di minorità francescana per cui, all’occorrenza, ciascuno è disponibile a diventare maestro e allievo, a offrire il proprio pane e a ricevere il pane del fratello o della sorella per condividerlo alla stessa mensa. E ciò è fondamentale perché ognuno di noi è limitato, ogni cultura è relativa e la comunità ha bisogno di tutti e di ciascuno: ciascuno con quello che è e che sa fare.
Nella preghiera del “Padre nostro” diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Con questa domanda ricordiamo e affermiamo il nostro esistere gli uni per gli altri. Affermiamo che viviamo di ospitalità reciproca. Ciò significa che “l’altro mi appartiene; la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza” (Messaggio quaresima 2012).

Hanno scritto acutamente Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola:
«Ciascuna donna e ciascun uomo, nella reciprocità del convivere, apprendono l’umiltà di essere limitati, la necessità di riconoscersi l’uno nell’altro, di stimare ed essere stimati, di essere, alternativamente, ora il pieno ora il vuoto, ora l’attivo ora il passivo, ora il discepolo ora il maestro […]. Sarebbe un danno essere sempre maestri […]. Sarebbe parimenti un danno essere sempre e solo discepoli, se ciò significasse rinunciare a far emergere i tesori nascosti che ciascuno porta in sé…». Maestri e discepoli. Felici di essere ora l’uno ora l’altro.

  1. 3.    Perdona a noi i “nostri debiti” come noi li perdoniamo ai “nostri” debitori…

Di grande importanza, anzi di assoluta necessità, per la pace e l’armonia di una società  multiculturale di una Congregazione che vuole allargare la propria tenda sulle frontiere dell’interculturalità,  è il pane del perdono offerto e accolto: 70 volte 7. La fratellanza, l’unità, non hanno altra regola. Ce lo ha insegnato Gesù, con la parabola del Figliol prodigo, con lo sguardo rivolto a Pietro dopo il tradimento, con le parole dette al ladrone sulla croce: “Oggi sarai con me in paradiso…..

Riguardo al perdono, non posso non fare memoria del Beato Giovanni Paolo II.

Ci vorrebbe un’enciclopedia per tratteggiare qualche elemento di questo aspetto della sua vita … Il perdono del suo attentatore, il perdono per i mali della Chiesa, fatti alla Chiesa e dalla Chiesa… Chiese perdono per tutte le persecuzioni, per tutti i perseguitati del mondo, chiese perdono agli Ebrei, chiamandoli, i nostri fratelli maggiori, chiese perdono ai Cristiani Ortodossi, agli africani per quando furono ridotti in schiavitù. Chiese perdono per colpe non sue, assumendosi il dolore e le colpe del mondo.

Ovviamente, non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi sulle difficoltà che il perdono comporta., Possiamo sperimentare il dissenso, il conflitto, la distanza, la paura, ma devono essere espressi sempre in forma rispettosa e collaborativa. La difficoltà fa parte della vita. Ciò che va bandito è la distanza, il rifiuto, il giudizio, la pretesa di avere ragione a tutti i costi…

vita-consacrataE’ solo facendo l’esperienza del perdono che Dio ci offre gratuitamente che possiamo disarmare il cuore, imparare a perdonare a nostra volta e camminare più speditamente verso l’unità dell’amore, quell’armonia delle culture e delle genti che è “il sogno stupendo” del Padre.

Concludendo. L’incontro con nuove culture e nuovi popoli non può lasciarci  immobili nella contemplazione di una storia già compiuta e che si vuole solo diffondere. L’incontro è autentico, invece, se comporta non solo un processo di adattamento alle nuove esigenze esteriori, ma soprattutto una rilettura del carisma e del suo sviluppo. In questo sforzo di inculturazione, non basta mirare a rinnovare i metodi pastorali, né a meglio adattare le strutture dell’istituto, né ad esplorare con maggiore acume i fondamenti biblici e teologici della fede; occorre suscitare un nuovo slancio di santità.[1]

Enrica Rosanna fma
Già Sottosegretario CIVCSVA



[1] Cfr. Redemptoris missio, 90.

L’Amore c’è e fa la differenza

Senza categoria | Posted by usmionline
mar 16 2015

Nessuna dose di autentico amore umano potrà mai annullare la solitudine umana. Ma abitare la propria vita interiore insegna a piangere, rende capaci di relazioni solide e durature e permette di scoprire che ogni croce è mistero d’amore e di comunione.

Dentro il vicolo cieco della nostra cultura
Noi non siamo - rifletteva K. Rahner – degli esseri che diventano soli… Noi siamo una solitudine. Siamo una sete che sta dentro la natura, un grido di tutto l’essere e una possibilità di orario-docentiricevere amore infinito. E se è così, la solitudine ci è essenziale perché elemento costitutivo della personalità di ogni creatura umana. Anche Seneca duemila anni fa poteva affermare che “La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”. Infatti essa stimola e costringe a proseguire nello sforzo per raggiungere la conoscenza e l’amore assoluti. Ma P.P. Pasolini, già partecipe del nostro tempo, riconosce che “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. In realtà prendere le misure della propria solitudine obbliga a ripiegarsi su di sé e a scandagliare le proprie emozioni… E questo oggi fa proprio paura. Ma la sofferenza che l’accompagna non può certo essere lasciata nell’ombra. Soprattutto non serve – come invece oggi è nel fare dei più – cercare continuamente di negarla e di rimuoverla. Questo paradossalmente fa solo crescere la minaccia del suo spauracchio, non ne spiega il senso, e invece distrae la persona dallo scopo per cui ognuno è stato creato.

Tra fascino del nulla…
Ogni notte si prende commiato dal giorno ricevuto in dono… e alla fine si muore da soli, certo. È il cammino di tutti, credenti e non. È lo scandalo e il terrore della morte. In quella solitudine, dice K. Rahner, nessuno ci può accompagnare; cessa il chiasso delle chiacchiere. Nessuno si può nascondere dietro un altro e trovare una scappatoia richiamandosi al parere altrui. Lì vale solo ciò che si può portare con sé: se stessi come si è nel più profondo del cuore.

La solitudine che viene dall’assenza di senso è ancora più dolorosa di qualsiasi dolore fisico e di qualsiasi sofferenza psicologica. Che cosa vuole Dio dall’immenso pianto del mondo? Gesù dice: se vuoi essere mio discepolo, accetta di essere ‘figlio’ e ‘fratello’, non il centro dell’universo. Dimenticati per ritrovarti. Abbandonati tanto all’Amore del Padre da non avere più bisogno di pensare a te stesso. In realtà la storia del cristiano è sinergia con Dio o non è.
Ma il silenzio intorno è povero, vuoto e triste. E la soluzione più semplice sembra essere riempirlo di rumore…  Rumore interiore, pensieri che si affollano, desideri, sogni… e, quando non c’è questo, accendere la Tv, chattare in internet in modo frenetico, sempre occupati!
Rimane però vero che solo nel silenzio profondo si svegliano le forze del cuore che lo rendono abitato. E solo nella solitudine si può cercare Uno che parli sul cuore.

… e avventura interiore
Credere è osare l’affidamento al TU sempre misterioso di Dio e voglia di vegliare finché Egli non ‘regna’ in mezzo a noi; alzare il capo cercando la sua luce e costruire ogni giornata 1230070_670322783019540_1542914732_nsu questa ricerca. L’avventura interiore della solitudine è la più grande, quella dove si osa di più perché non si sa verso che cosa ci si sta dirigendo. Ci si muove infatti verso l’ignoto, in territori inesplorati dove non esistono mappe. Ma il discepolo sa come sintonizzarsi con il Maestro. Sa che, qualunque sia il percorso che si sta seguendo, la traiettoria della vita spirituale passa sempre per la resa. E quando è forte l’impressione di battere l’aria e di affaticarsi per niente, quando il peso degli altri e delle situazioni appare troppo grande, sa che è necessario alzare gli occhi dai propri mille problemi, verso il Signore, che alle sue creature assicura: io sono con te, non ti lascio più, non sarai mai più abbandonato. Si intravede allora la via per essere cittadini del Regno. Ciò che Cristo chiede per entrarvi è la purezza di cuore, l’apertura a Dio e agli altri, guardare intorno con gli occhi di Cristo e amare con il suo cuore. E sentire finalmente che il proprio cuore si trasforma un po’ per volta in ciò che ama; preoccupato non tanto di affrontare i suoi problemi, ma di affrontare e risolvere quelli degli altri. Ed è vita vissuta nella fede che l’Amore c’è e fa la differenza. E si vede.

La solitudine del Regno è aperta a tutti
L’incapacità di abitare la propria vita interiore diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. “Talvolta mi sono sentito solo, ma questo mi ha solitudineinsegnato a piangere” (G. Lightfoot). E non è piccola cosa. Nella solitudine si vede la verità. Se la si ascolta, la sofferenza insegna che in questa vita tutte le sinfonie rimangono incompiute e si può capire la vera condizione di esseri umani. S. Agostino assicura: “Nella solitudine, se  l’anima è attenta, Dio si lascia vedere”. Colui, che sulla Croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo il suo abbandono, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. È insomma per tutti mistero d’amore. Gesù è venuto solo per dire ad ognuno: credi in te stesso. Ti senti fragile e sei fragile, ma il tuo cuore è la cosa più bella che c’è in te. Riscopri quel luogo interiore in cui ha senso dire Dio e insieme misericordia, speranza… Credi nel Vangelo, immergi nella Parola la tua vita e derivane le scelte.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Perché avete paura? (Mc 4,40)

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mar 04 2015

Quando nel cuore e intorno è notte, Dio abita nei passi di quanti lo cercano. Non ruba il cuore di chi pone in Lui la sua fiducia, lo moltiplica. Vuole figli romenaguariti dalla paura e dalla fatica. Si chinerà su ognuno e nessun sospiro o tremore andrà perduto.

La fede dentro la paura di scomparire nel nulla
In un mondo che sembra aver creato l’età dell’odio e ben pochi mattoni per edificare la ‘civiltà dell’amore’, tanti trascinano la propria vita senza ‘se e ma e perché’. Eppure anch’essi più o meno consapevolmente rimangono alla ricerca di uno spiraglio di cielo. Dice bene Felice Scalia: “Gli uomini del Terzo Millennio, nonostante ogni apparenza, non si rassegnano. Non sanno forse di chi, ma sono in attesa di qualcuno che indichi una luce oltre un tunnel”. È presuntuoso allora pensare a questa umanità, in attesa di autentici consacrati al Dio della vita? La fede oggi nonostante le apparenze non sta morendo. Libertà e amore sono sempre al cuore del mistero cristiano. E chi ha scommesso tutto per il Regno e ha trovato nel paradosso del Vangelo l’apertura di orizzonti nuovi alla propria esistenza, non è certo fuori tempo. Fede e Vangelo sono anzi, oggi più che mai, destinati a far fiorire una più grande radicalità evangelica.

Erri De Luca riflette che non credente – anche se battezzato – è chi non parte mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente. Papa Francesco a sua volta assicura: “I cristiani seduti e quieti non conosceranno il volto di Dio. Per camminare è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo”. Si tratta allora per tutti di non vivere impiantati nelle proprie piccole certezze quotidiane e/o paure, ma “lasciare che Dio o la vita ci metta alla prova”. È Dio a gettare luce sulla necessità di ‘passare’ attraverso la ‘prova’. Lo ha fatto con il ‘passaggio’ per eccellenza: quello del suo Figlio eterno nel tempo, e nella morte per la risurrezione. Due soglie che spezzano il cerchio della vita chiusa nel silenzio del nulla e, agli occhi della fede, rivelano il senso ultimo del vivere e del morire. Pasqua è “passare”. Non festa per ‘residenti’, quindi, ma per migratori che si affrettano al viaggio. E via alla Pasqua è soprattutto fabbricare passaggi là dove esistono muri e sbarramenti; farsi operatori di brecce e atleti di pace, anche attraverso un meno ‘fare’ e un più ‘essere’ … Così, se ogni nascita è sempre un passaggio, credere è non smettere mai di nascere e di rischiare pur di accogliere quell’Amore gratuitamente donato a tutti.

Trionfo della ‘maschera’ e primavera di verità…
“Dalla morte, dal timore della morte – afferma Franz Rosenzweig – prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. E il dolore è il “luogo in cui l’insondabile umano invoca e tocca l’insondabile divino” (G. Marcel). Ma il nostro tempo ha “isolato” la malattia in un mondo che sembra non esistere finché non lo s’incontra; ed ha evaso completamente la morte, escludendola da ogni dibattito e operandone una vera e propria eclissi. Quando poi non può tacere di essa, la trasforma in spettacolo per esorcizzarne il pungolo doloroso. E per la persona è il trionfo della maschera a scapito della verità. Si tratta allora di ritrovare il senso al di là del naufragio. Una sfida per tutti. Una possibile promessa su cui vale la pena di riflettere insieme, credenti e non credenti, per cogliere in tutta la sua radicalità la dignità della vita personale, senza pregiudizi e senza alibi, liberi dalla paura. In sintesi: compito primario oggi per i consacrati è porsi la grande domanda del dolore e della morte; darsene “risposte sempre più approfondite e più vicine a quel ‘perché’ fondamentale e ultimo, che è l’azione dello Spirito nella storia umana, in tutti gli uomini che ne fanno parte” (B. Forte).

…nella prova della malattia e della vecchiaia
timthumbÈ la malattia a far capire che il tempo è contato, più breve di quello che si riesce a pensare quando si è sani. Da tale consapevolezza scaturisce una vertigine che spesso impasta la vita di malinconia e di un’angoscia diffusamente umana. Ma ne scaturisce anche il netto rifiuto del nulla, che per contraccolpo suscita la forza del domandare. Quando l’età avanza e la salute comincia a venir meno, è realtà per tutti – anche per i cristiani e i religiosi – sentirsi più stanchi, tendere a lasciarsi prendere dalla paura di invecchiare, di ammalarsi e scomparire nel nulla. È realtà essere tentati di fare riserva di sé, non aprirsi più agli altri, alla vita comune …; realtà lasciarsi prendere dal timore, quasi dalla vergogna di essere di peso agli altri nel farsi servire e aiutare, ritrovarsi a lottare perfino contro il desiderio di essere eterni sulla terra. In una comunità cristiana piena di impegni e di attività, si soffre anche per il senso di solitudine. A volte poi c’è il timore di non ricevere le cure adatte … Pensieri tutti che rischiano di confondere e di turbare lo spirito.

La forza e la gioia della fiducia in Dio
Perché avete paura? La Parola di Dio, da un capo all’altro della Bibbia, conforta e incalza, mentre infinite volte ripete all’uomo: Non temere, non avere paura! E il suo ‘non avere paura!’ raggiunge ognuno come il pane quotidiano del buongiorno ad ogni risveglio. Ma Adamo fugge e neppure immagina il perdono. Mosso dalla paura di Dio pecca di fiducia e di fede. La sua è la peggiore di tutte le paure, da cui le altre – quella del bambino, del fragile, del malato, del povero, del morente … – discendono come figlie naturali. Rimane però quel ‘Non avere paura!’: parola viva, essenziale, sobria, che non accarezza l’orecchio, ma va al cuore dell’esistenza di chi le apre la propria vita. E spalanca orizzonti impensati, che né la banale chiacchiera benessere4umana, né il ragionamento dotto di questo mondo sono in grado di aprire. Diventa soglia e misura di opere e giorni, in cui la morte è vinta grazie a sempre nuove scelte d’amore. Ma come una creatura umana concretamente potrà liberarsi dalla prigionia interiore delle proprie paure, che a volte diventano incubi? Gesù indica ad ognuno un solo mezzo: la fiducia nel ‘potere’ che egli chiama suo e nostro Padre. Da una piena fiducia in Lui scaturisce quell’apertura del cuore che permette di superare confini e abbandonare comportamenti egoistici, violenti e presuntuosi … quelli che in se stessi in genere si danno per scontati. Si scopre allora che “la grazia vale più della vita” (Sal 62). Ed è la gioia di intraprendere, ancora e ancora, un’esistenza sospesa a Dio, calcolata sulle sue possibilità e non sulle proprie: la forza nuova capace di far vivere in modo nuovo.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Per una Quaresima intensa e vera

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feb 26 2015

AEFJN photo logo finalRiceviamo da Antenna Italiana AEFJN – Rete di Consacrate/i  al servizio degli ultimi – e volentieri pubblichiamo una meditazione per la Quaresima organizzata dal Segretariato AEFJN, in francese e inglese.
Ottima  per l’Anno della Vita Consacrata.
Buon cammino di Quaresima in preparazione di una Pasqua di risurrezione. Saluti fraterni.
Francesca Sekli – PSA
Antenna Italiana AEFJN 

Lenten meditations – Grateful for the past – living the present with passion

Careme – reconnaisant pour le passé – passionnement engagé dans le present

Dentro le sfide contemporanee

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feb 17 2015

L’incoerenza è dentro l’uomo come parte della vita. Il servizio – nome segreto della civiltà – è lo stile di Dio. Pensare davanti a Lui e sentirsi da Lui voluti e amati
aperturaridesta la vita da tutte le sue stanchezze. Ed è l’inizio della profezia che oggi consente di non dissolversi nell’insignificanza di una notte senza incontri autentici.

Comunità cristiane fra sfide contemporanee …
Guerre atroci rafforzano oggi come non mai l’oppressione dei potenti sui più deboli. Notizie raccapriccianti ci raggiungono quotidianamente da realtà sempre più ‘domestiche’. E nel mondo globale un sistema strutturale di ingiustizia continua a generare sofferenza. L’uomo si ritrova a muoversi quasi piccola rotella di un’enorme macchina destinata a produrre per consumare e a consumare per produrre, non si sa più che cosa e perché!
Davvero grandi sono le sfide con cui ogni comunità cristiana è chiamata a misurarsi in questo nostro tempo.

“Senza la misericordia c’è poco da fare per inserirsi in un mondo di “feriti” che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”, richiama papa Francesco. Ma nel deserto degli affetti di tanti – che oggi sono divorati dal vuoto e dal silenzio e al cui grido di aiuto nessuno risponde – come mostrare i valori proclamati da Cristo? Certo non basta dire: non possiamo farci niente! La strada per tutti è segnata dai discepoli di Cristo impegnati a convertire quei valori in vita quotidiana. Come i due di Emmaus, tanti figli della Chiesa oggi camminano come in un esodo. Servono cristiani che conoscano se stessi e la propria notte e non abbiano paura di uscire nella notte delle persone; che siano in grado di intercettare i passi di uomini e donne di questa modernità, inserirsi nella loro conversazione, far compagnia e riscaldare il cuore andando al di là del semplice ascolto. Per tutto questo è necessario imparare a leggere le situazioni con coraggio, capire le dinamiche di un mondo globale e diverso e non restare ai margini del dibattito culturale e sociale che lo anima. Tanto meno servono cristiani che si lamentano di tutti, sempre pronti a puntare il dito contro, dimenticando così che anche l’aria inquinata della strada e della vita ha diritto a godere del vento di Pentecoste.

… il pericolo dell’evasione e lo scandalo delle divisioni
Già C.M. Martini invitava i religiosi a riflettere: “L’attenzione alle sfide contemporanee misura  per così dire la qualità della vita consacrata nella sua capacità di mettersi in stato di risposta e di proposta”. Questo in concreto significa prima di tutto disporsi a riconoscere e superare quelle reticenze, diffidenze, persino il disprezzo e la condanna di cui sono intessuti oggi tanti, troppi discorsi di persone ‘perbene’. Discorsi che in fondo nascondono un atteggiamento permanente di difesa di sé nei confronti della ‘diversità’:… quella dei giovani, degli immigrati, dei ‘barboni’, degli zingari, dei politici … in sintesi: del nostro tempo! E se l’evasione dalla realtà minaccia in tanti modi – persino attraverso impegni “decaffeinati” e comodi – il images (2)pericolo in tutti i casi è sempre: guardare dall’altra parte e … passare oltre! E sempre è segno che si soffre di una innegabile anemia evangelica, che occorre curare. Primo intervento terapeutico può essere quello di affrontare i fantasmi che circolano nella propria comunità per mancanza di trasparenza e di dialogo, e nello stesso
tempo disporsi a vagliare tutto ciò che in sé genera sfiducia o paura.
Poi pensare davanti a Dio, entrare in contatto con lui, godere della sua presenza, mettersi in ascolto e assaporarne le risonanze … E il ‘Dio con noi’ aiuterà a trovare le vere ragioni, pur con mancanze e ritardi, per vivere insieme. Allora non sarà più un problema mescolarsi e contaminarsi con l’umanità ferita gravemente. E chissà che anche nel … dialogo quotidiano con i più vicini non si diventi finalmente capaci di salvare l’argomento di verità che è in ognuno, invece di condannare istintivamente e a priori la persona! Nello stile di Dio, la verità è sempre relazione e per essa le realtà alle quali è necessario morire sono decisamente tante. D’altra parte ogni semina è piena di morte, come dice il Salmo: andando piangevano… (Cfr Sal 125,6).

Preziosi o inutili?…
Churchill con la sua saggia ironia, segnalava che “il problema della nostra epoca è che gli uomini non vogliono essere utili, ma importanti”. In realtà il grande limite umano è  proprio la paura di non ricevere applausi e non incontrare consensi. Di qui forse nasce quel bisogno istintivo e prepotente un po’ comune a tutti di abbassare qualcuno per sentirsi un po’ ‘di più’ fino a ritenersi ‘primo della classe’. Con la verità ‘in tasca’ si ha sempre ragione, si vuole dire tutto, si anticipa l’altro, si arriva persino a non impegnarsi più per vivere ciò che si pensa e si dice. E addirittura lo si giustifica. Si fanno tante cose e non si ‘vede’ niente, perché non si ascolta. Si vive insomma la storia con vanità, perché se conta ciò che gli altri vedono della persona, allora non si è che la propria immagine.

Per uscire da tale situazione, a tutti forse occorre recuperare la dimensione di un tempo che non è nostro e non ci appartiene. Si potrà allora fare esperienza che valore del tempo è l’incontro con se stessi, con la società, i poveri, la natura… Dio. In tale impegno personale, concreto e quotidiano non c’è nessuna prima fila.

Chiamati all’umiltà e all’incontro per aprire un nuovo cammino
Profezia oggi è quella di chi – nella convinzione che vicinissimo alla vita di ognuno Dio cammina, parla e soffre con i suoi figli – a sua volta ascolta e accompagna senza protagonismi o esibizionismi; senza voler dirigere la vita di nessuno e soprattutto senza avvicinarsi agli altri camminando in fretta con una valigetta di cose imparate, da ripetere come un’eco e senza immaginazione.

LogoSma_2010È urgente e bello arrivare a riconciliarsi con il proprio tempo ritrovando l’umiltà e il limite.  Altrettanto urgente e bello è che la vita consacrata del presente non deleghi e non rinunci alla sua condizione profetica. Profezia, soprattutto oggi, è non cercare consensi, ma farsi spazio nuotando e nuotando finché altri si uniscono … Allora si respirerà un Dio diverso, per il quale uno solo è come 99, come tutti. Di qui scaturisce quella dignità di ogni persona, che la società civile oggi proclama sì a parole, ma alla quale non sempre è abituata. Insieme – come autentici professionisti della società che non smettono di essere professionisti dello Spirito – si sarà capaci di abbandonare le paure e guardare con speranza gli orizzonti che ci si presentano.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Consacrati non perfetti ma felici

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feb 09 2015

Appello alla solidarietà creativa

Intervista a Fratel MichaelDavide Semeraro[1]

Da un piccolo villaggio in montagna, dove sono convenuti successivamente e senza progetti precisi tre monaci, per vivere semplicemente nel silenzio e nella comunione, parte come
creativita-500x314un appello, paradossalmente – ma positivamente – rivoluzionario: “Consacrati di tutto il mondo, unitevi”. Sono le ultime parole di un libro pubblicato da EDB con il titolo “Non perfetti ma felici”, frutto della riflessiva esperienza di Fratel MichaelDavide Semeraro. L’abbiamo intervistato nel contesto della piccola Koinonia della Visitation a Rhèmes-Notre-Dame in Valle d’Aosta, dove vive da alcuni anni.

Iniziamo dal titolo… così chiaro e tuttavia non immediato. Una provocazione o uno stimolo?

Direi uno stimolo che vuole essere una pro-vocazione che non ha nulla a che vedere con un atteggiamento né ipercritico né tanto meno ingenuo. Ritengo, anche alla luce del magistero di papa Francesco, che la sfida per la vita consacrata non è quella di una perfezione, più immaginata che incarnata, ma la testimonianza di una felicità possibile nel paradosso della vita concreta e nei limiti di ogni umana avventura.

L’ultima parola, invece, ancora più pro-vocatoria, invita i religiosi di tutto il mondo a “unirsi”. Questo ci porta a una seconda domanda: perché questo libro? E quindi per chi?

Questo libro nasce dal lavoro fatto con alcune religiose che mi hanno invitato a riflettere per loro e con loro sulle sfide della vita consacrata nella realtà del nostro tempo. Non nasce quindi a tavolino, ma in un dialogo franco e fraterno in cui più che “insegnare” o dare soluzioni, ho cercato di condividere e di stimolare ad una serena e creativa re-immaginazione della vita consacrata. È un libro che si rivolge prima di tutto ai consacrati, in una sorta di dialogo che è significato anche dalla scelta – come autore – di usare il “noi” solidale. Ma può aiutare anche chi volesse capire un po’ di più la vita consacrata sia come vescovi e presbiteri, sia come laici.

L’appello, quindi, viene non tanto da Lei, quanto dai religiosi incontrati, che aspirano a un cambiamento. Quale potrebbe essere il cuore, il perno di questa re-immaginazione della vita consacrata?

Dire che il perno è accettare la sfida di andare oltre l’idea più tradizionale di “riforma” per aprirsi a un lavoro che indico come “riformattazione”. Concretamente, significa non pensare che il meglio della vita consacrata sia nel passato alle cui forme bisognerebbe tornare. Il meglio sta nel presente accolto che apre nuove strade per il futuro, per evitare quella che, con linguaggio mediatico, possiamo definire il rischio della “rottamazione” della vita consacrata.

Tra le pagine più concrete di questo percorso emerge un’intuizione sorprendente: quella del “minimo comune denominatore”. Non potrebbe essere un terreno scivoloso per quell’individualismo che oggi dilaga già troppo in molte comunità religiose?

Il rischio c’è, ed è forte! Nello stesso tempo ritengo che lo sforzo di arginare le spinte individualistiche, con un ispessimento delle strutture comunitarie, rischia di non portare molto lontano. In realtà, la svolta o mutazione antropologica vissuta anche dai religiosi – e non solo i più giovani – esige un rispetto di diverse velocità e intensità all’interno di una vita condivisa, ma che non può essere “intruppata”. La via per evitare l’individualismo, più o meno strisciante, è la formazione delle persone come realtà individuate e aperte alla comunione fino alla disponibilità a sacrificare il proprio egoismo per fare spazio all’altro. Un lavoro che può essere fatto in modo autentico e duraturo solo a partire dalla vita interiore di ciascuno fratello o sorella.

Due parole sulle condizioni ottimali, se esistono, per un sano sviluppo di questo stile di vita consacrata: si può immaginare una dimensione ideale di comunità? Quali condizioni, di numero o altre, favoriscono questa comunione?

Non esiste una “dimensione ideale” di comunità. Personalmente ho vissuto in monasteri di taglia media (una decina di persone) come pure in un monastero dove eravamo più di cento monaci e, ora, vivo in una realtà “minima” in cui siamo tre fratelli. Dal punto di vista del numero ognuna di queste possibilità ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Ciò che fa la differenza penso sia la coscienza che ogni comunità – nella sua propria realtà in quanto a numero, età… – deve fare i conti con una prova di autenticità che è quella del cammino possibile per ogni fratello e sorella di essere fino in fondo se stesso, senza ripiegarsi su se stesso. La comunità è un luogo di “lotta spirituale” contro l’egoismo e non contro la pienezza di vita delle persone, né, tantomeno, che ne mortifichi la felicità e la speranza.

E al livello di discernimento nell’accogliere nuovi membri?

Nel discernimento per l’accoglienza di candidati alla vita consacrata penso che le realtà in gioco siano tante e possano anche cambiare in relazione al tipo particolare di vita consacrata. In ogni modo, mi sembra, come ho ricordato nel libro facendo riferimento all’icona della samaritana, che uno degli elementi fondamentali sia discernere quanto il candidato sia disposto ad attraversare fino a dichiarare il <vero> di sé. È ciò che i santi padri indicano sotto la figura dell’apertura del cuore. Questo, senza dimenticare che un giovane potrà osare il <vero> di sé a condizione che senta attorno a sé, e soprattutto da parte dei formatori, una <cura del vero>, anche a costo di non avere candidati e quindi di non avere più futuro… su questa terra.

Parlando di discernimento vocazionale, viene in mente in  particolare la questione, molto illuminante, del cosiddetto “clericalismo femminile”…

Non vorrei essere frainteso e, soprattutto, non vorrei mancare di rispetto verso le donne consacrate che, spesso, devono portare il peso di una condizione non parificata all’interno della Chiesa. In ogni modo mi sembra che per alcune donne la vita consacrata rappresenta il “ripiego” – bruttissima parola, ma efficace – per il fatto di non poter accedere al ministero ordinato. Questo, talora, può creare delle “compensazioni” pastorali che possono, in alcuni casi, andare a detrimento della centralità – nella vita consacrata – della donazione gratuita e senza ritorni e della centralità della testimonianza di vita comune più che di prestazioni individuali e troppo visibili. Ecco allora che può nascere nelle donne consacrate un atteggiamento clericale di supponenza e di magisterialità esagerata. Vale anche per i consacrati naturalmente e soprattutto per quanti accedono all’ordinazione. Per questi ultimi la scelta di vita consacrata dovrebbe rimanere primaria sul ministero. È chiaro che l’obbligo del celibato per i presbiteri diocesani, a volte non rende ben chiara per degli uomini la ragione per cui scelgono la vita consacrata e non semplicemente quella presbiterale. Paradossalmente spesso sono proprio i presbiteri secolari a vivere le conseguenze più penose del celibato in termini di solitudine e di insicurezza affettiva e protettiva. Nel libro ho insistito sul fatto che la castità non è solo rinuncia alla sessualità, ma anche – forse prima di tutto – al matrimonio come struttura di rassicurazione e di protezione. Onestamente bisogna dire che talora proprio la vita religiosa rappresenta il “matrimonio” più sicuro e duraturo.

A questo punto vengono in mente alcuni binomi che spesso, nella prolifera letteratura sulla vita consacrata, portano a un vicolo cieco: felicità-autorealizzazione versus donazione-abnegazione, bellezza versus sobrietà che spesso diventa estetismo versus sciatteria, o ancora apertura versus preservazione della specificità dei consacrati… Il titolo del suo libro “Non perfetti, ma felici” evoca un’uscita liberante da questa rete di considerazioni. Una maglia in più o un ritorno alle prime maglie del tessuto monastico?

Come diceva Thomas Merton, ogni monaco – come ogni uomo e donna – abita la complessità e l’ambiguità. Il <ritorno alle prime maglie del tessuto monastico> è sicuramente liberante, nel senso di uscita rasserenante da un’immagine troppo netta di cosa sia l’essere degli uomini e delle donne consacrati. Nelle Vite e Detti dei padri del deserto si trova veramente di tutto! Nel mio libro parlo di necessaria <de-monasticizzazione> della vita consacrata e metto in guardia – prima di tutto me stesso – dal rischio di una ingenua <mondanizzazione>. Si tratta di uscire dal vicolo cieco degli estremismi ideali e pratici, per costruire – personalmente e insieme – nuove armoniche che creino armonie reali che per essere tali vanno continuamente ricalibrate. La vita consacrata – come ogni vita – è più un’arte che una professione ben definita e ripetitiva. Per tornare alla grande tradizione, si potrebbe dire che è meno chimica e più alchimia, meno morale e più mistica, meno progetto e più obbedienza generosa alla vita… alla Vita.

Arriviamo così alla questione dei voti, che vengono trattati non tanto separatamente, ma inclusivamente, come tre gradi di una stessa tonalità: quella di un “vuoto fecondo”.  Nel suo libro ha inserito alcuni “bemolle” ad ognuno dei tre voti, ovvie alterazioni che però invece di essere riduttive vogliono rilanciare il modo di consacrarsi molto oltre la radicalità evangelica… Per esempio, appunto, l’obbedienza.

Una rilettura dei voti è più che necessaria e la chiave offerta da Elena Lasida, citata ampiamente nel libro, mi sembra più che interessante. Si tratta di ripensare ai voti quale espressione del nostro modo di consacrare la vita a Dio come uomini e donne incardinati nel nostro tempo e sereni nella nostra struttura antropologica. Certo, l’obbedienza è uno dei dinamismi della vita consacrata che, pur rimanendo assolutamente fondamentale e fondante, deve sempre più essere espressione di una conquistata libertà da se stessi. Solo questa libertà, intima e profonda, può fare dell’obbedienza un valore desiderabile e non semplicemente un prezzo da pagare col rischio di creare surrogati di libertà indegni di uomini e donne all’altezza della loro dignità creaturale e battesimale.

A proposito di struttura antropologica, in “Non perfetti ma felici”, il tema dell’omosessualità viene appena accennato, anche perché la forte e suggestiva immagine dell’eunuco per il Regno che avvolge tutta la riflessione sulla castità ne propone un approccio diverso, meno psicologizzante. Si apre una pista?

Da parte mia, spero una pista di riflessione su questo campo. Non possiamo più nasconderci dietro la foglia di fico del non-detto. Questo metodo raramente crea le condizioni di un processo di crescita e di autenticità a partire, e non nonostante, la propria realtà emotiva che comporta la capacità di assumere la propria dinamica sessuale. L’omosessualità è una realtà ampiamente presente nella vita consacrata e non solo come problema, talora invece come opportunità e risorsa. Secondo la feconda analisi di C. G. Jung, l’omosessualità, in questo caso al maschile, mostra la sua carica di eccezione all’ordinario sviluppo della personalità negli artisti, nei quali <è contraddistinta dall’identità con l’anima>[2]. Lo stesso psicanalista svizzero annota: <uno sviluppo del gusto e del senso estetico al quale un certo elemento femminino non nuoce; delle virtù pedagogiche rese perfette dalla capacità femminile d’immedesimazione; un senso della storia conservatore nel senso migliore del termine, in quanto ha il culto dei valori del passato; un senso dell’amicizia che trae tra le anime maschili legami di sorprendente tenerezza e trae l’amicizia fra i sessi dal limbo dell’impossibilità; una pienezza di sentimento religioso che traduce in realtà l’ecclesia spiritualis; una ricettività spirituale, infine, che rende l’uomo sensibile alla Rivelazione>[3]. Vi e poi un elemento profetico. Una seria riflessione e una intelligenza coraggiosa dell’omosessualità vissuta – più o meno serenamente e più meno accettabilmente – da consacrati e consacrate potrebbe far avanzare la riflessione della Chiesa e le scelte pastorali. Non si può certo continuare a giocare sul registro della tolleranza compassionevole e al contempo disapprovante di stampo chiaramente clericale e, troppo spesso, ipocrita.

Per ciò che riguarda la povertà, è forse, dei tre voti, quello trattato come “tonica”, cioè il grado che sostiene tutta la tonalità, un appoggio che permette le variazioni. Si può parlare di elasticità o piuttosto di fedeltà amante?

Personalmente preferirei parlare di povertà kasher! Normalmente traduciamo questo termine, fondamentale nella tradizione ebraica, con “puro”. Sarebbe invece da tradurre con “adeguato”. La povertà professata come voto, ossia come orizzonte interpretativo del proprio “uso” di tutto ciò che ci serve per vivere, significa lanciarsi – ogni giorno come persone e come comunità – in una ricerca di equilibrio tra ciò di cui sentiamo il bisogno e ciò di cui abbiamo realmente bisogno. Da questo punto di vista la povertà non è rinuncia fine a se stessa, ma fatica di adeguamento continuo tra bisogni e desiderio, tra desiderato-desiderabile e possibile, tra ciò che posso prendere per me e ciò che devo non solo condividere, ma talora lasciare ad altri. Tutto ciò può certo essere catalogato come <fedeltà amante>!

Uno sguardo ora sulla realtà presente delle comunità religiose, tra l’altro da Lei spesso visitate, in occasione di ritiri o predicazioni. Quali sono secondo Lei i virus che minano da dentro le comunità religiose, e le maschere che ne nascondono le ferite?

Quanto ai virus, penso che quello più grave sia l’ipocrisia che è l’unico vero male contro cui si è scagliato il Signore Gesù la cui compassione è stata capace di accogliere tutte le malattie fisiche, psichiche e morali. L’ipocrisia rimanda come parola alla maschera usata durante le rappresentazioni del teatro greco un po’ per amplificare la voce, un po’ per caratterizzare i personaggi. Nessuno può andare in giro senza indossare una maschera che in latino si chiama, appunto, persona. Tutti abbiamo bisogno di giocare ad un personaggio: ne abbiamo bisogno noi, ne hanno bisogno gli altri. L’importante è non crederci troppo tanto ad identificarvisi. È necessario ripartire continuamente dal <vero> che condiviso anche solo con una persona al mondo, ci permette e ci obbliga ad essere umani con noi stessi e con gli altri. Se ciò non avviene ecco che cadiamo in un meccanismo implacabile di una sofferenza che crea violenza la quale crea ancora sofferenza che non può che creare violenza… all’infinito. La maschera dell’irreprensibilità rischia di farci perdere l’appuntamento con la grazia e con l’amore.

E in positivo, pensando agli alberi di cui non si parla ma che stanno portando silenziosamente frutti buoni nel mondo, quali sono i semi che promettono nuovi frutti e il concime da spalmare con coraggio sui campi della vita consacrata?

Tutto ciò è conosciuto nella sua pienezza solo dal Padre che è nei cieli e che vede <nel segreto>. La cosa che mi commuove, incontrando consacrati e consacrate, è il desiderio che c’è in tutti e tutte di dare la propria vita. Talora questo desiderio di darsi e di fare ciò che è giusto e richiesto – nella logica del cammello di cui parla Nietzsche – rischia di non armonizzarsi con la capacità di assumere se stessi con semplicità e umiltà. Il concime che fa sperare nuove messi è proprio ogni passo – sempre faticoso – di consacrati e consacrate che amano chiamare le cose con il loro nome e non hanno paura di condividere la fatica e la fragilità. Laddove si spalma – come dice lei – questo concime, la cui puzza certo non fa piacere, si preparano nuovi raccolti. In un suo sermone Taulero parla appunto dello sterco del cavallo che è una benedizione per il campo al fine di accogliere il seme.

Per concludere, una domanda sulle prospettive: quel rinnovamento, che Lei preferisce chiamare “riformattazione”, lo vede possibile per le realtà esistenti o come nuovo programma da realizzare ex novo ?

Per ritornare all’abbecedario della filosofia antica: <Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma>. Per lasciarci ispirare dalla Tradizione, così come già fece Giovanni Paolo II nella Vita Consecrata, il parametro è quello della Trasfigurazione. Ma quando parliamo di trasfigurazione spesso rischiamo di dimenticare la fase necessaria della s-figurazione. Pur non essendo molto a mio agio nell’informatica, mi sembra che il parametro della riformattazione sia capace di dire come la sfida è di cercare un nuovo equilibrio tra la macchina della vita consacrata – intesa come fosse un computer – e tutto quello che possiamo fare con essa a partire dai programmi che possiamo installare. Penso che il “novum” non sia da sperare né semplicemente da programmi sempre più sofisticati, né da computers sempre più potenti, ma dalla miscela alchemica di tutti gli elementi in gioco. Questo esige di mettere in conto qualche svista e persino qualche errore, ma l’importante è obbedire al primo comandamento che troviamo nelle Scritture e fonda tutti gli altri: <siate fecondi>. La cosa importante è crescere, è camminare. Essere perfetti, talora corrisponde ad un atteggiamento statuario, essere felici non è altro che essere in cammino… insieme. Sarebbe molto bello se la nostra vita consacrata, invece di essere un museo, diventasse sempre di più un laboratorio, certo meno ammirabile, ma forse più testimoniale e interessante da visitare non soltanto per ciò che ricorda, ma per ciò che promette… e permette.

G.R.



[1] Fratel MichaelDavide è monaco della Koinonia de la Visitation a Rhêmes Notre-Dame in Valle d’Aosta (www.lavisitation.it). Il suo pensiero nel suo libro: Non perfetti, ma felici

Per una profezia sostenibile della vita consacrata. Prefazione di Felice Scalia. Ed. EDB

[2] C. G. JUNG, Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, Boringhieri, Torino 1982, p. 594.

[3] Ibidem, p. 596.