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15 MAGGIO: GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA FAMIGLIA

Senza categoria | Posted by usmionline
mag 12 2011

Sembra che della famiglia si prenda coscienza solo quando la sua situazione comincia a farsi problematica. Nel nostro Occidente da anni si parla di: “crescita zero”, fuga dal matrimonio, riduzione delle celebrazioni nuziali, aumento del numero e crescente precocità delle crisi coniugali, famiglie “allargate”… Non stupisce, allora, che le Nazioni Unite nel 1993 abbiano deciso di proclamare il 15 maggio di ogni anno la Giornata Mondiale della Famiglia.

Festa della Famiglia: un’occasione

La decisione riflette l’importanza che la comunità internazionale attribuisce alla famiglia, mentre offre al mondo l’opportunità:

-         che governi, organizzazioni non governative, scuole, singoli individui, le tante Religiose da sempre impegnate nell’ambito della famiglia, tutti ci impegniamo a celebrare con autenticità tale ricorrenza per promuovere una migliore comprensione delle funzioni, delle risorse, dei problemi e dei bisogni legati alla famiglia;

-         che i Paesi dimostrino quale concreto sostegno sono capaci di dare alle famiglie;

-         che nelle diverse iniziative messe in atto ognuno possa trovare un aiuto per rimeditare il proprio ruolo nei confronti dei giovani e nella Chiesa realizziamo insieme una pastorale della famiglia che non sia più solo per la famiglia, ma con la famiglia.

La famiglia è realtà che tutti gli Stati devono tenere nella massima considerazione, perché, come amava ripetere Giovanni Paolo II, l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia. La politica insomma è chiamata a creare condizioni-base favorevoli nei suoi confronti, in tutti i settori della vita; a sostenere le coppie nelle loro scelte a favore dei figli; ad affrontare concretamente quegli aspetti che ne limitano fortemente le potenzialità: la carenza di abitazioni e il loro costo elevato; una politica fiscale poco favorevole e la precarietà nel lavoro; la mancanza di aiuti alle famiglie numerose…

La Famiglia: scuola dell’amore e microcosmo della comunità globale

La famiglia fondata sul matrimonio è cellula vitale e pilastro della società e, in quanto “patrimonio dell’umanità”, interessa credenti e non credenti. Essa è il luogo delle emozioni e dei sentimenti personali che ci accomunano tutti perché sono radicati nell’universalità del bisogno di amare, di essere amati e riconosciuti. Questo senza che la propria esistenza al suo interno si svolga come un idillio, ma sia vissuta dentro una famiglia che conosce difficoltà e dolore; che è fatta di fragilità; che non è perfetta, né tanto meno un esempio di romanticismo poetico.

La famiglia permette di sperimentare nuove dimensioni della propria umanità e per questo diventa punto di riferimento nella vita. Diventa cioè per i singoli la forza per vivere dentro il mondo e anche di andare per il mondo, perché non toglie la libertà di agire da singolo, ma dà anzi la forza di farlo. Come prima struttura sociale è il luogo in cui si impara a conciliare diritti e doveri, libertà propria e rispetto dell’altro. E’ il luogo naturale per il dialogo e per il confronto, per partecipare e condividere gioie, problemi e interessi personali. Si può dire perciò che il bene della società, il suo nucleo vitale, è strettamente legato alle sorti della famiglia-microcosmo sociale vero e proprio.

Le ferite della Famiglia oggi

 

Per aiutare questa famiglia è necessario capire come si presenta oggi: chi sono i nuovi padri, le nuove madri, i nuovi figli; su quali modelli costruiscono la felicità, l’educazione, il benessere; su quali errori si sviluppa il disagio.

Se i problemi della famiglia oggi sono tanti, il massimo sembra essere rappresentato da genitori che hanno disimparato a essere presenti e autorevoli nella vita dei loro figli, impegnati spesso a realizzare se stessi più che a vivere responsabilmente il loro ruolo. Soprattutto la figura del padre appare così sbiadita e periferica che spesso non costituisce più punto di riferimento. I giovani genitori -spesso immaturi- o sono troppo esigenti e autoritari; o poco esigenti e accomodanti, per cui trasferiscono le proprie rimozioni e inibizioni ai figli, causando in essi involontariamente vari disturbi del carattere e a volte angoscia permanente.

Se invece un figlio nell’infanzia o nell’adolescenza è fatto passare  attraverso piccole prove graduali, allora nella vita sarà forte e potrà essere d’aiuto anche ad altri.

La forza della famiglia in tutti i tempi

Pur con i suoi cambiamenti la famiglia ‘resiste’ al tempo perché per natura è un legame che non serve a fare denaro o a ottenere successo. Serve invece a vivere e a dare alla vita un senso. Abbiamo bisogno infatti degli altri per essere noi stessi. Stando con gli altri mi percepirò più precisamente per quello che sono e non solo per quello che le mie potenzialità sono in grado di fare. Forse riuscirò anche a percepire la forza che è nella debolezza e acquisirò il coraggio della mia insufficienza e temerò l’onnipotenza dell’uomo e non i suoi limiti.

Sogno di vita in comunione

La sfida è coltivarci come persone comunitarie, coltivare sogni di comunione; nei piccoli e grandi spazi della vita fare casa, fare spazio intorno a noi e non stancarsi di tessere e ritessere relazioni. Per questo occorre fermare la corsa della propria vita e interrogarsi sul perché di quella velocità che a volte non lascia respirare e impedisce anche di pensare. Il tempo che fugge non permette più di perdere tempo. E scegliere diventa una necessità. Si può sempre ripartire, oltrepassare la soglia del non detto, del non fatto, del fatto male… Ma tenendo presente nel cuore che la base stessa della libertà è sempre la consapevolezza di un limite. In compagnia di Dio e attingendo alla forza della Sua paternità nessuno può pensare di essere solo nella fatica o vinto dalla pochezza delle proprie forze. Si può davvero così accogliere dal cuore del Padre anche la misericordia verso se stessi e i propri fallimenti. E ripartire ogni giorno da questa luce.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Le suore e l’unità d’Italia

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feb 14 2011

Unità come risorsa

Tre bandiere tricolore -che rappresentano i tre giubilei del 1911, 1961 e 2011 in un collegamento ideale tra le generazioni- costituiscono il logo dell’anniversario che si celebra nel 2011. Dicono oggi la necessità di ritrovarsi popolo, di riconoscersi comunità nazionale e cittadini europei, non come rifugio nel già avvenuto, ma come occasione per il Paese di riscoprire il proprio modo più autentico di essere e di crescere.

L’Italia reale che non corrisponde a quella rappresentata

Soggetto primario nella vita di una nazione sono le popolazioni che vivono e abitano nei territori nazionali, comunità di persone vere e affidabili perché ricche di un’anima nata e cresciuta nel tempo con l’apporto e la fatica di tutti. Comunità piantate in territori diversi, con storie diverse e con varianti anche culturali. Ma energie vive per l’intera collettività, espressioni di autentica umanità proiettata coraggiosamente sul futuro.

Nella storia di ogni popolo vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate»; quando questo è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI).  

Profilo interiore dell’Italia

Il profilo dell’italianità rimane sempre e per tutti un obiettivo e una scoperta da rinnovare. Continuamente. Le suore, soprattutto per la loro concreta vicinanza alla gente, nel corso della storia d’Italia (prima e durante i 150 anni dall’unità) hanno contribuito non poco alla crescita di una spiritualità della comunione e della riconciliazione sul nostro territorio. Negli ospedali, nelle scuole, nei monasteri, nelle chiese, negli ambienti della cultura e della comunicazione, dove le religiose quotidianamente lavorano e vivono insieme, esse sono impegnate a fare e promuovere esperienze di autentiche relazioni umane. Nei loro ambienti le ‘differenze’ sono accolte e rispettate; non sono temute come minacce, ma considerate una ricchezza a disposizione di tutti. Tutto questo ha contribuito nel tempo a rendere più civile e più unita la società in cui viviamo. In sintesi possiamo affermare che le suore hanno contribuito a far nascere e a rafforzare la coscienza di una identità italiana.  

La sfida: educarci ed educare all’Unità

Quello dell’unità è un processo lento e complesso. Ma è anche un compito insopprimibile per una società civile. In particolare la forza del Vangelo chiama quanti lo vogliono accogliere con fede nella propria vita a portare gli uni i pesi degli altri, senza scaricarli su chi ha già zavorre. La stessa forza chiama oggi le suore d’Italia a celebrare l’anniversario dell’unità lanciando una sfida a quanti hanno a cuore il futuro del Paese.  

È dimostrato che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo. Lo Stato – lo ha ricordato il Presidente dei nostri Vescovi – non può creare l’unità, che è pre-istituzionale e pre-politica. È suo compito però e suo preciso dovere essere attento a preservarla e a non danneggiarla. È davvero miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce. Le attuali circostanze storiche sembrano però raccontare altro.

Ritrasmettere con passione la preziosa eredità ricevuta

Se si ingannano i giovani e si trasmettono ideali bacati; se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti e illusori, allora si riuscirà solo a trasmettere un senso distorto della realtà. Si continuerà ad oscurare la dignità delle persone e a depotenziare le energie del rinnovamento generazionale. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. La felicità è altrove rispetto a quanto quotidianamente lo sguardo dei media sulla realtà rileva, e la si conquista in ben altro modo. Gandi insegna ancora oggi: Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo!

                                                                                                Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

 

Il silenzio che parla

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feb 03 2011

Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto ad un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. E’ il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta. Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la   vita di mio marito  e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte ad una difficile scelta: affidare il nostro caro ad una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio. Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta ed affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’ immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della PEG collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per   respirare.

Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere, né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film “La farfalla e lo scafandro”, tratto dall’ autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire ad esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.

Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. E’ stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica ed umana è stata cancellata. Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre. Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva ad inventare quei risotti fatti “con residuati bellici”, trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri, gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove “la terra si salda con il cielo”.

 “Anche se non parla, il nonno c’è ” ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile.  Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine ad una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta ad una sopravvivenza vegetativa? Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché “lui c’è”.   Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto,veramente  tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce ad esplorare. Anche se continui ad interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla, perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel “Siracide” che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: “Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione” . (3,23-24)

   Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di Lui. “Mistero della fede”, ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da se stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto dal sentimento che ha dato vita al Creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.

  Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che “non hanno voce” e che stanno fuori del coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a  quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere. Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «Il volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. “ Il volto” dell’altro ci parla per se stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.

   Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i “miracoli” che provoca: una conversione umana ed interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e “ti fa sentire bene”, nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta. Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui “Diario” dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che “la vita è bella e ricca di significato”, nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo “essere morta mille volte in mille campi di concentramento”, quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se “vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile….Così in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto.”

   Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cosa è la vita , che cosa è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono. Di fronte soltanto più il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni , arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e  la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la “vera vita” che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.

   E’ una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. E’ la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’ amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di farlo. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’ eucaristia permanente. La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.

   E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con se stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. “Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi” ha ricordato di recente Mons. Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.

 Mariapia Bonanate

Una lettera e una testimonianza da Mariapia Bonanate

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feb 03 2011

Cara  Madre Viviana,

 l’impulso del cuore e la consapevolezza di quanto il mondo delle consacrate continui ad essere poco conosciuto, mi hanno spinta a scriverle per parlarle del mio libro “Suore, vent’anni dopo”, edito dalle Paoline. E’ un libro che non mi appartiene e questo mi dà coraggio nel presentarglielo. Mi è nato fra le mani due decenni fa con i volti, le storie, le parole, di consacrate verso le quali mi aveva spinto un disegno che mi supera. Avevo messo a disposizione il mio mestiere di giornalista in cerca di “ buone notizie” e di scrittrice alla quale piace raccontare la vita nella sua imprevedibilità, nei suoi valori e significati, nella sua tensione esistenziale e metafisica, ma anche  nei suoi profumi, nei suoi sapori, nel suo odore di umanità. Il libro allora stupì e piacque. Piacque molto, ne fecero anche un’edizione economica e un film. Molte persone per la prima volta sentirono parlare di “suore” come di persone di famiglia, amiche nella quotidianità e nella condivisione della vita, non separate dal mondo, ma nel mondo.

    Poi il libro scomparve dalla circolazione e i molti che lo cercavano non lo trovavano più. Sentii che dovevo riproporlo perché quelle suore, e tantissime altre consacrate, continuavano a testimoniare la bellezza e l’infinita tenerezza del loro rapporto quotidiano con un Dio, sempre meno presente nell’evoluzione di una società smarrita e caotica. Continuavano a rendere tangibile la sua presenza nei rapporti con le persone che incontravano e con le quali facevano un tratto di strada.  Così, spinta da un’esigenza interiore che non mi abbandonava, l’ho ripreso in mano per riproporlo e raccontare che cosa era accaduto in vent’anni ad alcune delle protagoniste di allora. Ma anche per aggiungervi nuovi capitoli, dedicati ad incontri di questi ultimi anni.

   Cara Madre,  ho ricostruito la vicenda di questo singolare tragitto editoriale e personale per giungere al motivo per cui ho deciso di scriverle: sento di dover fare tutto il possibile perché il maggior numero di suore lo leggano con la semplicità e l’attesa con la quale l’ho scritto. Non certo per me, e neppure per le suore di cui parlo. Ma perché in quelle esperienze, al di là delle singole persone, ho colto la profezia di un rinnovamento indispensabile al mondo delle religiose, pena il disperdersi dei carismi e un distacco sempre più profondo fra il mondo religioso e quello laico. E’ un appuntamento non più rinviabile e sono certa di sfondare un uscio aperto, ma proprio per essere stata così coinvolta nel pianeta suore, di cui mi sento cittadina d’elezione, spero di poter contribuire con questo mio piccolo libro, grande per le storie narrate, ad un appuntamento decisivo. 

  La fedeltà comune al Vangelo ed al messaggio di Cristo ci chiede di fermarci, di ascoltare, di entrare profondamente dentro noi stessi e di ricominciare a camminare con Lui, in una rinnovata fedeltà, nelle strade delle tante Galilee di oggi, come le donne un tempo al suo seguito. Ci chiede di avere il coraggio di trasformare le strutture, che pesano sulle persone fino spesso a spegnerne la freschezza e l’entusiasmo, in carovane viaggianti, pronte a muoversi e a fermarsi là dove Cristo sosta e rimane, per  condividere,  gioire,  soffrire, come faceva Lui, che prima di parlare , è stato con la gente. C’era.

  Non è facile, la paura è tanta. Ne ho avuto e ne ho tanta anch’io. Ma Lui ci dice: non abbiate paura, io sono con voi. Le storie di questo libro, mescolate alla mia storia di moglie (con un marito in stato vegetativo da cinque anni in casa, divenuta una piccola chiesa, il suo letto un altare) di madre e, ora, di nonna, sono storie che, nei limiti umani di ogni vicenda individuale, offrono dei motivi di riflessione importanti perché nascono, da un lato dalle attese della società laica nei confronti delle religiose e, dall’altro lato, dalle attese delle stesse religiose, alla ricerca di un’adesione e immersione nella vita del mondo che faccia sentire tangibilmente la presenza di Cristo. Sono convinta che la donna sarà determinante nei giorni a venire per il futuro dell’umanità. Dico sempre che una suora, quando riesce a vivere pienamente la sua vocazione, è “due volte donna”, per l’estensione e la libertà con la quale può operare e vivere accanto alla persone. Per questo è importante che le donne che si consacrano a Dio, diventino sempre di più “il sale della terra e modelli per tante giovani che hanno bisogno di giustizia e di spiritualità”, come Dacia Maraini scrive nella sua prefazione.

   Le sarò grata se, per tutte queste ragioni che mi auguro lei condivida, mi aiuterà a far conoscere alle religiose delle varie congregazioni questo “nostro” libro. E’ un aiuto che sto chiedendo a tutti, agli amici laici con i quali cerco di costruire il bene comune, alle amiche e amici con i quali cammino per testimoniare che Cristo c’è fra di noi. E ci aspetta perchè gli offriamo i nostri occhi, le nostre mani, i nostri piedi , la nostra voce per abitare con la gente e per la gente. Grazie per quanto potrà fare.

Un abbraccio affettuoso

Mariapia Bonanate

Il silenzio che parla

GUARDARE AL FUTURO DELLA VITA RELIGIOSA

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gen 28 2011

Alla luce di questo impegnativo tema, ho condiviso con le sorelle dell’USMI diocesana di Roma  alcune riflessioni sulla nostra vita di donne consacrate che oggi più che mai vogliono ritmare i passi della loro quotidianità consacrata a volte faticosa, pesante e deludente sulle corde della speranza per cantare la vita ovunque e in modo particolare là dove è maggiormente calpestata, negata o distrutta.

Ripropongo la stessa riflessione sul web oggi 2 febbraio, giornata in cui a livello mondiale si prega per tutti i consacrati: tutti coloro che, attratti e affascinati dalla persona di Gesù, lo hanno seguito perchè hanno visto in Lui la pinezza della vita.

Dedico la stessa riflessione a tutti coloro che sono alla ricerca del volto del Signore perchè come la donna emorroissa, la donna samaritana, Maria di Magdala, Lidia  e molte altre donne possano incontrare Gesù,  Colui che davvero riempie il cuore, lo rende libero e capace di dono.   

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Guardare al futuro della vita religiosa

Il tema ci orienta a guardare alla vita religiosa femminile nella sua dinamica di cammino e di impegno nel presente della storia per un futuro realistico, audace e abitato dalla speranza. La speranza è infatti una dimensione essenziale e portante della profezia della vita religiosa, missione iscritta nella sua identità più profonda.

Voglio contemplare per alcuni istanti il volto della vita religiosa femminile riflesso sul volto di una icona evangelica che potrebbe risultare strana di primo acchito, ma che da un po’ di tempo non smette di interpellarmi.

La donna emorroissa.  Vangelo di Marco cap. 5, 25-34.

Seguo rispettosamente con lo sguardo la povera donna che perde sangue da 12 anni. Un’ansia profonda la spinge a passare da un medico all’altro cercando una soluzione al suo grave problema. Sì, è un problema che la penalizza nella sua identità di donna e nella sua dignità umana. Dodici anni sono un tempo troppo lungo per il suo calvario; esso pesa sulle sue relazioni tanto da condizionarne in maniera evidente il comportamento. Perde sangue! Nella cultura del suo popolo ciò significa perdita della vita. La donna il cui fisico è fatto per gestire e far crescere la vita, vede invece la vita uscire, andarsene portandosi le forze della fecondità e lasciandola prostrata, sola, ai margini.

Il mio sguardo si sposta quasi naturalmente da questa icona alla storia di tante donne, a noi religiose, alle nostre Congregazioni, in questo tempo fortemente caratterizzato da cambiamenti valoriali che intaccano persino i livelli strutturali delle nostre società di provenienza.

Mi chiedo: non sta forse accadendo qualcosa di simile anche a noi? Siamo spesso incerte e confuse per un presente annebbiato in cui tutto diventa relativo, siamo disorientate per un futuro che sembra non avere una chiara direzione, abbiamo la sensazione che la nostra identità si vada frantumando scontrandosi con le emergenze di vario genere. Cerchiamo soluzioni,  forse passando da un “medico” all’altro, e forse anche incolliamo toppe su un passato e un presente a cui amiamo rimanere aggrappate e non sempre per fedeltà all’intuizione originaria dei nostri fondatori. Stiamo cercando affannosamente, e a volte soffrendo molto, ma…che cosa? Stiamo investendo molte energie; ma… per che cosa?

 “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando…” (Mc. 5,26).

Per la donna emorroissa il lungo tempo della malattia fisica, culturale e morale ha contribuito ad indebolire le sue forze, soprattutto la sua forza generativa, molto probabilmente la sua malattia nasconde anche  una vena di anoressia. E non credo di cadere nella forzatura.

Per l’emorroissa non c’erano molte prospettive di futuro; aveva speso tutti i suoi averi ed era peggiorata. Si ritrovava isolata con una sensazione molto brutta. Il permanere a lungo nella malattia l’avrebbe portata poco a poco alla morte.

Noi sappiamo che il fenomeno fisico anoressico ha quasi sempre radici affettivo/spirituali e, dapprima senza avvertirlo poi in maniera consapevole conduce al rifiuto di ogni nutrimento. Non curata in tempo e con i giusti mezzi porta lentamente alla morte prima spirituale, poi fisica.

Ho una sensazione strana che mi fa chiedere se, qua e là, questa malattia non stia intaccando anche i nostri ambienti. Dove? Come? Non è semplice individuarla  e definirla perché la sua insidiosità molto spesso la rende irriconoscibile.

Mi pongo però alcune domande: Individualismo e orizzontalismo non stanno minacciando alla radice il senso della nostra vita fraterna in comunità? Non stanno dicotomizzando sempre di più il nostro vissuto tra fede e vita, tra privato e comunitario, ecc?  E’ possibile una vita religiosa, quando esclude o emargina dalla mente, dal cuore e ancora più dalla sua azione la fede? Può essere il solo criterio psico/sociologico a fondare la nostra missione?  

Una delle cause più forti che spinge l’emorroissa ad errare tra molti medici è l’emarginazione dal suo popolo. Non può infatti essere toccata o toccare perché contamina. La sua è una cultura che non libera ma condiziona, le inculca la vergogna per una malattia tabù, la opprime in maniera insopportabile. In una parola è una persona sradicata, divelta dalle sue radici, dalla sua identità più vera.

“Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv. 15,4).

Le conseguenze del suo girovagare?  Il vangelo di Luca parla anche di una donna curva tenuta così da una lunga malattia  (Lc.13,11-13).

 La malattia tiene curvi. Chi è curvo guarda per terra. Gli orizzonti sono molto ridotti, limitati e angusti. Non c’è futuro, tutto finisce lì. Inoltre chi è curvo vede la realtà un pezzetto alla volta, gli manca quindi la lungimiranza, la possibilità di una creatività. Quanto più rimane curvo tanto più il suo cammino diventa incerto e potrebbe essere assalito da paure di varia natura e poi dalla vergogna di essere così, di essere visto, notato, di entrare in rapporto con gli altri. L’icona dell‘emorroissa ci offre molti stimoli per la riflessione e la ringraziamo!

Qualcuno però aveva deciso un appuntamento con lei.

“Sentì che Gesù passava di là……e venne in mezzo alla folla, dicendo tra sé…anche se solo potrò toccare il lembo del suo mantello…” (Mc.5,25-27).

La bella notizia è che la malattia non aveva distrutto in lei: il desiderio della guarigione, di essere se stessa, di ritrovare la sua identità e libertà. Ma ridotta in quelle condizioni, da dove poteva sorgere in lei il desiderio di toccare Gesù? 

Una domanda sempre aperta

 “ Che cosa sta dicendo oggi il Signore alla vita religiosa?

Può sembrare una domanda scontata, ma non è così, in un tempo in cui profonde trasformazioni  funzionali e anche strutturali di molti micro o macro sistemi organizzativi, stanno precipitando il nostro pianeta nella nebbia più fitta e nella confusione più totale, si avverte il malessere della mancanza di punti di riferimento capaci di indicare percorsi in cui l’uomo e la donna del nostro tempo possano almeno decidere se percorrerli o no.

E’ dunque notte, la “grande notte nella nostra società post moderna che dilapida a volte molto disinvoltamente il patrimonio di valori fondanti e vive danzando irresponsabile sull’orlo dell’abisso ecologico, finanziario, culturale, antropologico”(1).

La vita religiosa non è un giardino protetto, inviolabile, esente da qualsiasi influenza o influssi disorientanti e devastanti. Sembra sia notte anche per la vita consacrata, ma con una differenza.

Benché ogni giorno essa faccia esperienza della fragilità e della vulnerabilità, essa porta dentro di sé, quale vaso di argilla, un tesoro, un’acqua pura e fresca  che zampilla e scorre  anche quando è notte. (cfr. Giovanni della Croce)

Questa è la consapevolezza a cui è chiamata oggi la vita consacrata.

Il dono è dato, ma va riscoperto perché nella misura in cui la vita consacrata saprà vivere e far risplendere la sua vera identità, che è quella della mistica e della profezia, porterà nel mondo una presenza di speranza.

L’esperienza di Paolo ci dice: <Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla>. Se guardiamo soltanto al vaso d’argilla che siamo noi, c’è proprio da scoraggiarsi. Ciò che vale, e su cui dobbiamo volgere tutta l’attenzione, è il tesoro che portiamo dentro!

Paolo sperimentava la sua debolezza di fronte alla missione affidatagli, ma sapeva che il suo vaso d’argilla era inabitato dalla luce di Cristo: era Cristo stesso a vivere in lui e questo gli dava l’audacia di esporsi per il vangelo. Anche noi possiamo sperimentare il tesoro infinito che portiamo dentro: è la Trinità. “Mi guardo dentro e scopro come una voragine d’amore, come un abisso, come l’immenso, come un sole divino dentro di me. (S. Caterina da Siena).

Guardandomi attorno scorgo anche negli altri, al di là del loro vaso di creta, il tesoro che li inabita. «Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla»

 “Nell’incontro con Dio, la vita consacrata abita la fonte di un amore che si fa contemporaneamente dono e servizio al prossimo e da qui si sente sospinta sia verso la dignità della persona tanto spesso disprezzata, per servirla, sia verso il Dio dell’amore e della misericordia” per vivere la consegna di sé (2). La dimensione mistica e quella profetica, lo ripetiamo, non possono essere separate.

Questo stile e forma di  vita spingono la vita religiosa ad abitare quotidianamente quelli che potremmo definire come i nuovi areopaghi della mistica e della profezia:

- La fede, vissuta a volte “alle intemperie” soprattutto in Europa. La vita consacrata nasce e si alimenta nella fede come adesione piena a Dio. Non c’è fecondità in un annuncio che non nasca dalla familiarità con Dio.

- La Parola di Dio, alimento essenziale della fede. Diviene una condizione importante quindi mettere al centro della vita la Sacra Scrittura per leggerla, pregarla, meditarla, condividerla (3).

- L’esperienza di Dio “nel bel mezzo della vita”; ciò significa riconoscerlo e incontrarlo là dove ogni giorno Lui si fa presente: nel povero, nel piccolo, nel malato, dell’ignorante, insomma  in ogni dolore ed in ogni gioia umana.

“Ora capisco il comandamento di amare Dio con tutta la tua anima. Se Dio prende la tua anima tu lo amerai…e, nella misura in cui noi saremo capaci di vedere l’ immagine di Dio in una porzione sempre più ampia di umanità, ci apriremo sempre di più alla presenza di Dio. Vedere Dio in ogni essere umano non è un compito facile. Potremmo passare la vita intera e non avere ancora raggiunto la perfezione di quest’arte, ma vi chiedo di unirvi a me in questo compito”(4).

- La testimonianza. L’uomo di oggi, ha bisogno e crede di più ai testimoni che ai maestri, cerca la testimonianza di vite che siano accanto a lui quali “presenza trasfigurante di Dio” (5).

- La famiglia, essere casa con le porte aperte, soprattutto quelle del cuore dove chi entra possa sentirsi accolto e ascoltato, possa sentirsi persona e l’incontro sia prima di tutto un evento umanizzante in una società che invece tecnicizza, virtualizza e di conseguenza  disumanizza sempre di più le comunicazioni e le relazioni tra gli esseri umani.

- L’umanizzazione a partire dal coraggio della tenerezza, senza la paura di mettersi dalla parte di chi è emarginato o separato, con la saggezza di piccoli, forse deboli, ma sempre concreti gesti di amore, di accoglienza, di fiducia. Il segno del Regno di Dio è il granellino di senapa: seme della carità che si coltiva in un “cuore che vede”, che si accorge e che irresistibilmente agisce.(6)

L’umanizzazione passa anche attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che viviamo, una povertà che si lascia incontrare come la samaritana al pozzo di Sicar e diviene un’audace presenza di speranza per quelli che abitano la città. “Venite a vedere uno che mi ha detto tutta la verità”. (7)

Abbiamo bisogno di molta povertà per poter riconoscere e accogliere le sfide della missione oggi, sfide che comunque si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Il futuro della vita religiosa femminile passa attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che sta vivendo, una povertà però che si lasci incontrare  come la donna emorroissa che, grazie all’incontro, diviene un’audace presenza di speranza per la folla che la circonda.

L’audacia della debolezza accolta diviene forza per la missione.

Enzo Bianchi parlando della vita religiosa oggi ripete spesso che essa è “povera ma non decadente”. E’ un’affermazione che stimola a non cadere nella tentazione del ripiegamento su noi stesse tanto più vicina di quanto non lo percepiamo.

Oggi è necessaria molta povertà per  poter accogliere le sfide della missione, della interculturalità e della intercongregazionalità, vie che si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Di questo sono molto convinta.

Ci possiamo allora chiedere:

La vita consacrata femminile avrà il coraggio di riconoscere e accogliere la sua povertà perché questa si trasformi come per Abramo in una notte di promessa di fecondità così grande e numerosa come le stelle nel cielo che tanto più brillano quanto più la notte è oscura e tanto son numerose da non poterle contare? Sarà così lucida da affidarsi alla promessa fino al punto di sentire il gorgoglìo della fonte che scorre, irrora e continua la sua azione fecondatrice lungo tutta la sua notte,  radicando tutte le sue energie nella speranza che crede che Dio non viene mai meno  alle sue promesse?

In concreto si tratta di percorrere con audacia un cammino che porti al cuore della identità mistica e profetica della vita religiosa e questo cammino è lungo.

C’è un’altra figura di donna che ci può aiutare a guardare alla vita religiosa con realismo e audacia e questa è Lidia, la incontriamo nel libro degli Atti degli apostoli.

L’ invito di Lidia (Atti 16)

La rilettura contemplativa e teologica della storia della conversione  di Lidia (cfr. Atti 16,11-15.40) ci offre  intuizioni meravigliose per comprendere l’urgenza di un cammino di conversione per la nostra vita di donne consacrate, cammino che inizia  sempre come un momento gratuito di incontro con Qualcuno che cambia l’ orientamento della nostra vita. Momento/evento che non inizia e termina in uno spazio definito di tempo e di luogo, ma che diviene processo di trasformazione che dura tutta la vita e che passa attraverso fasi ben individuabili:

- L’ oscurità e la confusione accompagnate dalla consapevolezza di un vuoto che ricerca la pienezza, di una sete che vuole essere estinta, di molte domande che richiedono risposte vere. “IL tuo volto Signore io cerco, mostrami il tuo volto” ( Salmo 26). Quante domande si sta ponendo oggi la vita religiosa, e in tutti gli ambiti, da quello spirituale a quello delle opere. Ma sembra che la notte sia veramente lunga.

Lidia stava fuori della porta della città con alcune donne riunite per la preghiera.  

- Il risveglio: inizia quando il tocco di Dio suscita il desiderio, prepara all’ascolto e all’accoglienza della Parola.

Lidia, come credente in Dio aveva preparato il suo cuore all’ascolto.

“ C’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore  per aderire alle parole di Paolo” (Atti 16,14).

C’è un grido che sale dall’umanità di oggi. Esso interpella fortemente la vita religiosa. Ma lo sappiamo distinguere per cogliere in esso la parola che chiama noi, proprio noi e aderirvi?

Ancora Enzo Bianchi afferma che è urgente coltivare la capacità di lasciarci intercettare da questo appello come lo furono i nostri fondatori.

- L’azione profetica, liberazione dello slancio incontenibile della fede accolta, fuoco di carità che brucia nel cuore e diviene contagiosa fantasia di gesti concreti di misericordia e di accoglienza per ogni fragilità umana. “Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa” (Atti 16, 15). 

- La quiete, sperimentata come esigenza di intimità e di ascolto in cui si sviluppa l’amicizia con Dio e si inizia a conoscere e ad assumere i suoi punti di vista e la fede come dono del suo amore;  tempo in cui si matura la vittoria contro ogni resistenza alla predicazione. “Usciti dalla prigione, si recarono a casa di Lidia dove, incontrati i fratelli , li esortarono e poi partirono” (Atti 16,40).

- L’integrazione, fase necessaria per permettere alla persona di focalizzarsi sempre di più sulla Parola di Dio, sull’annuncio del Regno, nelle situazioni particolari della vita che si trova a vivere.

Negli Atti degli apostoli non si parla più di Lidia dopo la partenza di Paolo, ma il semplice fatto che la chiesa di Filippi è cresciuta ci testimonia la profondità della sua conversione e del suo impegno a continuare la missione di Cristo.

Lidia interpella il cristianesimo e in modo particolare la vita religiosa di oggi che, a volte travolta da affanni produttivi/economici rischia di trascurare la sua dimensione mistica cadendo nella stanchezza di una vita abitudinaria e non più guidata dal soffio dello Spirito a servire secondo il cuore di Dio e le sue prospettive.  Per questo, alla luce del cammino di Lidia si impongono alla vita religiosa femminile forti domande:

Come Lidia e la sua comunità di fede, quale parola guaritrice abbiamo bisogno di ascoltare oggi per essere fedeli alla nostra vocazione e a noi stesse? Che cosa impedisce il risveglio nelle nostre comunità? E, se dovessimo  aprire il nostro cuore e la nostra casa come ha fatto Lidia, chi inviteremmo a stare con noi? Quale chiamata ci spinge oggi ad illuminare di luce profetica le situazioni di oscurità e ad abitare con coraggio nuovi orizzonti là dove siamo?

Luci profetiche per il mondo

Non possiamo rimanere inerti perché, secondo la saggezza africana, “anche se la notte è lunga, il giorno arriva sempre”. In un mondo oscurato da tragedie senza confini, guerre distruttrici, violenze di ogni tipo e dal disprezzo dei diritti umani, la vita religiosa si sente sfidata ad inventare nuovi percorsi e nuove capacità per mantenere acceso il fuoco di Dio, ma soprattutto per abbracciare il mondo in modo profondo e nuovo, per essere presenti con la tenerezza di madri, con il coraggio anche della denuncia come i profeti là dove i nostri fratelli e le nostre sorelle feriti gridano.(8)

Liberata da strutture pesanti e da legalismi soffocanti, la vita religiosa femminile può generare donne, sorelle e madri che  percorrono sollecite le strade del mondo e della storia. In loro si può intravedere il volto della samaritana al pozzo che, incontrata da Gesù, riacquista insieme alla sua vera identità e libertà anche il coraggio dell’annuncio, oppure la mano del buon samaritano che si fa prossimo per chi è disprezzato, oltraggiato, ferito, percosso, gettato ai margini dell’umanità dove, se ti guardi attorno, incontri solo disperazione e abbandono, dove è scomodo andare, dove esiste il rischio concreto di pagare con la vita un gesto di amore; o il volto dell’emorroissa pacificata dal tocco liberatore del profeta,  e infine il volto di Maria di Magdala, che rigenerata nel profondo, lascia che il suo amore possessivo sia trasformato in irresistibile e gratuito annuncio della speranza pasquale fino ai confini del mondo, fino a noi: Cristo mia speranza è risorto! Sì, è veramente risorto, io l’ho incontrato. (cfr.Gv.20,18)

Il Concilio Vaticano II, quarantacinque anni fa, aveva esortato la vita consacrata a ritornare alle sue origini fondazionali e carismatiche per ritrovare la freschezza del primo amore, l’autentico spirito di carità e di missionarietà dei fondatori, dei primi fratelli e sorelle, la passione per Dio e per l’umanità che aveva reso i fondatori icone viventi dell’amore di Dio in mezzo al suo popolo.

L’invito di ritornare alle origini si fa sempre più incalzante oggi. Non può essere facoltativo ciò che ha il sapore di una urgenza e di una sfida.

Non si tratta di ritornare indietro o di rimpiangere i tempi passati che non torneranno più, ma piuttosto di guardare al futuro, radicate  alle nostre antiche radici, ma sempre servitrici del progetto di Dio per l’uomo e la donna del nostro tempo.

“Noi abbiamo, nella memoria ereditata, un alto tasso di mistica e profezia: tocca a noi oggi rimettere in gioco questa eredità”. E la dobbiamo rimettere in gioco nel quotidiano, con una perseveranza che affronta umilmente, ma decisamente, anche le resistenze più dure, con la gratuità che sbriciola la logica degli interessi di mercato, con l’amore che muove “mani e cuore  di madre” e, come i “rami di mandorlo” mantengono accesa la speranza nel nostro mondo pesantemente avvolto da una selva di “pentole bollenti” che rovesciano rovina e devastazioni su popoli e nazioni. (9)

Guardando al futuro:

In comunione con le 800 superiore generali che nel maggio 2010 si sono riunite a Roma in Assemblea plenaria, anche noi religiose italiane crediamo che il futuro della vita religiosa femminile  è nella forza della sua mistica e della sua profezia e ci impegniamo pertanto a:

 “ -  Individuare con audacia le “notti” della Chiesa, della società e delle rispettive Congregazioni.

   -  Scoprire le scintille di luce racchiuse nel cuore della violenza, della povertà e del non senso.

   -  Aprire gli occhi per scoprire nuovi sentieri di luce nelle tenebre del nostro mondo: la situazione precaria delle donne, il disagio esistenziale di molti giovani, le conseguenze delle guerre e delle catastrofi naturali, l’estrema povertà che genera la violenza …

  -   Offrire, come donne consacrate, un ministero di compassione e di guarigione.

  -  Lavorare in rete, a livello locale e globale, con le altre congregazioni e con i laici, per la realizzazione di diversi progetti e per la trasformazione delle strutture ingiuste.

  -   Superare i confini dei nostri rispettivi carismi e unirci per offrire al mondo una parola mistica e profetica.

  -   Dialogare nella verità con la Chiesa, a tutti i livelli della sua gerarchia, per un più

ampio riconoscimento del ruolo della donna.

Maria ci aiuti a, rimanere sveglie e vigilanti, in costante ricerca della Fonte che continuamente scorre, nella certezza che Essa si lascia trovare anche se è notte”.(10)

 

——————————————-    

 

 (1)   (cfr.B. Secondin, Il  ramo di mandorlo e la pentola bollente).

(2 )   ( Ciro Garcìa, uno stile di vita e i nuovi areopaghi).

(3)   (cfr. Sinodo dei Vescovi , 2008).

(4)    (Rabbi Arthur Green, Una teologia dell’empatia).

(5)   (Benedetto XVI,: Alla Plenaria UISG 2007).

(6)    (cfr. Deu Caritas Est n.31).

(7)   ( Judette Gallares, Aprire il cuore all’ascolto)

(8)    ( Liliane Sweko: chiamate ad illuminare di luce profetica le tenebre del mondo).

(9)    ( cfr. B.Secondin : il mandorlo e la pentola bollente).

(10)  ( Dichiarazione finale della Plenaria).  

 Sr M. Viviana Ballarin o.p.

Presidente Nazionale USMI

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

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gen 17 2011

La settimana di preghiere per l’unità dei cristiani ha luogo, come tradizione, nei giorni che precedono la festa della Conversione di Paolo di Tarso: 18-25 gennaio.

È la “Chiesa Madre” di Gerusalemme, quest’anno 2011, ad offrire alla Chiesa universale il tema per la riflessione:

«Essi ascoltavano con assiduità l’insegnamento degli apostoli, vivevano insieme fraternamente, partecipavano alla Cena del Signore e pregavano insieme» (At 2, 42).

Un invito e un’esortazione a:

- rinnovare e ritornare a ciò che nella fede è essenziale

- ricordare il tempo in cui la Chiesa era ancora una

- meditare su quella prima grande attività missionaria, il cui cuore  non si rivelò nell‘andare fuori dei discepoli, ma nel riunirsi dentro

- verificare quanto ancora separa i cristiani da una fedeltà più radicale alla preghiera/testamento di Gesù perché “tutti siano una cosa sola”

- ripartire da questa vocazione dei cristiani piuttosto che dai problemi e dalle situazioni difficili.

Contesto della Chiesa madre di Gerusalemme

I cristiani della Terra Santa duemila anni fa dall’effusione dello Spirito Santo furono uniti insieme e, pur provenendo da culture e tradizioni diverse, divennero un solo corpo di Cristo e comunità di credenti. Oggi i cristiani di Gerusalemme si trovano a testimoniare Gesù vivendo ancora divisioni al loro interno e sperimentando ingiustizie e disuguaglianze in mezzo a drammatiche tensioni politiche e militari. Quali stili di dialogo le diverse Chiese hanno con le società in cui si trovano?  

Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese di Gerusalemme ha dichiarato: L’unità che cerchiamo non è una mera astrazione per i cristiani di Gerusalemme. Questa unità comporta preghiera e riflessione in un contesto di sofferenza e disperazione.  

Confronto nel quotidiano frutto della fede

L’unità è un imperativo urgente e anche esistenziale. A Gerusalemme lo dimostrano -se ce ne fosse bisogno- anche le colluttazioni che si verificano nella basilica del Santo Sepolcro, di volta in volta, tra i monaci greco-ortodossi e quelli armeno-ortodossi e che sono fonte ricorrente di scandalo in tutto il mondo. In questo contesto i cristiani di Gerusalemme ci offrono una visione di che cosa significhi lottare per vincere la tentazione di ripiegarsi su se stessi e sulle proprie certezze confessionali; per accogliere la fatica che si sperimenta nel trasformare i problemi e le difficoltà proprie e degli altri in opportunità per crescere nella fede e nella comunione; per gustare la gioia che nasce dalla condivisione di una ricerca evangelica. Rappresentano, insomma, per tutti l’esempio di una sofferta comunità sinfonica. Quale miglior laboratorio per il dialogo ecumenico e interreligioso?

Fortificati dalla preghiera

Per muoversi verso l’unità ci vuole una fede rinnovata che il Maestro e Signore in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare (Ef 3, 20). Da sole le creature non hanno risorse sufficienti, ma quando diventano consapevoli della propria condizione di ‘debolezza’ e si aprono all’azione divina, riescono a far fiorire energie straordinarie. Una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po’ del miracoloso e del “dono dall’alto”. Chi crede perciò la invoca dal fondo della sua coscienza, disposto anche a sacrificare qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale, ma anche a livello di gruppo, di popolo e di nazione. Così facendo, ognuno sarà trasformato e, a mano a mano, ciò per cui prega si realizzerà nel suo stesso essere. Rafforzati da questa preghiera, insieme saremo mossi ad incarnare la pace che sgorga dalla fede. Nella diversità dei singoli e dei gruppi nasce così una sinfonia che viene dall’unico Spirito, il quale potrà continuare a comporre la partitura della lode a Dio attraverso la nostra vita.

Vivere l’unità nella diversità: un impegno per tutto l’anno

 Le nostre chiese anche oggi partecipano, tutte, a volte malgrado le apparenze, al mistero dell’unità. E’ necessario trovare, in tutto l’arco dell’anno, opportunità e tempi per esprimere il grado di comunione già raggiunto, pregare insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo, e abitare con vitalità lo spazio concreto in cui ognuno è chiamato nel suo presente a vivere. Alimentare così la comunione è vocazione e servizio alla Chiesa intera.

L’esperienza di ritrovarci minoranza oggi nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo è parte della nostra identità fin dalle origini. Ci ricorda che non siamo né esistiamo per noi stessi, ma per entrare in relazione con quanti ci incontrano. Ci orienta a diventare capaci di quel dialogo che non è solo scambio di idee, ma dono di sé all’altro, compiuto in maniera reciproca come atto esistenziale. Ad accogliere e testimoniare, nel cammino insieme, sempre incompiuto, di sequela di Gesù, quell’unità che parla profeticamente in un mondo di divisioni.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Turismo e ricerca del bello

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gen 11 2011

Quando la bellezza è sfida e invito al cammino

La verità è bellezza e la bellezza è verità. Solo questa bellezza, che nulla ha a che fare con l’estetismo, può dissetare l’uomo dalla sete che lo caratterizza e lo accompagna nei suoi giorni. I surrogati non possono che acuirla. In un tempo in cui la soppressione dell’interiorità rende ancora più ardente questa sete, il legame con l’Invisibile alimenta ogni arte degna di questo nome e la bellezza –  della natura e dell’arte – è più che mai una sfida. Una sfida all’imbarbarimento dei rapporti che contraddistingue il nostro tempo; all’indifferenza che ha sostituito la passione ideologica; al pensiero debole che svuota la realtà e la nostra vita di qualsiasi radicamento e fondamento.

La penisola del tesoro

C’è dentro di noi qualcosa che invita a uscire dalla routine. Anche per questo tanti cercano, con molte spese e in Paesi anche lontani, occasioni di stupore, immagini e sensazioni singolari da custodire poi  gelosamente per i giorni velati dalla noia. L’Italia – e Roma in particolare – è crocevia di civiltà che per millenni ne hanno plasmato il territorio. Il suo vero primato è nei beni culturali che possiede e che ne fanno quasi un museo a cielo aperto, diffuso e stratificato. Ma tutto il mondo è una foresta di simboli e chi è credente li contempla, li interroga e se ne lascia interrogare.

Eremiti e pellegrini del terzo millennio

La G.M.G. – che quest’anno si terrà a Madrid – è un momento di Chiesa che ormai caratterizza il cammino di tanti giovani, i quali cercano di vivere in Cristo la loro esistenza; la Compagnia di Gesù ancora oggi prescrive ai giovani Gesuiti una tappa obbligatoria nel cammino di noviziato: farsi “pellegrini in povertà” per due settimane. Ciò che importa è non camminare mai soli, ma con colui che è il Cammino. I pellegrinaggi dunque non sono oggi al capolinea. Anzi. I nuovi viandanti, pellegrini della verità e della felicità, alla ricerca del sacro o di prospettive soprannaturali da cui si sentono attratti, non sono tutti mossi dalla fede. Le statistiche recenti testimoniano che, mentre il turismo in generale manifesta qualche segnale di rallentamento, i viaggi ispirati a tale bisogno registrano un crescendo significativo. Un’opportunità per accompagnare l’uomo contemporaneo nella sua ricerca di senso; per camminare insieme sapendo di essere amati e sperando amore anche oltre i confini della nostra breve esistenza nel tempo. E scoprire così che è possibile danzare la vita, anche dentro la quotidianità monotona e ripetitiva.

Il tutto rivela l’attualità delle parole dell’allora cardinale Ratzinger:«Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini, in cui ci imbattiamo, a incontrare i santi e a entrare in contatto con il bello».

Recuperare il significato profondo del riposo

 «Il tempo libero è una cosa bella e necessaria», soprattutto se poggia su «un centro interiore» che permetta di evitare il rischio di farlo diventare «tempo perso», ci ricorda ancora Benedetto XVI. Si tratta allora di organizzare la vacanza, anche quella breve di un fine settimana, per apprendere e arricchirsi di un più corretto uso del tempo; di imparare a ‘perdere tempo’ perseguendo, in tutto ciò che si fa, l’obiettivo di riuscire a sciogliersi, parlare, fidarsi, confidarsi… Si tratta insomma di vivere il tempo libero come luogo dove ritrovare il gusto di approfondire, anche dedicandosi a quelle attività gratuite -come leggere, ascoltare musica, contemplare paesaggi…- che alimentano nel cuore il desiderio di un ‘oltre’ e introducono nel mistero.

Divino tempo libero

Ogni luogo di vacanza ha il suo linguaggio, i suoi simboli, le sue dinamiche, il suo incanto. Ha anche una sua modalità d’incidere sul nostro animo e sul nostro spirito.

Ma sempre e per tutti il tempo cosiddetto libero può diventare un’oasi dove bere il sapore del cammino nel deserto dei giorni. Chissà! Forse potrebbe insegnare a cogliere l’essenziale, a capire ciò che resta  mentre tutto passa, ciò che conta davvero. La parte migliore…

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Fede in cammino nel mondo di oggi

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gen 04 2011

Fede e vita: bisogno di senso assoluto

È esperienza di tutti ritrovarsi, ogni giorno, contingenti e fallibili. Cerchiamo ostinatamente il “tutto” e raccogliamo soltanto frammenti. Siamo mossi dal bisogno assoluto di felicità, ci illudiamo di costruire il paradiso in terra e molto spesso creiamo invece l’inferno: per noi e per gli altri. Allora ci diamo da fare per mascherare con il rumore il vuoto che rimane nel cuore. Ma i vuoti non si risolvono facendo cose ‘vuote’.

Il mondo in cui viviamo, intanto, viaggia all’insegna dei verbi apparire, produrre e capitalizzare; e offre con essi un panorama di riferimento a valori parziali assolutizzati, nel quale la fede si visualizza come evasione, come rifugio di comodo, o tutt’al più come emozione che concede un po’ di calore alle asprezze dell’esistenza. Ma l’uomo lucido e libero non può rinunciare a chiedersi -con rabbia e a volte anche con disperazione- il senso del faticare nei suoi giorni mortali, della sofferenza e di quella morte che, comunque, lo scavalca. In ogni uomo è inestinguibile il bisogno di un senso assoluto, ultimo e definitivo, che riguarda la propria vita, la storia intera di tutti gli uomini e l’intero universo. Ognuno rimane comunque libero di non credere.

Tutti viandanti dell’unico Dio

«Dio non è un soprammobile per arredare il mio salotto interiore», non mi vuole risparmiare la fatica di essere assalito dai dubbi. Chi vuole diventare credente in modo personale e sincero parte dal seguire l’amore, dal fidarsi e dall’accogliere le beatitudini, che oggi più che mai sono controcorrente e controcultura. In lui la fede allora diventa tutto. In verità il problema principale dell’uomo è quello di una fede totale: quella realtà che possiede la persona come fa un amore grande quando entra nella vita. Per sua natura infatti la fede, come l’amore, impegna, scuote da ogni quiete soporosa e oziosa, responsabilizza; soprattutto permette di ‘vedere’ come Dio vede la storia, la vita, la morte, il destino dell’uomo. Nella fede la persona non si riposa, ma si espone: come Abramo, che risponde «Eccomi» al Signore che lo chiama per metterlo alla prova (Gen 22,1); come Samuele, che dice «Eccomi» al Dio che lo chiama nella notte (Sam 3, 4). E, come Maria, seriamente si impegna ad amare come Cristo ha amato: fino a dare la vita.

Che cosa opera la fede

La fede è crescita dell’uomo. E’ imparare ad ascoltare il rumore della vita per focalizzare le cose più preziose che ci accadono. Quando non fa crescere, allora bisogna verificare se è autentica. Il Signore per esempio nel cammino di fede chiede alla persona un cambiamento di relazioni. Attraverso circostanze esterne e anche desolazioni interiori mette in questione il  modo di concepire il rapporto con Lui e con gli altri. Così avviene che, qualunque percorso di fede io abbia già compiuto, non posso accontentarmi della mia relazione passata, per quanto buona o discreta essa possa essere stata. Ora deve progredire sapendo che l’intenzione del Signore non è di togliere qualcosa, ma di far passare a un livello di amore più puro e generoso e di inserire così in modo sempre più profondo e personale nel Suo mistero.

Su questa linea di coerenza al Dio fedele e al suo vangelo, il credente gusterà la gioia della fede: la più completa che si possa immaginare.

Dio nella carne dei martiri di oggi

Intimidazioni, soprusi e violenze contro i cristiani hanno concluso il 2010 e segnato pesantemente anche l’avvio di questo nuovo anno. È incredibile che in molti Paesi del mondo, ancora oggi, l’essere fedeli alle proprie convinzioni possa costare la vita. Ma così è nelle Filippine, in Nigeria, Pakistan, India, Cina, Egitto… Così è soprattutto in Iraq e in tutto il Medio Oriente, dove la presenza cristiana a causa della violenza di queste persecuzioni sta diminuendo vertiginosamente, tanto da preoccupare persino le autorità musulmane, che temono per quelle terre solo un futuro di sangue.

Nostalgia del vero incontro

Sul portale del duomo di Lubecca è espresso magistralmente il lamento del Signore che ci interroga tutti:

Mi chiamate la via e non mi seguite (fedeltà),

mi chiamate la luce e non mi vedete (fede),

mi chiamate il maestro e non mi ascoltate,

mi chiamate il Signore e non mi servite.

Un dì, se non vi riconoscerò, non vi meravigliate.

La fede autentica comincia nel tempio, dove chiediamo la grazia di capire la vita filiale che riceviamo, e finisce per le strade a raccontare Dio come si racconta una storia d’amore. Il mistero parte dal cuore di Dio, rispetta la libertà dell’uomo e gioisce di essere accolto. E se le Scritture sono il percorso privilegiato per incontrare il Verbo di Dio, è il dramma della libertà il terreno non sempre facile su cui si incontrano Dio e l’umanità. La fede non può perciò essere imposta con la forza, ma nemmeno confinata nella sfera privata. Ai potenti del mondo e a chi lavora con i mass media rimane il compito di aprire una nuova frontiera ai diritti umani. A tutti i cristiani l’impegno di contemplare il dono di Dio per accogliere nella vita e nella storia il disegno d’amore del Padre e non disperdere la grazia che è affidata alla nostra testimonianza. La fede, oggi più che in altri tempi, continua a viaggiare principalmente con l’ ‘accogliere’, il verbo principe della libertà e dell’amore.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Il Tempo/bussola per la Pace

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dic 28 2010

Ci piace partire in qualche modo insieme verso il nuovo anno -anche dalle pagine di Fatti in controluce-  lungo il cammino della pace, verso una comprensione sempre più profonda della realtà, e in essa del nostro compito.

Abitare davvero il tempo… Come?

Parliamo di ieri, di oggi e domani, lo facciamo in modo vago illudendoci di capire, di afferrarne il senso. Comprendiamo che il tempo è certamente la risorsa più preziosa e non rinnovabile di cui disponiamo. Ci sappiamo anche chiamati a percorrere il presente come veri figli di Dio, che sanno di avere una patria altrove, e proprio per questo vivono nella patria terrena con la capacità di distinguere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo.

 «Se qualcuno perde dell’oro o dell’argento, potrà ritrovarlo, ma se perde un’occasione, non potrà ritrovarla». Così si esprimeva un monaco anonimo, facendo eco al Carpe diem dei latini. Ci hanno sempre insegnato a ‘correre’ per non perdere l’attimo fuggente. Ma ci chiediamo: stiamo sviluppando, intanto, la capacità di riconoscere l’occasione giusta? Siamo in grado di distinguere l’opportunità da cogliere al volo, rispetto all’illusione che è da smascherare e lasciar cadere? Il tempo è come un fiocco di neve, scompare mentre cerchiamo di decidere cosa farne (R. Battaglia).

Dalla speranza cristiana l’impegno per la pace

«Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al Suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza» (H. Schlier). Vedeva bene D. Bonhoeffer: Soltanto dove c’è Dio, c’è il nuovo e l’inizio… E in un altro passo: Cristo ti chiama a porre un nuovo inizio, abbi il coraggio di farlo confidando soltanto in lui. La speranza cristiana in realtà non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli e previsioni, ma viene da Dio, ci è donata da Lui. Il suo contenuto è quello di cui il Signore ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di Lui.

Amici o prigionieri del tempo?

Ma la vita quotidiana è vissuta in genere da noi con un’inesorabile mancanza di tempo e quindi con profondo senso di frustrazione e di impotenza. Siamo presi da tante cose, corriamo e corriamo e qualche volta senza sapere dove… Poi succede anche solo un evento, e ti rendi conto che il tempo non è come l’aria, inafferrabile. Lo stai sprecando, perdendo… E intanto si affievolisce il senso della verità e della responsabilità, si scredita l’eroismo della fedeltà, mentre tutti i legami diventano più o meno solubili.

Meno chronos , più kairos

Gli eventi che attraversano i giorni della nostra vita possono restare Chronos, semplici fatti di un passato che non ritorna (l’occasione colta o persa) oppure diventare Kairos, “vissuto”, “storia”, e assumere un valore che va al di là dell’occasionalità. Si tratta di liberarsi dalla schiavitù del tiranno Chronos, per ritrovare la libertà di scegliere, di dar peso alle realtà che lo meritano. E imparare così ad afferrare  Kairos, il Tempo che permette di capire chi siamo realmente e dove vogliamo andare; accorgerci di chi ci sta intorno e individuare i  sogni e i valori che vogliamo difendere. Il Tempo che ha sapore e costruisce una realtà nuova; il Tempo opportuno che sta preferibilmente nel qui e adesso, perché solo nel presente ci sono le situazioni che chiamano dove Dio si manifesta. E si manifesta, come dice Pascal, attraverso gli avvenimenti e gli incontri. Purtroppo, spesso e volentieri siamo sordi a queste chiamate e tendiamo a mettere i si e i no al posto sbagliato.

Creature di relazione e di pace oggi?

È il Signore la pace che sorge dentro i nostri confusi conflitti. Lui la speranza vincente sul nostro pessimismo. Non possiamo infatti progredire nell’amore dei fratelli, se non amiamo Dio. E d’altra parte non possiamo amare Dio se non apriamo il nostro cuore all’amore verso i fratelli. Condotti dalla Sua Parola, passiamo dal vivere per qualcosa al vivere per qualcuno; dal fare le cose per mestiere o per buona abitudine alla passione di comunicare il proprio tesoro, che, anche se contenuto in vasi d’argilla (2Cor 4,7), è annuncio di salvezza e di gioia. Il discepolo non passa attraverso il Tempo – fatto appunto di avvenimenti e di incontri – come il turista, che fissa alcune immagini e alcuni suoni, prima di tornare a casa propria. Il discepolo resta all’interno della realtà, come il lievito che fa gonfiare la pasta, come il sale che si confonde con gli alimenti. E ogni tempo diventa così un Kairòs per dire il proprio eccomi. Un eccomi che ravviva la quotidianità ed è seme di pace che non muore.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

IL NOSTRO NATALE 2010

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dic 23 2010

Il Signore viene, Re di giustizia e di pace! (salmo 71)

Molti lo attendevano, ma ciascuno con una propria idea di regalità, di giustizia e di pace.

Il Signore viene, forse deludendo molti anche oggi; viene e prende carne, abita in mezzo a noi, assume il volto della “compassione”.

Maria, donna dell’ascolto impregnato di fede, lo riconosce fra molti e senza esitare, lo accoglie nel suo grembo, gli dona la sua maternità e finalmente lo porge a noi che, dalle tenebre fitte di una umanità smarrita, imploriamo “misericordia”.

Lui viene con il volto della compassione e assume il grido dell’umanità di tutti tempi.

I nostri fondatori, come Maria, lo hanno riconosciuto, lo hanno accolto e, nella molteplice varietà dei carismi continuano nel tempo il mistero dell’incarnazione del Verbo. Loro diventano prolungamento della “compassione” del Figlio di Dio; e in ogni tempo fiorisce la speranza sulla terra.

E noi oggi?  

Sicuramente la parola “compassione” emerge spesso dalle pagine delle nostre Regole di vita e noi, comprendiamo che la missione a cui siamo chiamate ogni giorno, è proprio quella di prolungare il natale di Gesù sulla terra, di generarlo nel cuore di chi incontriamo, di riconoscerlo nel povero, nel debole, nel senza tetto, nell’angosciato, nel disoccupato, nelle persone sfruttate e maltrattate dalla società, nel prenderci cura di Lui in questi fratelli e sorelle.

Ogni volta che fiorisce nella nostra mente e nella nostra azione un gesto di amore, lì Gesù è nato, è natale,  dunque, tempo di luce, di speranza, di giustizia e di pace.

Non occorre andare molto lontano per vivere questo. E’ la nostra chiamata e missione di ogni giorno.

Si tratta di avere un cuore sveglio, di saper vedere e di saper ascoltare. 

“Il Signore viene, Re di giustizia e di pace!”.

 Una testimonianza:

 “ Care sorelle,

questa sera il sonno non vuole arrivare, dopo una giornata fatta di corse, di pianti, di dolore implacabile della mia mamma.

Una giornata di lavoro e di fatica, di senso di vuoto e di mancanza.

Poi finalmente  a casa e trovo il tempo per pensare. Penso che mi piacerebbe poter pregare tutte le sere con l’intensità con cui pregate voi. Penso che vorrei riuscire a vivere nel profondo del Signore. Penso che le sensazioni che ho provato nella vostra cappella mi hanno lasciata piena di gioia e con una pace  straordinaria nel cuore.

Sono convinta che ogni cosa accade per una ragione e quindi il fatto che mio papà sia mancato lì da voi…avervi conosciute, aver ricominciato ad avvicinarmi alla preghiera…nulla è un caso…

Spero che un giorno la mia fede nel Signore sia talmente forte da potermi rendere suo strumento per aiutare altre persone….

Credo che sia la prima volta  in vita mia che trovo persone, al di fuori della mia famiglia, pronte ad accogliermi e guidarmi.

Non so cosa posso fare per ringraziarvi”.    Valentina 

Valentina si è appena laureata in giurisprudenza con il progetto di continuare i suoi studi, ma la morte immatura del suo papà, che gestiva e dirigeva un’azienda, le ha fatto cambiare programma. Ha interrotto gli studi per portare avanti con due suoi fratelli l’azienda del papà e questo, perché come famiglia hanno deciso di non mettere in difficoltà i dipendenti con il licenziamento.

Davvero, una piccola perla che, brillando, ci annuncia che Gesù è nato!

Buon Natale!

 Sr M. Viviana Ballarin o.p.

Presidente Nazionale USMI