Anziani del terzo millennio

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ott 10 2012

Scoprire con gli anziani e attraverso il loro mondo che la vita è un dono sempre e che Dio è l’unico a cui si può parlare in certi momenti decisivi perché sa ascoltare e intervenire al di là di ogni attesa e comprensione umana.

Un mondo da scoprire      
In chi riesce a diventare vecchio in Africa la gente ravvisa una sorta di prediletto dalla vita. Lo ritiene portatore della benedizione divina e lo circonda di riguardi e di rispetto. Nel più antico continente, infatti, mentre i bambini con la loro presenza caratterizzano il paesaggio e li si può incontrare dappertutto, gli anziani sono qualcosa di speciale, simbolo di un’Africa che resiste e sa cambiare se serve, non rinuncia al proprio futuro e anzi lo custodisce con amore e con fiducia.

L’Italia invece è il Paese “più vecchio d’Europa” e i suoi bambini sono pochi. Da noi se una persona non ha superato (e di gran lunga!) i 70 anni, difficilmente è definita ‘persona anziana’. In realtà gli ultrasessantenni di oggi in Italia non sono certo più quelli di ieri. Lo si deduce chiaramente anche dal nuovo rapporto Censis sulla loro situazione.

Anziani oggi: più sani, più soli
Certamente nel nostro Paese gli anziani oggi sono più sani e più attivi, ma sono anche più   poveri e più soli. La vita media infatti si è allungata ed essi, sempre più numerosi, si trovano ad affrontare da soli le tante carenze assistenziali, economiche, previdenziali ed affettive, che la nostra arida società non sa e forse nemmeno vuole seriamente affrontare. ‘In un mondo dominato dal denaro e dalle sue logiche  – scrive V. Andreoli – si va verso la catastrofe. Non è una profezia da Cassandra, ma la semplice e realistica cronaca dei nostri tempi’.  Così il peso  della crisi, insieme agli effetti delle manovre correttive del vecchio e del nuovo governo, pongono oggi gli anziani  sempre più a rischio povertà, insieme a donne e giovani. Molte sono le storie di chi vive in uno stato di disinteresse generale, emarginato dal tessuto sociale e abbandonato al proprio destino. Povertà e solitudine sono mali che non permettono loro di godere delle conquiste che la scienza e la maggiore attenzione alla salute hanno prodotto. L’Italia tutta – e soprattutto chi in essa si lascia facilmente vincere dal ritmo del successo e dal pensiero del superamento dei valori ‘tradizionali’ – è chiamata con urgenza a guardare con molta attenzione a questo quadro. Una fetta di popolazione degna di nuovo interesse e con potenzialità e necessità tutte sue da soddisfare lo richiede con forza. Ma il Paese è pronto ad affrontare il cambiamento in atto per scoprire questo mondo e valorizzarne la risorsa?

… nella moderna società
Già Giovanni Paolo II, nella sua lettera agli anziani, metteva in risalto con parole forti e toccanti, l’individualismo e l’egoismo imperanti nella società contemporanea, dove ben poco spazio è lasciato a quanti, per vecchiaia o per malattia, non possono dare molto alla collettività in termini di produttività. In tale situazione – egli sottolineava – gli anziani stessi, percependo di essere poco amati e poco rispettati, sono indotti a domandarsi se la loro esistenza sia ancora utile.  

In realtà, se fino a pochi decenni fa l’anziano viveva nell’ambiente familiare per tutto l’arco della vita e i ritmi di lavoro, il tipo di abitazione, le forme complessive della convivenza sociale permettevano globalmente di integrarlo, la società attuale incontra invece gravi difficoltà. Così molti anziani, in un certo senso i più fortunati, vengono oggi accolti in case di riposo: spesso un eufemistico “modo di dire” per intendere ‘solitudini poste l’una accanto all’altra’. Per la maggioranza degli altri, in situazione di grave disagio, non vi è né il calore della famiglia né il sollievo di essere custoditi in una collettività.

I rischi e la grandezza della vecchiaia
I temi della vecchiaia e della longevità in realtà sempre hanno interrogato l’umanità. L’età anziana – che C. M. Martini citando un proverbio indiano amava definire ‘il tempo in cui si impara la mendicità’ – ha in sé un mistero: il mistero stesso della vita, davanti al quale nessuno è maestro o sapiente, qualunque tappa dell’umana avventura, alba o tramonto, egli si trovi a vivere. E anzi, mentre sembra che tutto giunga alla fine e le forze declinano, spesso anche nell’abbandono e nell’indifferenza degli uomini, anche Dio a volte sembra lontano. Ma neppure la morte ferma il cammino di chi cerca con amore la Verità se, pur disperando a volte di trovarla, non si arrende in questa ricerca. Certamente i vecchi appartengono alla schiera dei deboli e proprio nelle loro debolezze essi rivelano tutta la loro storia, la loro vita. Questo va rispettato e accade così che la persona percepisce la propria fragilità e insieme la provvisorietà di ogni cosa. La svolta nel suo cammino c’è nel momento in cui la persona accetta di fidarsi di Dio. Allora compie un percorso di crescita verso la verità, riesce ad accettare il proprio limite e trova le risorse necessarie per affrontare il tempo della prova.

Il compito ‘nuovo’ dell’anziano
Il Vaticano II ci ha invitato a scrutare i segni dei tempi e a riconoscere il valore delle realtà terrestri. Il Regno di Dio non è solo nel successo, ma è anche nel nascondimento e nella prova! Abbiamo bisogno di rileggere come credenti questo nostro tempo per capire ciò che davvero si sta muovendo verso la realizzazione del Regno.

Se l’anziano scopre nella preghiera la presenza di Dio che ha accompagnato tutta la sua vita, di questa Presenza egli può diventare testimone e annunciatore nella comunità dei fratelli. È il compito ‘nuovo’ del vecchio. La sua forza è tutta nel messaggio di vita che viene:

- – dalla sua accettazione serena degli impedimenti che vengono dall’età;
- – dall’abbandono in Dio anche nei momenti della malattia, in cui può sentirsi inutile e di peso;
- – dalla coraggiosa e fiduciosa preparazione alla morte…

Non solo Dio non lo ha abbandonato, ma è accanto a lui nella sua angoscia ed egli può parlare per lodarlo e raccontare le sue opere.

Chiamata per tutti alla responsabilità e alla gioia
Certo in alcune situazioni è più difficile riconoscere il significato di ciò che sta ‘crescendo’. Ma anche i dolori della vita possono essere trasformati – se ci si lascia guidare dalla luce e dalla forza dello Spirito – in occasioni di servizio e di testimonianza della fede.

Possiamo chiedere ai nostri anziani di regalarci la loro autorevolezza, quella che dà alla nostra fede la risonanza profonda e convincente che deriva da una lunga esperienza della vita e per questo sa aprirsi con creatività e coraggio ai problemi della società e ai compiti nuovi necessari per affrontarli.

E noi nelle comunità cristiane e religiose – soprattutto in quelle specificamente impegnate ad offrire tempo e servizio agli anziani – insieme ai nostri vecchi e nel contatto diretto con la Fonte, sapremo immergerci con coraggio e consapevolezza nelle situazioni più faticose e complesse del Regno… senza dimenticare quanto sia sempre facile lasciarsi ipnotizzare dal male che è in noi e attorno a noi!!

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Riconciliarsi: appello dal nostro tempo

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set 28 2012

Due eventi attuali, un unico richiamo: cambiare i pensieri per evitare “l’angolo della vittima” e accogliere nella propria vita la chiamata alla riconciliazione.

Qualità della vita significa qualità delle relazioni, che ne costituiscono la sostanza. Nelle relazioni solide, profonde e durature che riusciamo a creare e a vivere con gli altri, ognuno può dire con convinzione a se stesso e a chi gli vive accanto: io valgo e tu vali, mi stimo e ti stimo; insieme possiamo costruire! Spesso invece nella nostra vita insieme ci ritroviamo a vivere, più o meno consapevolmente, raggomitolati ‘nell’angolo’ della vittima’, come comparse in balia delle azioni di altri; passivi e in attesa del loro comportamento; nella delusione, inchiodati a vivere di riflesso. Facciamo così esperienza di quei contrasti così frequenti nella vita comune nei quali si vuole solo vincere e non capire o risolvere un problema. Forse anche condizionati dalla cultura moderna che non fa davvero molto per valorizzare il perdono; il più delle volte anzi legittima il rancore e la vendetta. Ma continuando su questa via certamente il male non diminuirà nel mondo. Alcuni lo hanno capito e lo testimoniano con i fatti.

Eventi che richiamano ad abitare la propria vita interiore
Due eventi per tutti:

1-    Il 17 agosto 2012 l’appello congiunto cattolico-ortodosso – il primo del genere firmato da due Chiese – ai popoli della Russia e della Polonia “affinché preghino per ottenere il perdono dei torti, delle ingiustizie e di tutti i mali inflitti reciprocamente nel corso dei secoli”. La preparazione dell’evento era in corso da tre anni. Presenti, in un clima di forte emozione, le più rappresentative autorità delle due Chiese, insieme a numerosi membri del governo polacco, a intellettuali e uomini di cultura. Il “documento non cambierà gli uomini una volta per sempre, ma sarà un documento fondamentale al quale si farà riferimento nei secoli futuri”. Chissà, forse diventerà per tanti l’occasione per decidere se manifestare concretamente sostegno alle tante popolazioni che oggi stanno vivendo in situazioni di conflitto e di emergenza umanitaria!

2-    La comunità ecumenica di Taizè, nata in Francia per creare segni di riconciliazione nei Paesi che avevano sofferto la guerra mondiale, festeggia il cinquantesimo di fondazione. Frère Roger, ricordando quegli inizi, chiarì gli obiettivi della Comunità con queste parole: “Penso che dalla mia gioventù non mi abbia mai abbandonato l’intuizione che una vita di comunità poteva essere un segno che Dio è amore, e amore soltanto. A poco a poco cresceva in me la convinzione che era essenziale creare una comunità con uomini decisi a donare tutta la loro vita, e che cercassero sempre di capirsi e riconciliarsi: una comunità dove la bontà del cuore e la semplicità sarebbero al centro di tutto.” Chi da allora visita la comunità e la Chiesa di Taizè, ricorda la propria chiamata alla riconciliazione e la cerca per realizzarla aprendo il proprio cuore e il proprio spirito a tutti, a cominciare dai più vicini.

E nel nostro piccolo?
In ogni situazione riconciliarsi significa – in partenza – riuscire a prendere contatto con se stessi, con il proprio corpo così come è diventato nel tempo, con la storia della propria vita e con i propri lati oscuri e ombre, senza far finta che ferite e offese ricevute non siano state. …Solo a questo punto ci si ritrova in grado di entrare in relazione con gli altri e con Dio, se davvero lo si vuole.

Si avvia così quel processo circolare, reciproco e interattivo che è sfida continua a dire sì a ciò che vorrei far finta di non vedere e che richiede umiltà sempre in prova. Ma è la verità che ci farà liberi, come Gesù ci ha promesso (Gv 8,32).

Il processo del perdono richiede tempo…
Mi sono sentito abbandonato, sminuito, non preso seriamente in considerazione… Se qualcuno ci ha ferito e fatto soffrire, probabilmente esprimeremo con parole simili i sentimenti che ci ritroviamo dentro. Potremo anche decidere di ignorare tali emozioni, ma questo non le fa diminuire. È necessario invece lasciare al dolore il tempo necessario ad una sana metabolizzazione, senza scusare troppo presto la persona che ce lo ha provocato.

Anche la collera ha un ruolo positivo nel processo del perdono: fa prendere una sana distanza rispetto all’altro. Il che non significa autorizzare se stessi a gridare, o mettersi a ripagare con la stessa moneta, ma acquisire la consapevolezza che non ho bisogno dell’altro perché la mia vita si svolga positivamente. Tale consapevolezza permette anche di guardare con maggiore oggettività a ciò che è accaduto e di comprendere meglio il motivo per cui il comportamento dell’altro mi ha fatto soffrire tanto. Chissà, forse ha toccato in me un’antica piaga, un posto dove non mi sono ancora riconciliato con me stesso… A questo punto sono in grado di rinunciare a girare attorno alle mie ferite e a rimuginare sul passato.

Non si tratta – come si può facilmente capire – solo di una tecnica. È invece un’arte che non lascia immutata la persona, perché una cosa è certa: se là dove mi hanno ferito crollano le mie maschere, posso finalmente mettermi in contatto col mio vero . Ciò che mi fa soffrire infatti mi fa anche sentire vivo e mantiene sveglia nel cuore la nostalgia di Dio e del Suo Amore pieno e gratuito. Il discepolo insomma è invitato a mettersi in gioco e a dare quel poco che ha. Il resto lo farà Dio, che ci dona energie nuove insieme alla fiducia di poter imprimere in questo mondo la traccia inconfondibile e personale della propria vita.

Riconciliarsi con Dio
La riconciliazione, di cui oggi abbiamo grande bisogno – per dirlo ancora in sintesi – è un agire di Dio che apre la persona alla fede e la scardina dalle sue abitudini. È troppo bella l’esperienza di presentare a Dio tutto quello che c’è dentro di sé affidandosi al Suo mistero inafferrabile; sentirsi, anche se solo per qualche istante, una sola cosa con Lui, con tutto ciò che esiste e con quello che egli ha ci ha riservato.

Dio si serve di mezzi umanamente inattesi per invitarci a questo, ma tocca a ognuno riconoscere e rispondere alla Sua azione, accettando la fatica di liberarci dalle false immagini che di Lui e di noi stessi ci resistono nel cuore per poi ‘risorgere’ in tante occasioni.

Sì, solo la fiducia nella piccolezza è capace di spostare la montagna dell’orgoglio e della paura. Ed è la piccolezza che rende veramente capaci di riconciliazione e di condivisione.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

“Il benessere pesa”

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set 18 2012

Alcune parole di un uomo che ha uno sguardo sempre ‘un poco oltre’, non teme di porre sul tappeto problemi scottanti e spinge chi accetta di lasciarsi interrogare a guardare lontano.

«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote mentre l’apparato burocratico della Chiesa lievita … Noi ci troviamo come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo» (C. M. Martini).

Sono parole che solo chi – come il cardinal Martini ha dato ad esse spessore con la propria vita, amando e servendo con tutto se stesso – può consegnare con libertà a tutti come un testamento. Noi vorremmo almeno essere capaci di riflettervi un po’ insieme per raccogliere, con il suo lamento per una Chiesa «stanca»:
-      l’invito a «liberare la brace dalla cenere» perché quest’ultima non abbia a seppellirci;
-      il bisogno di essere «uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque»;
-      l’esortazione alla «fede, fiducia e coraggio»;
-      le domande: «Come mai non ci si scuote? Abbiamo paura?» e «Io che cosa posso fare per la Chiesa?».

La stanchezza amica…
Difficoltà, tensioni, ambiguità attraversano la vita comunitaria di tutti, credenti e non. E nemmeno la preghiera di chi crede preserva dalle difficoltà e dalle contraddizioni. Solo orienta il cuore perché la persona possa attraversare e portare tutte le realtà della sua vita in una libertà interiore sempre più profonda. La fede guida a resistere a quel senso di impotenza che a volte ci assale e guida a relativizzare il proprio vissuto per essere capaci di orientarlo a ciò che non passa.

La sensazione di stanchezza allora – qualunque ne sia la causa – costituisce per ognuno l’occasione di riflettere in modo nuovo sulla propria vita e su ciò che in essa conta davvero; sprona a domandare a se stessi che cosa si desidera esprimere con la propria esistenza, sapendo che ciò che conta non è fornire prestazioni e sforzarsi, ma è ’essere’, ed ’essere’ per grazia di Dio. La verità del proprio cuore in realtà non si mette in scena e nemmeno dipende dagli applausi o dai fischi finali degli altri, ma deriva solo dallo sguardo intimo e ardente del ‘re’ che è in noi (cfr. Sal 44,12). La stanchezza, quindi, si rivela amica perché introduce alla propria verità, al mistero di Dio e dell’essere umano.

… e la sfida a cambiare
La coscienza, pur gradualmente acquisita, della fugacità della vita propria e di quella di quanti e di quanto circonda ognuno, permette di discernere ciò che è essenziale, e di maturare in una più vera libertà di scelta. È importante non identificarsi troppo con la scena che fa da sfondo alla propria esistenza e porre comunque su chi ci vive accanto nel quotidiano uno sguardo fiducioso che aiuti l’altro a rivelarsi.

La preghiera e persino la decisione di voler seguire Gesù come discepoli non automatizzano scelte e decisioni della persona; solo l’accompagnano, orientano  e sostengono nel suo processo di crescita. E il fatto che il Signore Gesù trascorra un’intera notte nella preghiera prima di scegliere i suoi apostoli indica chiaramente al credente come sfuggire all’illusione di poter scegliere a partire solo da se stesso. È la relazione con il Padre in realtà che colloca nel giusto cammino della vita perché permette di cogliere la verità delle cose e, soprattutto, la verità delle persone. Radicare il proprio personale percorso in una relazione intima con il Padre dà infatti ai giorni che ci è dato di vivere il giusto orientamento e il ritmo giusto al passo. Un ritmo che è e rimane infinitamente rispettoso del mistero dell’altro, e nello stesso tempo non smette mai di essere fedele al mistero di se stessi.

Solo l’amore vince la stanchezza
Il cardinal Martini, sempre aperto all’ascolto per intuire la presenza di Dio ovunque e in chiunque, si è lasciato condurre ed è stato condotto dalla Parola a parlare al cuore della gente, superando così divisioni e steccati, nella libertà di uno sguardo non condizionato dalle strutture e dalle tradizioni. Egli non voleva che tutti pensassero come lui, ma semplicemente che pensassero. E per questo la nostra società, assetata di rapporti veri, lo ha capito.

Contro la stanchezza della Chiesa che siamo noi, egli consiglia a ognuno tre strumenti di guarigione molto forti.
Il primo è la conversione (di sguardo e di cuore), che richiede prima di tutto l’impegno a riconoscere i propri errori e poi a ricominciare ogni giorno il percorso per un cammino radicale di cambiamento.
Il secondo è la Parola di Dio che “è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti”. Chi percepisce nel suo cuore questa Parola e vi dimora con assiduità riuscirà a rispondere alle domande personali con giuste scelte. Dal momento che nessuna regola o legge può sostituirsi all’interiorità dell’uomo “se la vita interiore è nulla, per quanto si abbia zelo, buone intenzioni e tanto lavoro, i frutti sono nulli ” (Charles De Foucauld). Solo l’amore – ricorda con insistenza C. M. Martini – è più forte del sentimento di sfiducia e vince ogni delusione e stanchezza.
Il terzo è la forza che viene agli uomini dai sacramenti nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita.

Sono ‘strumenti di guarigione’ sempre necessari e particolarmente utili oggi, mentre la Chiesa si accinge a celebrare il Sinodo generale dei vescovi sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”, quando tutti i cristiani sono chiamati a trovare risposte adeguate alle nuove sfide per la Chiesa.

Nel tempo della nuova evangelizzazione
Per non reagire con durezza o con aridità a certe realtà difficili; per non scaricare su altri le proprie responsabilità; per raggiungere in modo convincente il cuore della gente, è necessario insomma che il cuore di ognuno sia pieno di Cristo e che parli a partire da questa pienezza.  La sfida a cambiare richiede perciò a tutti la conversione  e senza non ci potrà essere alcuna nuova evangelizzazione. Poi si potrà evangelizzare anche per contagio, come si esprimeva Martini. Un contagio senza parole. Un po’ come un sorriso genera un altro sorriso. 

Fratello nostro, Carlo Maria Martini, il nostro grazie a te che in modo esemplare hai perseguito la verità anche là dove l’ambiente non era favorevole, sempre pronto all’ascolto e al dialogo. Grazie per le tue parole chiare, semplici e vitali, che traducono per il nostro oggi il messaggio antico e sempre nuovo di Dio. Ti abbiamo amato, fratello nostro! Per il tuo sorriso e la tua parola, per il tuo chinarti sulle nostre fragilità e per il tuo sguardo capace di vedere lontano, per la tua fede nei giorni della gioia e in quelli del dolore, per la tua arte di ascoltare e di dare speranza a tutti. Ora che sei presso Dio, che opera in tutti e per tutti vuole che camminiamo verso l’amore, ci affidiamo alla tua intercessione: chiediGli per noi che insegni al nostro cuore dove e come cercarLo ogni giorno, dove e come trovarLo!

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Prossimi e…distanti

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set 06 2012

Nell’epoca del “calcolo” e del non-amore, anche la diversità e il conflitto possono essere vissute come opportunità positive per crescere in umanità.

Nell’epoca del non-amore…
Una smisurata mancanza di contatto umano caratterizza questo nostro tempo a tutti i livelli e si riverbera inevitabilmente in una conflittualità più o meno evidente nei rapporti con se stessi e con gli altri. Viviamo in un contesto, diventato quotidiano, portato più allo scontro che al dialogo, più teso a vincere sull’avversario che a risolvere il problema. Davvero oggi quello che ognuno soprattutto sembra aver bisogno di sentire, o di credere di sentire, è che qualcuno ha bisogno di lui. Nello stesso tempo è possibile udire ciò che risuona all’esterno nella misura in cui si porge fedelmente ascolto al proprio intimo. Ma non è “ridicolo questo bisogno di comunicare”?! “perché deve  essere tanto importante che almeno una persona abbia guardato dentro la tua vita?”, si chiedeva D. Hammarskjold. E poi: è proprio vero che solo chi ascolta può parlare?… Una cosa è certa: “Non sapendo da noi stessi chi siamo, possiamo apprenderlo solo da Dio” (Blaise Pascal).

e del calcolo
Qualcuno ha definito quella in cui viviamo‘epoca del calcolo’. Un tempo iniziato quasi in reazione e rivincita sul cammino intravisto nel secolo scorso e avviato da tanti con sacrificio personale, impegno ed entusiasmo – a livello personale e politico – per il riconoscimento dei diritti di tutti e una vera crescita in umanità.  

Oggi astuzia politica e corruzione culturale hanno velocemente modificato la qualità della convivenza e avviato appunto l’epoca del calcolo. Così siamo arrivati al punto che chi può fa e chi è forte ha diritto. Si fa politica per sé e non per tutti. Non ci si fa scrupolo di saccheggiare l’ambiente della vita se questo serve per arricchirsi. Si gestisce l’economia come profitto a scapito degli ultimi, invece che come risposta ai bisogni del vivere umano di tutti. Insomma: un tempo di non-amore civico e politico.

In tale situazione, oggi, chi è che ce la fa? Certo chi ha famiglie economicamente forti alle spalle…e non sempre sono i migliori.

I giovani
“Non lasciate che le forme associative in cui i giovani amano organizzarsi siano fuochi di paglia che subito si spengono disperdendo energie preziose”, ci ammoniva già Giovanni Paolo II. Non ci conoscono dicono i giovani degli adulti – non sanno perché siamo tutti su Internet, perché in tanti siamo tornati ad appassionarci di politica e lottiamo per difendere i beni comuni… In effetti osservando i giovani del nostro tempo nel loro insieme possiamo rilevare che emerge in essi il desiderio di fare comunità e anche l’ansia di sperimentare il valore della vita comune. Certo ci può capitare di vederli gonfi di tante esperienze e di saperi, veri o presunti, ma è altrettanto certo che essi hanno rispetto per la natura e rifiutano istintivamente tante forme di violenza. Ricercano vie concrete verso la pace e non rinunciano all’azione perché non hanno timore di sporcarsi le mani per spendersi generosamente per qualche cosa che vale. Così spesso ottengono molto di ciò che vogliono e a volte anche di ciò che desiderano. È facile comunque trovarli impegnati in progetti aperti al servizio. Strano può sembrare allora che nel vortice della molteplicità di impegni e di informazioni e con la facilità di comunicazione data dall’evoluzione degli attuali mezzi, i giovani vivano una dilagante solitudine. Troppo spesso faticano infatti a condividere le regole necessarie allo stare con gli altri, in un crescendo di relazioni conflittuali e di mancanza di ascolto reciproco, sia con i coetanei che con gli adulti. Forza e fragilità insomma contraddistinguono i nostri ragazzi.
Ma noi adulti, che li vorremmo fin da piccoli primi in tutto e non ci facciamo scrupolo di riempire la loro agenda di impegni fino a privarli della loro spensieratezza, noi che tanto spesso li sopravvalutiamo e li viziamo anche… non siamo proprio noi a comportarci da eterni adolescenti fino a disorientarli?

Il conflitto necessario
Sperimentiamo un po’ tutti – senza grandi differenze per ‘diritto’ di anagrafe – la frenesia del dover comunicare sempre, dovunque e comunque nel minor tempo possibile. Nel fenomeno Facebook ed SMS l’uomo tecnologico di oggi promuove una comunicazione veloce all’insegna… dell’economia. Paradossalmente però in questa frenesia di contatti la relazione si impoverisce e si frammenta…E quando ci si incontra, la fatica di parlarsi senza abbreviazioni e senza cellulare, con la calma di chi sa ascoltare e sa capire oltre le parole, è ancora più grande e incerta nei risultati. La posta in gioco è decisamente alta. Così, immersi nella bufera della storia quotidiana, ci ritroviamo tanto spesso a gridare Non ce la faccio più!!

La vita però si gioca nel fidarsi, nell’essere leali nei conflitti e anche nel renderli aperti per uscirne. D’altra parte paura e fiducia non stanno insieme e fuggire raggomitolandosi nella natura umana calcolatrice e diffidente è tagliare alla radice il movimento di fiducia nella VITA.

Ma nella nostra società si fa anche di peggio quando non ‘si lotta’ con le persone che ci rendono la vita difficile, si rifugge da ogni conflitto, non ci si schiera contro nulla, ci si sforza di essere aperti a tutto, disposti a qualunque compromesso… Questo viene chiamato ‘tolleranza’ e capacità di accogliere, ma in fondo è solo disinteresse e mancanza di rispetto. Invece il rispetto per chi sentiamo ostile – quello offerto,anche se non ricevuto! – aiuta a integrare la propria aggressività e forse predispone a un rapporto migliore. Prossimità e giusta distanza certamente sono necessari – in ogni tempo e soprattutto oggi – ad ogni rapporto autentico.

Litigare fa bene alla libertà
È proprio inevitabile che il litigare porti con sé tensione, disaccordo, rabbia, ansia? Certo il valutare, interpretare, sostenere portano facilmente al blocco difensivo, alla sfiducia, alla frustrazione…Eppure è necessario riconoscere e non rimuovere queste emozioni e sentimenti. Se un conflitto, infatti, viene sopito senza essere compreso, che cosa può garantirci che non ne possa nascere un altro, magari con diversi protagonisti e diversi contenuti?

Litigare fa bene alla libertà, diceva Nicola Abbagnano. E la discordia di opinioni non crea necessariamente contese inutili o pericolose. Ma questo solo se esse non sono – contemporaneamente – espressione di  intolleranza e arroganza. Il fatto è che ogni incontro reale esige una buona dose di lotta e persino di contraddittorio, e una vera avventura d’incontro è impossibile senza un altrettanto vero ‘scontro’. Ognuno infatti è una persona a sé e ha diritto a soddisfare i propri specifici bisogni, che talvolta contrastano o comunque non coincidono con quelli degli altri.

Nella nostra società è prevalente l’orientamento per cui, in presenza di conflitti di valori o di idee, necessariamente uno debba perdere e l’altro vincere. Così c’è chi si relaziona anteponendo il proprio bisogno come dominante (e lo fa con atteggiamento aggressivo!) considerando soluzione accettabile solo quello che è meglio per lui. E c’è chi per quieto vivere, in partenza è disposto a cedere su tutto…In fondo è facile essere gentili con chiunque anche solo per mancanza di carattere. Ma comunicare non è mai un fatto unilaterale, o di potere, e incontrarsi non è certo una cerimonia formale magari minuziosamente regolata in anticipo.

Se si vuole imparare ad incontrarsi, sapienza è nella capacità di leggere e interpretare il reale, perché verità e amore sono la stessa cosa e in essi ogni istante della vita ha il respiro dell’eternità.

Allora, con lo sguardo gettato verso l’Oltre al di là della nostra finitezza, e confidando – più che sulle parole – nel linguaggio dei piccoli e grandi gesti concreti e quotidiani, è necessario imparare a farsi prossimi in nome della fiducia impegnandosi a far circolare il bene e i beni. E farlo “non con tristezza e per forza, ma volentieri e con gioia (2 Cor 9,7).

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Sentirsi a casa nel mondo

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ago 21 2012

Il dono più grande che ognuno può ricevere nella nostra fragile esistenza, quello che rende una vita riuscita e piena, è sentirsi a casa nel mondo. Il che sembra proprio non dipendere dalla ricchezza o dalla povertà e nemmeno dalla salute o dalla malattia…

Valori olimpici alla prova della vita
Le Olimpiadi 2012 – il più grande evento globale di cui abbiamo esperienza, nato per favorire la pace, che ancora una volta ha affascinato e coinvolto il mondo intero anche al di là del puro spettacolo sportivo – si sono concluse, mentre nel mondo non cessa la triste sequenza di morti e feriti.

Tante le medaglie conquistate ai giochi di Londra. Ognuna a conclusione di un cammino personale tenace, sempre orientato a dare il meglio di sé anche di fronte alle possibili sconfitte. Ognuna al termine di percorsi segnati da faticosi e costanti esercizi. Impegno, creatività, tenacia… quando si impara a battersi in maniera leale e nel massimo rispetto delle regole e dell’avversario, i risultati ci sono, anche se non si traducono in medaglie! In ciò è la speranza che i valori olimpici incontrati dietro e dentro le competizioni (rispetto di se stessi, degli altri, dei ruoli e delle regole, rispetto dell’ambiente…) non vengano cancellati nel nostro mondo. È possibile costruire un mondo migliore attraverso la solidarietà, lo spirito di squadra, la gioia e l’ottimismo, perché dei valori autenticamente umani, per quanto essi possano risultare a volte scomodi alle istanze del potere o dei business, non ci si riesce a “liberare”.

Ci chiediamo se è concretamente possibile operare a livello di società civile per influenzare le politiche nazionali attraverso lo sport; creare un efficace movimento di pressione transnazionale per la promozione dei valori olimpici non solo in campo sportivo… E prima ancora ci chiediamo: dato che i valori non sono niente altro che ciò che ciascuno trova prezioso, allora quanto conta essere e dare il meglio di sé nella vita di tutti i giorni?

I Giochi olimpici ci lasciano insomma interrogativi radicali che toccano la fragilità della nostra esistenza e, insieme, il futuro che è affidato ad ognuno.

Vite riuscite
“… Forse anche voi vivete situazioni di instabilità, di turbamento o di sofferenza, che vi portano ad aspirare ad una vita non mediocre e a chiedervi: in che consiste una vita riuscita?” (Benedetto XVI ai giovani). La consapevolezza di essere liberi di dare una direzione alla nostra vita in realtà ci distingue da ogni essere vivente sulla terra. Il cristiano inoltre sa che la qualità del presente (e perciò anche del futuro!!) nasce dalla tensione fra quotidiano e regno di Dio. Il regno di Dio infatti orienta e mobilita l’uomo nella storia come un mistero che attraversa il cuore, come un disturbo da accogliere e una libertà da cogliere… Chi però decide di cercare e di rispondere al grande perché della vita scopre che essa è un dono e contemporaneamente un compito e una responsabilità.

Se si ama è spontaneo dare il meglio di sé e sentirsi a casa nel mondo. Il segreto di una vita riuscita è ‘impegnarsi ad agire per ciò che ami e amare ciò per cui ti impegni’ (F. M. Dostoevskij); è impegnarsi per un amore genuino e amare il percorso che conduce a quell’amore. Se l’amore è vero, profondo, sincero, la strada che permette di raggiungerlo è, sì, faticosa, aspra e anche irta di ostacoli, ma, amando, tutto diventa superabile. In una vita così si è felici di esserci perché se ne conosce il senso e, insieme, si sperimenta che esso non ci viene regalato automaticamente.

Il problema vero è che nel tran tran dei nostri giorni ‘normali’ è facile perdere di vista le cose che davvero contano. Senza considerare che non è nemmeno sempre facile capire che cosa per uno è importante, quali valori e mete realmente inseguiamo nella nostra esistenza… Per fare solo un esempio: pensiamo che la sincerità sia un valore importante, eppure facilmente ci sorprendiamo ad esagerare se non addirittura a mentire quando questo appare più semplice o più vantaggioso… Ma se non è chiaro che cosa conta nella vita, viene a mancare anche il fondamento per ogni scelta.

Una dinamica di speranza non scontata
Così nel nostro mondo – che considera la libertà soprattutto come pura rivendicazione di  autodeterminazione, come diritto e premessa per una realizzazione personale – molte sono le possibilità di fuga dalla domanda di senso. In tale situazione è facile lasciarsi ipnotizzare da frenetiche attività che si susseguono una all’altra, lasciarsi bloccare dalla paura del fallimento e  dell’ignoto, che può diventare il vincolo più forte a rimanere fermi là dove si è, con le abitudini e le cose che conosciamo anche se forse non ci piacciono… Deve essere terribile essere senza sapere perché, sentire la condizione umana girare attorno alla morte e conoscere in sé un pianto che non ha più lacrime… Non per niente la depressione è ‘la’ malattia del nostro tempo. Ma se la riuscita e il successo non sono mai definitivi, nemmeno la paura del fallimento è fatale. ‘Ciò che conta è il coraggio di andare avanti’ (Winston Churchill).

 

Succede però anche che l’esperienza di una malattia più grave delle altre, o la morte di un proprio caro, o un incontro particolare o più semplicemente l’inspiegabile senso di vuoto dopo una serata di divertimenti, facciano rinascere nel cuore l’interrogativo fatidico: ma che senso ha?

Senso cristiano della croce
Forse siamo arrivati davvero a un punto tale per cui, se vogliamo trovare un po’ di autentica umanità, bisogna andare a cercarla senza paura nelle situazioni limite: tra i disabili, i malati terminali, i carcerati… Paradossalmente oggi un messaggio di speranza sembra venire proprio da madri che accudiscono figli handicappati, da famiglie che curano in casa parenti in stato vegetativo, o da nipoti che accudiscono nonni anziani. È sorprendente come in queste situazioni emerga spesso una fiducia e una pienezza di vita, che non si trovano invece nelle cosiddette condizioni “normali”. Questo forse semplicemente perché la fragilità e anche i fallimenti sono tracce sincere di umanità… In fondo si tratta del mistero della croce, la verità cristiana tanto decisiva per la comprensione di sé, del mondo e dell’uomo. E se la speranza di poter cancellare la propria disperazione e il proprio dolore può togliere a volte persino la voglia di vivere, nel mistero della croce la persona trova invece la sua forza proprio nella consapevolezza di potersi rompere, nel sentimento autentico e per niente retorico della propria insufficienza che si apre così ad accogliere e ad essere accolto. Allora, “se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile” (Ger 15,19), quella fragilità si colora di forza, vive e si fa storia.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Turismo del macabro

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ago 09 2012

Il bisogno di dire ‘io c’ero, ho visto…’ in quei luoghi tristemente famosi, dove si sono verificati fatti terribilmente tragici, è specchio dei tempi, o espressione di una umanità in decadenza?

Specchio dei tempi…
Forse già 2000 anni fa Lucrezio aveva visto giusto quando, nel De Rerum natura, scriveva che è piacevole osservare, dalla riva, una nave che cola a picco “non perché rechi piacere che qualcuno si trovi a soffrire, ma perché è dolce scorgere i mali dai quali siamo liberi”.

Il relitto della Costa Concordia, adagiato ormai da mesi sulla scogliera dell’isola del Giglio, continua a registrare folle di curiosi che vengono anche da lontano per osservarlo dal vero, gruppetti che scambiano il gigante bianco per il monumento simbolo di una grande città da immortalare durante una gita, persone che cercano di farsi inquadrare da qualche telecamera in azione mentre passeggiano ‘del tutto casualmente’ davanti alla scena della sciagura, e persino coppie che sulla stessa scena fanno uno spuntino, come in una gita fuori porta, e poi si godono il macabro spettacolo…

…o espressione di una umanità in decadenza?
I “turisti dell’orrore”, oggi in costante aumento forse anche a causa della grande attenzione riservata dai mezzi di comunicazione ai casi di cronaca più efferati, sono forse semplicemente sciacalli della sofferenza altrui? Certo accade sempre più spesso che tanti nostri contemporanei per curiosità, scelgono di muoversi in vacanza verso luoghi che trasudano tristezza e dolore. L’obiettivo più o meno consapevole: poter rivivere (ma comodamente e senza pericoli!!) un pezzetto della tragedia che ha portato quei luoghi alla ribalta della cronaca.

I viaggi dell’orrore
Secondo gli studiosi del comportamento umano il fenomeno non è poi così insolito. E più fortemente sente il bisogno di poter dire “io c’ero, ho visto…” chi è più suggestionabile dal punto di vista emotivo.

Intendiamoci: esistono luoghi – come i campi di concentramento o i campi di battaglie famose che sono parte del nostro bagaglio storico e culturale – che vanno visitati per comprendere meglio le radici della civiltà in cui siamo immersi. Curiosità macabra invece è quella riferita a luoghi ‘famosi’ per violenze e omicidi, eventi drammatici fini a se stessi, senza relazione con la storia del Paese. Le mete principali  di questi ‘viaggi’ sono i luoghi colpiti da catastrofi naturali, come negli ultimi tempi le zone terremotate dell’Emilia, e quelle case private, quelle strade dove si è consumato appunto qualche delitto (Cogne, Avetrana…). La dinamica è sempre la stessa: si sceglie un luogo che abbia avuto forte risonanza mediatica e reso celebre da telegiornali e quotidiani; ci si documenta e poi si parte, considerando la meta un po’ come un set cinematografico.

Perché si sviluppa tale curiosità macabra?
In fondo si tratta di un modo per essere, se non protagonisti, almeno comparse in un ‘film drammatico’. Ci si stringe gli uni agli altri, con la voglia di spiare, scrutare; con il desiderio di cogliere qualche dettaglio nascosto, cercando di vivere una realtà che non si percepisce totalmente.

Si vive di riflesso la vita altrui, mossi da una curiosità che è radicata nel profondo egoismo esistenziale, forse per noia, forse per abitudine, forse solo per esorcizzare la propria paura della morte. Non è un’altruistica volontà di partecipazione al dolore degli altri a spingere verso il turismo del macabro. Più realisticamente questi ‘viaggi’ sono espressione di una crescente povertà interiore.

Fra sogni e incubi
Un fatto è certo: nel nostro tempo ci ritroviamo sempre un po’ più soli. Ognuno con il suo carico di drammi esistenziali e di decisioni da assumere; ognuno con la sua fatica a entrare in relazione con l’altro e con le luci e le ombre di un tempo nuovo da affrontare. Certamente non sempre siamo in grado di vivere, per il presente e per il futuro, quella responsabilità che Max Weber affidava all’uomo come compito suo proprio.

Il mistero allo stesso tempo attrae e respinge. Incuriosisce e impaurisce. Affascina e spaventa. L’orrore, in qualche modo, bypassa la mente analitica e la rende più manovrabile, come una triste voce nel silenzioso vuoto che riempie i giorni di molti.

È facile in tale situazione abbandonarsi a forme illusorie di superamento dei problemi. Così qualcuno, stando dalla parte del potere, si è convinto che gli incubi sono necessari quanto i sogni. Necessari al potere perché capaci di trasformare l’identità di una persona in un cumulo di emozioni e di sensazioni, che molto raramente si traducono in pensieri e comprensione dei fatti. Nessuna fatica quindi. E niente di più produttivo in un sistema come il nostro che mira ad essere dominato dal consenso. O almeno dalla dissuasione.

Nomadi di senso. In cammino
Invece è bellissimo guardarsi in volto al mattino e riconoscersi senza dover indossare delle maschere per sembrare adeguati a ciò che altri si aspettano da noi. Ma forse è necessario cambiare per sperimentare questo. Occorrono nuove strategie dello stare insieme e aiutarsi reciprocamente nell’avventura esistenziale. Le parole certo sono poca cosa. Ma anche una parola può essere qualcosa di utile se la si tira fuori dal proprio dolore e dalla voglia che l’uomo viva meglio e sia più uomo, meno ubriaco di illusioni e di inganni, fatti e subiti. È la fragilità, infatti, che, riconosciuta in sé e accettata, genera saggezza. E la saggezza avvicina alla serenità. Il senso di perfezione invece produce soltanto potere.

Certamente cambiare si può. Ma cambiare esige sempre fatica della mente e apertura del cuore: l’unica fatica capace di mantenere aperto l’orizzonte del possibile che è anche orizzonte del futuro.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Diversità: una sfida, che è scuola e profezia

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lug 26 2012

La profonda consapevolezza di essere intimamente amati così come si è dona il coraggio di non lasciarsi governare dalla paura; rende capaci di rivedere le proprie immagini interiori della realtà in favore di un maggiore ascolto della Totalità; apre il proprio agire e pensiero verso orizzonti imprevedibili, totalmente Altri.

Stranieri fra noi …

Un dato di fatto: il fenomeno migratorio caratterizza in maniera massiccia il nostro tempo portando persone fino a ieri estranee a vivere quotidianamente accanto.

Diverso per provenienza etnica e geografica, per ceto, modo di pensare, valori di riferimento, storia, errori commessi…, lo straniero è oggi una realtà consistente fra noi. Eppure su di lui, il più delle volte, il nostro sguardo continua ad oscillare tra indifferenza, disturbo e inimicizia. Può essere accolto, ma solo a determinate condizioni, normalmente di subalternità e di ‘interesse’, come forza-lavoro da sfruttare, pronti a convertirlo in superfluo da buttare quando le condizioni di mercato lo richiedono. Ogni incontro imprevisto o comportamento inatteso, ogni persona sconosciuta, in genere suscita in noi angoscia o inquietudine… L’esclusione del ‘diverso’ insomma sembra essere la ‘soluzione’ più comoda e più comune.

…e dentro di noi

Ma esiste un’altra esperienza di estraneità che è comune a tutti  e che può condurre alle stesse conclusioni. È lo scorrere del tempo che lascia rughe sulla pelle obbligando a ripensare il rapporto con il proprio corpo; è il figlio che entrando nell’adolescenza costringe a ripensarsi come genitori e come persone; è l’ammalarsi, il diventare improvvisamente poveri o ricchi, l’innamorarsi o il ritrovarsi traditi da qualcuno/qualcosa in cui avevi  realmente creduto. È vero che nel fazzoletto di terra che abita, ciascuno è chiamato in gioiosa fatica a dare il suo contributo, la sua nota unica in vista di un bene che sia veramente comune, di tutti…chiamati a esserci a vantaggio del diverso, insomma! Facile a dirsi. Intanto c’è chi continua a vivere relazioni nelle quali l’altro è semplicemente un suddito e su tale via non riesce ad incontrare né se stesso né l’altro; c’è chi ritiene di essere la sintesi del meglio di ciò che esiste in circolazione ma si avvicina solo a coloro che gli danno sempre ragione…

Tutti in realtà possiamo continuare a ‘vivere’ rimanendo stranieri a noi stessi, alla vita e alla verità, perché lo straniero è uno sconosciuto dentro di noi e la distanza che ci separa da lui è la stessa che ci separa da noi stessi (Jabés). 

La sfida

Come lasciar parlare la vita per quello che è e non per quello che noi pensiamo che sia? È  possibile riuscirvi? O siamo forse destinati a rimanere stranieri a noi stessi e alla verità? Lungo il cammino della vita tutto ciò che provoca a un ripensamento, allargando i nostri schemi mentali, che purifica eventualmente le definizioni raggiunte, è spinta profetica. E allora: che cosa posso imparare da te? Che cosa ti posso insegnare io? E soprattutto: dove possiamo andare insieme? Perché se la terra è un passaggio e un dono, il nostro abitarla è un camminare insieme. Ma questo può essere compreso solo quando ci si arrende alla logica del discepolo che ha da imparare; quando si permette alla novità e al mistero dell’altro e di noi stessi di rimettere in causa i modelli mentali già sviluppati nell’esperienza anteriore.

Il vero problema è questo aprirsi  – in gioiosa fatica, nel fazzoletto di terra che ognuno abita e al di là delle prime e istintive reazioni emotive – ad un coinvolgimento esistenziale con chi ci vive accanto; per intuire di lui quello che non si vede e quello che lui non dice; per scoprire il possibile specifico apporto che la vita richiede a noi stessi e a tutti e viverlo insieme. Sapendo però che questo richiede di liberare il proprio cuore da un’eccessiva attenzione a se stessi, di portarsi ‘oltre’ e lasciarsi sempre più ‘guardare’ dalla vita per riconoscersi nella verità di quello che si è, ben al di là di tutte le apparenze. Quante volte ci ritroviamo – come un deserto in attesa di pioggia – a farci domande che vengono dalla paura di noi stessi, del passato, del futuro; che scaturiscono dalla paura degli altri e del loro giudizio sul nostro dire e  operare… “Che ci sto a fare qui?”, “Ho già provato tante volte, so che sbaglio…”, “Cosa diranno, come giudicheranno quello che dico e che faccio…”, “Saprò resistere, essere fedele, sarò all’altezza?…”. Domande da cui viene la conferma che il contrario dell’amore in questa vita non è l’odio, ma la paura.

Quando la tenerezza guarda, tocca e risana

La verità di Dio e dell’uomo abitano dentro di noi, ma sono verità di cui nessuno può sentirsi padrone. Le scelte affidateci sono necessarie sì, ma anche impossibili: necessarie se vogliamo raggiungere la piena realizzazione, ma impossibili con i soli mezzi umani.

Necessario perciò è:

- ‘ridiscendere’ quotidianamente nei dati biblici – radice e fondamento del Senso per ogni cristiano – e farlo ogni volta come fosse la prima volta. Accogliere così la Parola di luce che rende veggenti e capaci di accogliere anche il ‘diverso’ nella simpatia-empatia, in un ascolto/dialogo critico che va oltre ogni pregiudizio e oltre ogni buonismo qualunquista.

- un esodo, un’uscita mentale, cordiale e pratica dalla paura dello straniero che è in noi e fuori di noi.

Cosa mai importa lo sguardo degli altri ai cui occhi rischia di sfuggire l’essenziale e il più vero della nostra vita? Meglio è lasciarsi guardare e penetrare dallo sguardo di Dio, che conosce la verità del cuore di ogni sua creatura sapendone portare tutto il peso d’amore. Perché il fine della nostra vita non è di esistere agli occhi degli altri, ma di stare serenamente al cospetto di Dio.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Viaggiatori nel tempo della vita

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lug 16 2012

Noi uomini in viaggio sui sentieri dell’Eterno. Vivere e morire: due classi della stessa Scuola, ma nella società occidentale, dominata dal sentimento della morte, sembra proibito parlare e perfino pensare alla morte, se non per cercare di esorcizzarla spettacolarizzandola.

Stralci da una lettera

Carissima F.,

la settimana scorsa il figlio di un mio caro amico, al padre che stava morendo fra tante sofferenze a causa di un tumore, mentre in tanti eravamo lì intorno al suo letto (…aveva voluto anche la ‘monaca’ – come mi chiamava lui!), ha chiesto: “Dimmi, papà, se c’è qualcosa che posso fare per te…”. Il padre, pienamente cosciente fino alla fine, con un filo di voce e uno sguardo pieno d’amore gli ha risposto: ”Guarda e impara!”.

Certo non è dato a tanti di morire così e non ogni morte porta con sé la stessa forza di istruzione e rivelazione. Ma è altrettanto certo che dove c’è amore, è compiuto tutto il significato della vita. Tutto il resto diventa completamente indifferente.

La lotta contro la morte inizia dalla nascita e riempie la vita. È vero che felicità e orologio si escludono perché in un certo senso la morte sta nascosta negli orologi. Ed è anche vero che noi per illuderci di possedere il tempo cerchiamo in tanti modi (inutilmente!!) di riempirlo. Ma credere in fondo non significa avere risposte già pronte… forse è solo la possibilità di vivere la pace di sapersi infinitamente amati da Dio e contagiarla. Ti confesso, cara F., che anch’io proprio di fronte alla morte dei miei genitori, ho visto più chiaramente – e ancora solo fugacemente – che cosa sia la vita in realtà. È stata per me la fine di un mondo unico. Sono debitrice al mio papà e alla mia mamma che ho visto perdere forza e varcare il tratto di strada che da qui vediamo e che a me ha tolto volti di cui vivevo. Mi è rimasta di loro (e anche di tanti che ho conosciuto) la speranza, la certezza nella fede che nulla va perduto della nostra vita: nessun frammento di bontà e di bellezza, nessun sacrificio per quanto nascosto e ignorato, nessuna lacrima e nessuna amicizia vera… “Insegnaci a contare i nostri giorni per arrivare alla sapienza del cuore”, preghiamo col salmo 89. E io me lo ripeto nel cuore ogni giorno, potrei dire: ogni momento.  

Rimane però il fatto che il mistero circonda e quasi opprime la vita: un argomento ad alta tensione che tocca tutti, anche inconsciamente. Non ha torto il sociologo Bauman nel sottolineare che l’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo. La morte in realtà è la personificazione dell’ignoto. E qualsiasi cosa abbiamo fatto per prepararci ad essa, probabilmente ci troverà comunque impreparati… Ma prima di essere chiamati ad uscire di scena, arriva per ognuno – ne sono convinta – un momento in cui sentiamo di dover mettere con coraggio e onestà le carte in tavola per capire su quale fede davvero stiamo basando la nostra vita, senza lasciarci  condizionare dalla paura di doverla riconoscere povera, spoglia, drammatica o nuda. Credere non significa semplicemente pensare che Dio esiste. È invece fidarsi di Qualcuno e “assentire alla chiamata dello Straniero che invita”. È certezza che nessuno è un numero davanti all’Eterno, è – spiega Bruno Forte – rimettere la propria vita incondizionatamente nelle mani di un Altro.

Giustamente Benedetto XVI ha parlato, a proposito del nostro oggi, di “stanchezza del credere”. Più che mancanza di volontà, all’uomo occidentale sembra mancare proprio la capacità di rischiare su qualcosa di assoluto. Così egli si guarda allo specchio e parla solo di se stesso, incapace di preghiera e anche di rivolta. Tutto finisce per lui per essere ‘uguale’ purché ‘conveniente’. E il ‘senso’ non lo trova se non è… immediato, pratico, individuale.

In realtà ci identifichiamo con il nostro corpo, con gli oggetti e gli affetti che sono esterni a noi; diamo molto peso alle cose materiali. Pensiamo che con la morte perdiamo tutto questo, e in effetti è così visto che “l’ultimo vestito che indosseremo è senza tasche”.

E mentre sentiamo la morte come la perdita di tutto, ci lasciamo prendere dal breve giro degli affanni e dei tornaconti immediati che prima o poi conducono nell’angoscia di un buco senza fondo.

Ma la casa, l’auto, i parenti, il lavoro… non siamo noi. La morte non sigilla nel nulla tutto quello che abbiamo vissuto e sentito. Ciò che è stato con noi fin dal momento della nascita ci accompagnerà anche nella morte. Non è necessario nemmeno avere “fede” per comprendere queste cose.

Eppure chissà perché continuiamo a credere che tutti gli uomini siano mortali, tranne noi stessi! E così, come dice Pascal, non avendo nessun rimedio contro morte, miseria e ignoranza, gli uomini hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai.

Tu hai ragione, F.: la morte dovrebbe essere la cosa più bella, se noi amassimo veramente Dio. Questo perché non siamo fatti solo per misurarci e compierci in un soffio di anni. Ho meno dubbi sull’esistenza di Dio che sulla mia stessa esistenza. Sì, non veniamo da noi stessi e non abbiamo base in noi. Siamo fatti invece per confrontarci con il grande mare dell’Eterno, che si apre dietro a quella ‘porta’.

Nei giorni che ci sono dati, la vita riserva ad ognuno la possibilità di accogliere e riconoscere l’esistenza di un orizzonte più ampio in cui cercare Dio e sentire di essere cercati da Lui. Ma riuscirvi richiede l’impegno a relativizzare se stessi disponendosi alla ‘morte’ quotidiana che questo comporta. Allora in noi e intorno a noi crescono fiducia, meraviglia, accoglienza, perdono… tutto ciò che in una parola il cristiano chiama dono della conversione

Camminiamo in cordata, mia cara F.

Contando sulla fedeltà di Dio che non ci manca mai perché Egli ci ama sempre e comunque, riusciamo a connetterci con le domande della storia e a mettere il nostro agire sui sentieri del ‘senso’. E se la vita e le situazioni cambiano, sempre però ci è dato di riconoscerci e vivere tutti come fratelli uguali nella dignità, nei diritti e nei doveri; di nutrire interesse per l’altro e per quello che accade nel mondo; di pregare per spostare quelle montagne di odio e ingiustizia che con le nostre sole mani a volte non riusciamo nemmeno a toccare.

“Tra voi non sia così…”. Gesù esorta quelli che scelgono di seguirLo a fare quanto è nelle proprie possibilità per lottare contro la povertà e l’ingiustizia…

Su questa strada anche lo spirito moderno, nato all’insegna di ‘felicità-più felicità, sempre più felicità’, potrà conoscere la gioia autentica della vita camminando sì nella notte, ma imparando anche ad aprire gli occhi alla luce della bellezza, che la fede in Cristo dischiude alla nostra fede.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Il buio e il cielo

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lug 02 2012

Dolori e sofferenze richiamano l’uomo a non vivere contro la verità di se stessi. Ma ci è affidata una realtà che non sempre riusciamo a cogliere e decifrare. Il Vangelo ci permette di intravvedere, intessuta nel quotidiano, la trama dell’infinito, che è insito nell’essere umano.

Speranza oltre la crisi 
Tragico e apparentemente irriducibile, il male esiste. E il dolore è in ogni dove. Benedetto XVI, parlando di sé e del mondo di oggi, ricorda il ‘mistero della nostra provvisorietà’ su questa terra, la dipendenza da circostanze e decisioni che non ci appartengono, delle quali a volte non riusciamo a scorgere neppure l’origine e la finalità. E invita a non lasciarsi avvolgere dal pessimismo, dalla tristezza, dalla rabbia ‘che una cultura odierna vuole metterci nel cuore’, mentre tanti ‘avvenimenti negativi, tante cattiverie – propagandati con abbondanza e spesso anche con morbosità dai mezzi di comunicazione - concorrono a disorientarci’.

Vogliamo rispondere seriamente a questo invito.

La trasparenza in politica e nella vita sociale è un valore fondamentale e irrinunciabile. Altrettanto irrinunciabile – ne siamo convinti – è che i cittadini entrino nel discorso pubblico con una informazione consapevole sui grandi temi della vicenda contemporanea dominata dalla crisi; una informazione che sia il più possibile completa e soprattutto corretta. Indignarsi non basta. È urgente che uomini e donne dal cuore puro e sinceramente desiderosi di impegnarsi per il bene di tutti abitino quello ‘spazio’ che rimane a ognuno e a tutti per pensare e capire; per cercare il fondamento di una nuova speranza e re-immaginare un futuro diverso e possibile; per attuare cioè quella ‘rivoluzione morale’ senza la quale nessun cambiamento è concretamente realizzabile. Troppo grandi e complessi sono i problemi oggi perché possano essere risolti solo da “qualcuno” (Stato, Mercato, Noprofit…). Il cambiamento passa obbligatoriamente dal lavorare insieme; dal mischiare i diversi punti di forza allineandoli alle opportunità; dall’immaginare – come qualcuno già sta facendo – vecchi strumenti spesso dannosi, come la finanza, utilizzati in nuovi modi utili; o strumenti asserviti ai poteri forti, come oggi la maggior parte dei media, tornati ad essere anche luoghi di educazione.

Viaggio in un altro mondo possibile
Il vero mistero è nell’ordinario, nella vita quotidiana. Nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince il bene, vince l’amore e non l’odio. Il senso diffuso  di scoraggiamento e di frustrazione, che colpisce specialmente chi ha perso il lavoro o non riesce a trovarlo, potrebbe però diventare soprattutto nei nostri ragazzi la tentazione pericolosa di cedere a illusioni violente, o l’altra, ugualmente grave, di pensare che vivere rettamente sia inutile. E’  necessario perciò puntare sulle regole e sulle opportunità per i giovani. Nel contesto attuale sono i giovani che possono esprimere la più convincente forma di resistenza e di lotta per un altro mondo possibile. Ma perché intorno non si continui a galleggiare tranquillamente sopra la propria autoreferenzialità magari difesi dal generale malcostume contro chiunque ponga la questione della coerenza, la via per tutti ci sembra essere una sola: studiare, leggere, informarsi, farsi un’idea di ciò che è avvenuto e sta avvenendo, individuarne le cause e cercare di vaccinarsi il più possibile nei confronti degli errori che sono alla base delle difficoltà attuali.

La vita interiore che ognuno riesce a coltivare si gioca tutta e interamente nel qui e ora, nel presente eterno della propria coscienza e nella propria capacità di costruire relazioni autentiche e trasparenti. È la relazione con l’altro infatti il luogo in cui si radicano e sviluppano la vita e la verità. Persuaso che nessuno possiede la verità, il cristiano si rallegra  della parte di verità che gli altri portano in loro e gli rivelano.

Questione morale in Italia
La menzogna che aveva indotto molti a ritenere equivalenti l’economia reale e quella virtuale dei giochi finanziari – scrive Bruno Forte – ha prodotto conseguenze devastanti in Paesi, la cui stabilità era finora ritenuta immune da rischi. Così i signori del denaro e dell’alta finanza (e cioè le nuove oligarchie economiche!) spadroneggiano in Europa e nel mondo. E tutte le “terapie ultraliberiste” intraprese finora per affrontare il problema non hanno risolto, ma caso mai provocato la crisi. Ma è davvero realistico aspettarsi che il capitalismo – il quale privilegia competizione, individualismo e dominio dei forti sui deboli – offra reali opzioni di vita? I governi europei hanno preteso e pretendono sacrifici sempre maggiori dai lavoratori e nello stesso tempo temono addirittura il rischio di un crollo “catastrofico” dell’euro. Ma ha senso la minaccia di un default per i proletari, o per i lavoratori precari a vita, che non hanno nulla da perdere? Nella sua radice più profonda, in verità, la crisi è di ordine morale. Egoismi e cecità colpevoli hanno permesso che alcuni si avvantaggiassero a scapito di molti altri, i più deboli. E l’Italia, nonostante la vivacità del suo tessuto imprenditoriale e manifatturiero e la qualità dei suoi lavoratori, non è stata meno colpita dalla tempesta etica ed economica che ha investito il ‘villaggio globale’.  

Come vincere l’ingiustizia dominante?
Il problema è che, sociale o religioso che sia, il potere non può essere ricercato o accettato che per servire e non per il prestigio o per i vantaggi tangibili che l’accompagnano. Non è la scarsità di beni che ha creato l’ineguaglianza e l’ingiustizia. Costruire una società più giusta e più fraterna richiede un atteggiamento risolutamente combattivo sul piano sociale. Sopprimere la sete di ricchezza e di potere inoltre certamente comporta una profonda conversione interiore, chiamata a tradursi nell’adesione a un’etica della misura se non della frugalità; ad esigere una solidarietà effettiva con gli esclusi. In tutto è necessario un ritorno senza riserve all’umano e alle urgenze dell’umanità.

Il bene è più forte del male
Alla nostra Italia ora più che mai occorre stima reciproca tra persone oneste e competenti. L’autenticità del singolo individuo e nei rapporti interpersonali è valore da promuovere perché solo su di esso si può costruire qualcosa sul piano personale e su quello sociale.

Liberarsi dalle maschere e dalle paure, essere se stessi in ogni situazione è possibile perché c’è qualcosa, anzi Qualcuno più forte che veglia sempre su di noi. La comunità cristiana è chiamata a non scandalizzarsi quando scopre anche nel suo seno il tradimento e il peccato: è un’esperienza che Gesù stesso ha vissuto e che ha previsto per la sua Chiesa amata. Nello stesso tempo però è invitata a non cullarsi nella falsa sicurezza e a non presumere di sé: il peccato è sempre possibile ed è male fidarsi delle proprie forze.

In una generale perdita di autenticità e di trasparenza nei rapporti interumani a tutti i livelli che contraddistingue questo nostro tempo, l’aiuto di Dio, cercato attraverso la preghiera e sperimentato nell’esercizio dell’amore al prossimo, è la grande forza di cui tutti abbiamo bisogno per un nuovo inizio.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Fra libertà e solitudine

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giu 18 2012

Comprendere la propria solitudine è strada sicura per diventare liberi; per capire quello che ci si aspetta dagli altri e dal nostro rapporto con loro; per prendere coscienza del ‘sé più autentico’…Una prospettiva nuova da cui guardare se stessi e ciò che ci circonda.

Creati per la logica dell’incontro…
Il mistero circonda e quasi opprime la vita. Ci affascina e insieme ci angoscia. In mezzo a un mondo che continuamente e forsennatamente si muove, siamo alla ricerca di un punto fermo dentro di noi su cui appoggiarci e stare fermi come la casa costruita sulla roccia.

“Come rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall’inquietudine del cuore umano?” (Vita Consecrata 81). Ce lo chiediamo drammaticamente di fronte a chi pensa di poter esprimere la propria libertà facendo l’iconoclasta, o addirittura azionando bombe davanti a una scuola con volontà ‘stragista’. Ce lo chiediamo con angoscia quando ci lasciamo raggiungere dalle notizie, per esempio, provenienti dai CIE che sono in Italia – quei centri di identificazione ed espulsione prima denominati centri di permanenza temporanea – dove fra suicidi, risse, fughe e sofferenze infinite, gli stessi agenti denunciano: ‘siamo allo stremo’. Ce lo chiediamo più semplicemente (per non soffermarci ancora a citare i fatti tragici che segnano l’attualità) nel nostro quotidiano più ‘normale’ e banale, ma non per questo percepito a volte come poco faticoso… Forse la sensazione di vivere insieme senza “essere” insieme è oggi la più terribile solitudine. Facilmente dipendiamo dal controllo degli altri o – all’opposto – dal controllo sugli altri, lasciandoci dominare forse dall’illusione di essere ‘tutto’ per qualcuno. Altrettanto facilmente confondiamo i rapporti autentici – dentro i quali trovano sviluppo sentimenti veri – con i rapporti ‘falsi’ nei quali ci si confronta solo attraverso ‘maschere’ sociali e meccanismi di difesa, per vivere da estranei e soli anche se “insieme”. In un rapporto di qualità debole – ci domandiamo – se e quando è possibile essere sicuri di agire con libertà, con quella libertà di ‘essere ciò che si è’, o, più realisticamente, con ‘ciò che si pensa di essere’?

…e chiamati ad incontrarci per quello che siamo
Il punto è che la responsabilità di ogni scelta rimane – sempre, comunque e per ogni persona – connessa al rischio di sbagliare. La fatica della ricerca non può perciò essere risparmiata a nessuno. O per lo meno: non può esserlo se si vuole rimanere fedeli alla natura dell’uomo che ha un profondo bisogno di capirsi, di conoscere chi è e come è fatto; non può esserlo se davvero si cerca di porsi con sapienza evangelica di fronte alla realtà che ci è affidata. Se non smettiamo mai di ‘correre’ ed evitiamo di guardarci dentro, forse – come già sosteneva Pascal – lo facciamo proprio nella vana speranza di sfuggire a un incontro faccia a faccia con la nostra condizione umana e anche con la nostra totale irrilevanza di fronte all’infinito dell’universo. Evitare di pensare però rafforza solo l’ansia, certo non l’allontana. Il problema allora è riuscire ad essere fedeli a ciò che nel cuore dell’uomo risuona come più genuinamente umano, perché solo questo permette di crescere nel diventare liberi, credenti e fedeli all’Eterno.

Prendere le misure della propria solitudine…
La solitudine è parola cardine sulla quale gira tutta la problematica dei rapporti umani contemporanei: un malessere molto «democratico», che non risparmia nessun gruppo sociale e nessuna età. I più semplicemente cercano di annullarla nel quotidiano negandola in diversi modi: tenendo il cellulare sempre a portata di …orecchio; vivendo con la televisione perennemente accesa; inventandosi una vita virtuale con il chattare continuamente in internet… Leggerla in sé con coraggio e decifrare le sofferenze che ci provoca può aiutare a capire ciò che davvero si desidera o ci si aspetta dagli altri. Può offrire una prospettiva nuova per guardare alla realtà intorno.

In questo cammino per incontrare se stessi, diventare liberi e stare meglio con gli altri, due forse sono le insidie più pericolose, che alienano la persona dall’umano autentico e da cui perciò è necessario imparare a mantenere la giusta distanza:

- l’istinto, che è in tutti, a cercare l’approvazione e la rassicurazione di qualcuno come fosse garanzia che ciò che si fa o si dice è giusto, mentre è solo un abdicare infantile alla responsabilità delle proprie azioni.

- la pretesa di affrettare la realizzazione di se stessi e il compimento di ciò che si è, che invece non dipende dai nostri sforzi, ma rimane puro dono che ci viene secondo i ritmi e i tempi del Donatore. A noi è dato solo di attenderlo e accoglierlo.

…e conoscerla per conoscersi
Mai come nella nostra epoca la persona ha preso coscienza della propria solitudine come incapacità di comunicare con gli altri. Eppure l’importanza di riconoscerla in sé e di esserne consapevole per stare bene con se stessi e con gli altri è quasi sempre sottovalutata. La solitudine in realtà è ciò che permette a ognuno di essere diverso dagli altri. Negarla è come negare se stessi e tentare di fuggirla conduce ad una profonda alienazione che a volte porta a situazioni-limite e drammatiche come la droga, la prostituzione, l’eutanasia, la depressione…

La conoscenza dei propri punti di forza invece e soprattutto la scoperta che una Sapienza amorosa ci abita rimettono in ‘viaggio’ la persona. Ed è finalmente un nuovo, stupendo inizio: la possibilità di scoprire il gusto del silenzio e la gioia di una solitudine positiva e costruttiva; il desiderio e la capacità di fare i conti con i propri limiti e debolezze. È aprirsi a quella preziosa esperienza di colloquio interiore, da cui emergono nella persona gli stati d’animo più profondi - a volte malinconici o ansiosi – ma che permettono di confrontarsi con i propri segreti, con i ricordi che si vorrebbero cancellare e che invece ritornano, con la qualità delle relazioni instaurate nel tempo con gli altri. È insomma la possibilità di rimettere ordine nelle emozioni senza lasciarsene travolgere.

Il bello è diventare liberi
Siamo capaci di essere liberi e di amare. Solo dobbiamo scoprirlo aderendo alla vita buona e giusta, approdando al porto dell’amore e ricominciando in ogni caso ad amare di più, ad amare meglio. Siamo stati creati per la logica dell’incontro…non ha senso rassegnarsi ad una società fondata sulla ricerca del successo ad ogni costo, della sessualità senza l’ideale dell’amore, della sopraffazione e dell’efficienza di fronte all’altro considerato come concorrente, antagonista, straniero.

Con la certezza nel cuore che “non c’è grido umano che non sia ascoltato da Dio” (Ben. XVI); che Lui è e rimane lì dove noi siamo, costi quel che costi; allora tutto ritrova il calore di un senso e in ogni situazione, provocata o solo subita dall’uomo, possiamo riconoscere che ancheil silenzio di Dio è lo spazio della nostra libertà” .

Luciagnese Cedrone
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