Terremoto, tsunami e nucleare interrogano

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apr 02 2011

Travolgente minaccia nucleare

“Dove sei, o mio Dio?”, grida un povero viandante caduto nel fango. E subito sente una voce misteriosa dall’alto che gli risponde: “Io sono con te nel fango”!

Il dialogo è immaginato da un noto scrittore. Ma per il credente è la lezione della fede: Dio accompagna l’uomo in ogni istante della sua vita!

Terremoto, tsunami e travolgente minaccia nucleare dal Giappone supertecnologico e con una radicata cultura antisismica, in questi nostri giorni prepotentemente interrogano l’uomo sulla sua pochezza e a stento gli concedono di tener lontana dai propri pensieri e sentimenti la voce della morte. In verità la coscienza della morte ineluttabile non lascia indifferente nessuna persona e l’interrogativo sul “dopo”, presto o tardi, è di ognuno. Come lavorare e vivere infatti se l’esistenza stessa è in dubbio? Ogni essere umano porta nel profondo di sé un bisogno di significato che solo una vita ‘per sempre’ può soddisfare; una fame e sete di senso -dichiarate o inconfessate che siano- per questa vita tanto bella, eppure così fragile. Nel cuore dell’uomo c’è il bisogno inconscio di sfuggire all’annientamento; l’attesa viva di essere amato per quello che è; di sapersi interlocutore, chiamato a costruire una storia che si svolge nel tempo e prosegue oltre il tempo.

Nella notte del mondo Dio è affidabile

Nel tempo della notte del mondo (l’espressione è di Bruno Forte), e soprattutto nei momenti più dolorosi e faticosi della vita personale, solo la Parola di Dio può diventare guida e salvezza per l’uomo. Purché questi si ponga in ascolto. Allora anche dalla nube radioattiva, e dalla paura che ne deriva ad ogni essere umano, Dio parla a chi vuole ascoltare. Anzi: più c’è notte, più Dio parla. Lo fa da Dio affidabile qual è: senza fare violenza a nessuno perché vuole per sé uomini liberi.

Il rischio della fede

Esiste un legame profondo che lega la sofferenza all’amore. Ecco perché la sofferenza ha un significato.

Un messaggio tutto speciale, che il Concilio Vaticano II ha annunciato ai poveri, agli ammalati di tutto il mondo, a chi attraversa qualche prova o è visitato dalla sofferenza che si presenta all’uomo in mille volti, dice:

“Cristo non ha soppresso la sofferenza, non ha voluto nemmeno svelarne il mistero: l’ha presa su di sé e questo è abbastanza perché ne comprendiamo tutto il valore”…

L’uomo contemporaneo, nella sua solitudine assoluta, sente nostalgia di questo Dio crocifisso, che nella debolezza estrema rivela un amore infinito; a Lui, che ama sempre per primo, ognuno può affidarsi senza riserve e con la sicurezza di non essere rigettato nell’abisso del nulla. In Lui l’uomo cerca un approdo dove far riposare la sua stanchezza e il suo dolore, ma senza poi la paura di dover dipendere da Lui. Davvero il rischio della fede, in ogni tempo, è fare l’esperienza di un padre-madre che ci ama così, rendendoci liberi. Allora possiamo essere gioiosi anche se i tempi sono deprimenti, in pace anche se costantemente tentati dalla disperazione. In questa storia fatta di luce e di ombre l’ascolto della Parola fa uscire la vita dal silenzio e dall’anonimato; chiede di alzarsi sempre e di nuovo per essere veri discepoli che seguono il Signore. Ad ognuno rimane quindi il decidere da che parte stare: se consegnarsi o no a questo Amore ed entrare nel sogno di Dio.

Preghiera nella vita

Una testimonianza che l’uomo può rendere all’universale potere dell’amore di Dio è la preghiera. In essa la voce del Signore diventerà a poco a poco più forte e riusciremo a conoscere e comprendere con la mente e con il cuore la pace che stiamo cercando. Perché la preghiera conduce a morire alle nostre illusioni di potere e di controllo per dare ascolto alla voce di amore nascosta nel centro del nostro essere.

La preghiera forse è solo l’atto di morire a tutto ciò che consideriamo nostro; appropriarci della verità che noi non apparteniamo a questo mondo. Nella preghiera anticipiamo la nostra morte individuale e quella collettiva e proclamiamo che in Dio non c’è morte ma solo vita. Nella preghiera annulliamo la paura della morte e quindi la base di ogni umana distruzione. Tutto questo è una scappatoia? Stiamo ‘spiritualizzando’ gli enormi problemi che incombono su di noi e quindi tradendo il nostro tempo, così carico di emergenze?

Chi ne ha fatto esperienza, sa che consegnarsi a questo amore è l’unica ragione per cui valga la pena di vivere e di morire, perché l’amore è l’unico, vero bisogno di ogni essere umano.
Ama il prossimo tuo, perché è te stesso (Buber)

Una considerazione per chiudere: l’amore finale non lo si improvvisa. Esso mette un prezioso sigillo su tutti i gesti di amore disseminati lungo la quotidianità dell’esistenza. Prima di donare la propria vita fisica, Gesù aveva dato agli altri la sua parola, il suo tempo, le sue energie. È questo modo di vivere, di sentire, di amare che supera l’abisso e approda al grande oceano della vita divina.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

E noi staremo solo a guardare?

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mar 18 2011

La miccia delle rivolte in Nordafrica

Due “Mediterranei”. Due sponde. Due realtà molto vicine, forse troppo per alcuni (o per molti), i quali non vogliono che un mare incontri e ‘contamini’ l’altro:

- un Mediterraneo rappresentato da spiagge, mari azzurri e barche a vela. Mare “ghiotto” d’energia, che la ‘crescita’ esige.

- L’altro fatto di povertà, ingiustizia, disuguaglianza e fame, ma ricco di fonti fossili.

In questa situazione per decenni i dittatori dei Paesi Nordafricani sono sostenuti e vezzeggiati dai governi europei e a lungo benedetti dal capitale delle democrazie occidentali. Mentre masse, formate soprattutto da giovani, donne e minori, tentano di continuo, su barconi di fortuna, come profughi e clandestini, l’approdo al Mediterraneo numero uno.

Un terzo dei giovani, infatti -con le donne in grande maggioranza- è senza lavoro: sulle sponde del Nordafrica (ma anche in Italia!). Questo significa che una generazione è costretta dai fatti a muoversi, a cercare un cambiamento profondo se non vuol vivere la disperazione. Le istanze dei ragazzi che, un po’ dappertutto, sono scesi in piazza contro i regimi, rischiando anche molto, non si connotano in base all’ideologia. Ma lo Stato in diversi Paesi ha usato la forza per reprimere il dissenso. O comunque non si è fermato ad ascoltarli davvero per capire la realtà e decidere di conseguenza.

La strada del guardare negli occhi il dolore

La miccia delle rivolte e dei tentativi di esodo dall’Africa è nella disoccupazione persistente, nel rialzo dei prezzi, nell’insoddisfazione verso i governi, nell’incredibile immobilismo dei sistemi politici dominanti. È risaputo che le impennate dei prezzi dei generi alimentari costituiscono un elemento destabilizzante nell’economia globale e nella società. Eppure il mondo -anche il nostro mondo- sembra voler continuare a girare intorno a un blocco di elite, senza tenerne alcun conto. Tante missionarie e missionari, invece, immuni dall’intolleranza strisciante che oggi possiede tanti, hanno fatto la coraggiosa scelta di rimanere accanto ai popoli loro affidati nel nome del Signore Gesù. Essi insegnano a guardare negli occhi il dolore e indicano la strada di una diversa consapevolezza: quella che nasce dall’amore, spinge a rileggere la storia e in qualche modo muove a fare i conti con i problemi irrisolti.

‘L’imprevisto’ diventa storia

I tempi intanto stanno cambiando: nuovi strumenti di comunicazione sono nati e sono giunti nella disponibilità anche di chi vive sulle sponde dell’Africa. Così, se qui molti giovani hanno ancora fame, ancora non hanno un lavoro e sono ancora oppressi, ora però hanno un computer e possono collegarsi col mondo. Adesso possono condividere le loro preoccupazioni, le paure e la rabbia contro tutti coloro che sono responsabili della loro situazione. Improvvisamente è arrivata un’arma che nessun leader può controllare. Almeno per ora.

Ciò che vediamo accadere nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo ha sorpreso tutti per la sua subitaneità, ma era davvero così imprevedibile? Quando grandi masse di giovani (metà della popolazione in quelle terre non arriva a vent’anni!) sono private di un futuro, il rischio dello scontento e delle sollevazioni non è forse chiaramente ipotizzabile? Eppure abbiamo continuato a vivere come se non sapessimo.

Quei giovani ora vogliono dimostrare che non sono dei buoni a nulla disposti ad accettare tutto e hanno deciso di prendere in mano il loro futuro. Chiedono occupazione e lamentano il rincaro dei prezzi, soprattutto del cibo.

Oltre la cultura della sicurezza

Secondo le ultime stime Fao, le persone sottonutrite nel mondo sono 925 milioni; 29 paesi necessitano di assistenza alimentare esterna; a essere colpiti più duramente dal rincaro dei generi alimentari sono i paesi e le fasce più vulnerabili della popolazione, sia nelle aree più sviluppate (compresa l’Unione Europea) che in quelle in via di sviluppo. Alla sicurezza degli approvvigionamenti alimentari si associa il diritto universale al cibo e all’accesso a un’alimentazione adeguata, sicura sotto il profilo della salute e valida sotto quello nutrizionale.

E noi staremo solo a guardare? Preoccupati unicamente di prevenire il rischio di una fuga di massa verso l’Italia? È davvero solo la nostra sicurezza che ci sta a cuore?

S.O.S. cercasi, per la storia, protagonisti attivi e non rassegnati

È necessario che ci interroghiamo seriamente: siamo davvero disposti a fare i conti con il giusto valore delle cose? A rivedere i criteri che quotidianamente ci guidano nelle scelte? O forse l’ipocrisia, la doppia facciata verso gli ideali -pur appresi e proclamati innumerevoli volte- e quelli per cui effettivamente ci decidiamo, ci impediscono di conoscere e di affrontare in modo adeguato la realtà storica in cui ci troviamo a vivere?

Le difficoltà e i problemi possono costituire momenti di verità, l’opportunità di una verifica su quanto stiamo veramente cercando nella vita. Nella esperienza di fede, come anche nella vita, non giocarsi è essere già morti. Mentre un’esperienza autentica di Dio, capace di trovare nella relazione con Lui la ragion d’essere della propria vita, si rivela anche nella capacità di interrogare correttamente e di lasciarsi interrogare dalle situazioni storiche, con docilità di cuore e disponibilità a convertirsi. In fondo democrazia, stabilità e pace; sensibilità e promozione del bene comune, insieme passano anche dal riconoscimento dei propri errori.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Noi e l’acqua: una convivenza da rifondare

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mar 10 2011

La Giornata Mondiale dell’Acqua 2011

Voluta dalle Nazioni Unite, cade regolarmente ogni 22 marzo e si celebra quest’anno per la quinta volta. Il tema scelto per il 2011 è Acqua e urbanizzazione: come mutare le avversità in opportunità. L’obiettivo: attirare l’attenzione della comunità internazionale sulle sfide e sulle opportunità rappresentate dalla gestione dell’acqua in contesti urbani.

Si vuole:

-         sensibilizzare il mondo sulle negative condizioni globali di tale gestione;

-         incoraggiare chi è investito di potere decisionale a cogliere le opportunità per affrontare queste sfide;

-         controllare strettamente le istituzioni e gli organi di competenza affinché attuino iniziative in tal senso.

Non è stata dedicata purtroppo l’attenzione necessaria ai servizi idrici e allo smaltimento dei rifiuti che, di fatto, hanno subito notevoli cali negli investimenti rispetto al loro rendimento economico, sociale ed ambientale. La Giornata Mondiale dell’Acqua è perciò ancora un’occasione speciale perché tutti operino in prima persona -ognuno secondo il proprio ruolo- a diffondere una cultura che tuteli e salvaguardi, soprattutto tra i più giovani, il bene prezioso dell’acqua. 

Garantire il diritto a un bene primario

La luce, l’aria, la terra e l’acqua sono i primi agenti di salute, i mezzi di cui la natura si serve per trasferire negli organismi viventi  le sue energie. Ma l’uomo moderno preso dai suoi  innumerevoli e frenetici impegni di vita e soprattutto dal suo incontrollato bisogno di ‘possesso’, sembra non avere rispetto del tempo, delle stagioni, del verde che ci circonda, della salubrità dell’aria che respira e dell’acqua che beve. Il cambiamento climatico è una manifestazione lampante dell’abuso collettivo dell’ambiente che ci dona la vita.

Dolce salata sporca pulita: non tutta l’acqua è ‘buona’ da bere, e quella che lo è non è per tutti. E, come non bastasse, in aggiunta l’uomo contemporaneo la compera: liscia gassata addizionata, depurante digerente rigenerante… A seconda dei gusti e di ciò che gli piace credere. Così, se in passato l’acqua ha permesso di costruire le città, il suo cattivo uso e la sua mancanza, ora stanno privando le stesse città di un futuro. Ma l’acqua appartiene a tutti gli abitanti della Terra in comune. Il diritto all’acqua è inalienabile, individuale e collettivo, recita la Carta europea dell’acqua. Un bene vitale e primario dunque, a cui hanno diritto tutti gli uomini, proprio tutti senza distinzione alcuna.  

Nella realtà attuale, invece, più di un miliardo di persone non ha acqua sufficiente per vivere. E il rischio è che nel 2020, quando la popolazione mondiale sarà di circa 8 miliardi di esseri umani, il numero delle persone senza accesso all’acqua potabile aumenti a più di 3 miliardi. Un fatto inaccettabile. Per ognuno di noi perciò il dovere di contribuire a impedire che l’inaccettabile diventi possibile.

Acque all’arsenico: non solo rubinetti 

L’accesso ad un bene così fondamentale deve essere garantito a tutti i costi, dando certezze per la salute delle persone. Negli ultimi tempi ci stiamo interrogando spesso sulla qualità dell’acqua che esce dai rubinetti. Il livello di arsenico supera di gran lunga i 10 microgrammi per litro (limite inderogabile secondo l’Unione Europea) e molte città della nostra penisola sono in emergenza. L’ordine dei medici però rilancia chiedendo di essere informati pure sulla composizione dell’acqua minerale. Guardando le etichette, infatti, ci accorgiamo che non esiste alcuna indicazione in merito. Eppure ci sono acque provenienti da zone in cui la presenza del metallo è accertata.

Impedire la privatizzazione dell’acqua

In quanto bene essenziale, l’acqua non può e non deve essere fonte di profitto. La crescente politica di privatizzazione in atto nel mondo occidentale è moralmente inaccettabile perché, cercando di impadronirsi di un elemento così vitale, si crea la nuova categoria sociale degli esclusi. Per contrasto in Europa spontaneamente si è formata l’onda anomala del popolo dell’acqua, che ha già messo in crisi le certezze e l’arroganza dei poteri forti. A Berlino per esempio i cittadini hanno votato in massa e vinto con un trionfo di ‘sì’ il referendum per annullare la privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici: un risultato che ha sorpreso gli stessi promotori. In Italia la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili due richieste di un referendum che per ora ha già stabilito due primati: è il più sottoscritto nella storia della Repubblica e il primo non promosso dai partiti, ma direttamente da realtà sociali e associative. I due quesiti referendari chiedono l’abrogazione dell’articolo 15 della legge Ronchi, che prevede entro il 2011 la cessione ai privati delle società a capitale pubblico che gestiscono la rete di distribuzione dell’acqua; e l’abrogazione di quella parte di normativa che consente al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a logiche di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.

Nella prossima primavera perciò anche il popolo italiano sarà chiamato ad esprimersi per portare l’acqua fuori dal mercato e i profitti fuori dall’acqua.

E’ in gioco la privatizzazione dell’acqua con grossi oneri a carico di tutti i consumatori, come si è evidenziato in quelle città dove la privatizzazione è già avvenuta con un aumento spropositato delle bollette, mentre la qualità dell’acqua è peggiorata. Stefano Rodotà, giurista e tra gli estensori dei quesiti referendari ha sottolineato la necessità di riattivare seriamente un dibattito pubblico sui beni comuni, a partire dall’acqua. La strada verso il Referendum è faticosa, ma non impossibile. Impegno primario è quello volto a modificare una situazione per la quale i profitti hanno la meglio sui valori. Possano la cultura e la vita di ciascuno di noi uscire finalmente dal recinto di quel malinteso realismo intessuto di indifferenza e di rassegnazione per aprirsi, con scelte ed atti concreti, al sogno e alla speranza che non delude.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

La nostra quaresima 2011

Quaresima | Posted by usmionline
mar 04 2011

«Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio» Sap 11,23-26  - Mercoledì delle ceneri: antifona di inizio

     La liturgia ci fa entrare nel cammino quaresimale con il canto di questa antifona ispirata al libro della Sapienza e il nostro cuore si tuffa nel largo spazio della misericordia di Dio, infinito respiro di vita, di dolcezza e di speranza.

Si rinnova in noi il desiderio profondo di lasciarci incontrare dal Signore, di aprirgli le porte  della nostra esistenza perché Lui possa raggiungere ogni fibra del nostro essere, la possa inondare della sua luce, raccordare e far vibrare al ritmo della sua grazia.  

     Il tempo della Quaresima, che si rinnova ogni anno, è un richiamo forte alla conversione, alla preghiera, al digiuno, all’esercizio della carità verso il prossimo.

La liturgia ci fa comprendere che prima di tutto questo è il tempo favorevole per lasciarsi incontrare da un Padre che ama tutte le creature, che nulla disprezza di ciò che ha creato, che dimentica e perdona i  peccati, che ci accoglie quando ritorniamo a lui.

        L’invito è continuo, quasi incalzante: «Ritornate a me…con tutto il cuore…ritornate al Signore…perché egli è misericordioso…grande nell’amore …». (Gal.2,12-13).

E’ un grido appassionato che corre lungo storia, quasi una supplica di un padre che non vuole violare la nostra libertà ma non può sopportare di lasciarci andare alla deriva, di perderci come figli. Lui ci conosce fino in fondo, sa di che cosa siamo fatti e allora ci esorta a non avere paura perché la sua giustizia si chiama misericordia, è amore che sconfina oltre la nostra comprensione, è amore che supera ogni logica umana, amore infinitamente più grande di ogni peccato.

Ad Israele ripete: «Ritorna popolo mio!» (cfr Geremia).

Alla folla che lo segue Gesù dice più volte: «convertitevi e credete al vangelo!» (Mc.1,15).

Alla chiesa delle origini l’Apostolo Paolo scrive: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il tempo della salvezza» (cfr 2Cor. 5,62).

Agli uomini e alle donne del nostro tempo, la Chiesa riafferma: Lasciatevi trasformare dall’azione dello Spirito Santo, … orientate con decisione la vostra esistenza secondo la volontà di Dio; liberatevi dall’ egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri aprendovi alla carità di Cristo.  (cfr. BENEDETTO XVI, Messaggio quaresima 2011).

E’ l’appello a lasciarci incontrare dal Signore!

Solo questo è l’incontro che ci dona la vita vera, la gioia, la pace e che ci rende capaci di incontrare l’uomo e la donna del nostro tempo riconoscendo in loro un fratello o una sorella, di essere per loro il riflesso di quella stessa misericordia che noi abbiamo accolto e per la quale ora la nostra vita ha un senso nuovo.

      L’oceano di ingiustizie, di violenze, di abusi di ogni genere, di repressioni, di disperazione e di morte in cui, proprio in questi giorni, pare stia affondando una larga porzione di umanità, ci scuote e ci spinge ad avere il coraggio di non nasconderci dietro le nostre liturgie quaresimali che ci fanno sentire a posto, ma a lasciarci davvero incontrare dalla misericordia del Padre per divenire capaci di uscire dalle “nostre sacrestie” ed essere per questi fratelli e per queste sorelle, che forse abitano nella porta accanto, la visibilità della Parola che oggi, raggiungendo ciascuno di loro, attraverso di me, di te, ripete: il Signore ama tutte le sue creature e non disprezza nulla di ciò che ha creato.

Sr M. Viviana Ballarin o.p.

Presidente Nazionale USMI

 

Daranno ancora frutti (Sal 92,15)

Società | Posted by usmionline
feb 21 2011

Indice vecchiaia: Italia seconda in Europa

La vecchiaia con tutta la sua complessità ha, oggi, una maggiore visibilità sociale a causa della tendenza all’invecchiamento della popolazione. È quanto rende noto l’ISTAT nel rapporto Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo: 144 anziani ogni 100 giovani. In Europa solo la Germania presenta un indice di vecchiaia più accentuato.

L’immagine dominante della vecchiaia oggi è sostanzialmente negativa. Parla di isolamento, solitudine, dipendenza, indigenza, declino intellettuale… Chi non produce, infatti, o non tiene più il passo di un mondo teso al consumismo e al benessere del vuoto a perdere, viene escluso o emarginato dalla stessa società. Ne deriva la paura d’invecchiare, consolidata anche dalla pubblicità che privilegia il giovane e il bello.

Anziani oggi

L’anziano non ha più le forze di una volta per fare quelle cose che era abituato a fare, per essere indipendente e gestire a proprio piacere la vita e gli spazi che gli appartengono. Il suo corpo non riesce a stare dietro ad una mente attiva e forte, piena di grinta e di voglia di lottare ancora. Si ritrova a dover sempre chiedere aiuto… Le reali difficoltà comunque subentrano nell’anziano quando, dentro l’ambiente in cui vive, egli comincia a percepire negativamente la sua condizione -fisica o psicologica- e si rende conto di essere considerato un peso. Allora nel suo cuore fa capolino una domanda seria e pericolosa per le sue conseguenze: Servo ancora a qualcosa, a qualcuno? Oppure: C’è ancora qualcuno cui io interesso?

La scoperta in sé della vecchiaia

Così ci sono molti anziani che si chiudono su di sé e finiscono per mettere sotto il moggio la lampada della saggezza acquisita nel corso della vita. Siamo consapevoli, più che in passato, della necessità di crescere durante e verso la terza età, per non caderci dentro. La necessità dunque di prepararsi, perché ogni istante che passa, passa per sempre.

Vorrei saper ragionare, come Giovanni Paolo II nella Lettera agli anziani, di cose che sono esperienza comune, tutto ponendo sotto lo sguardo di Dio, che ci avvolge con il suo amore. A contatto con i segni degli anni che passano, sento che quello dell’invecchiare è un tema che sempre di più mi appartiene. Vedo però che in genere è più facile adottare la tattica dello struzzo: chiudere gli occhi e cercare di avanzare nel tempo brancolando nel buio.

Se tutti siamo dentro il tempo, non lo siamo certo tutti allo stesso modo. L’anziano vive il tempo limitato che ha a sua disposizione con una certa sproporzione, come quando si è presi alla gola per una malattia grave. Trovarsi alle spalle -per una consapevolezza più o meno improvvisa- un passato la cui lunghezza va a scapito del futuro, fa sentire infatti fortemente coinvolti in prima persona.

Verso la vecchiaia buona del Vangelo

Invecchiare bene in gran parte dipende dal soggetto, da come egli dà senso a ciò che accade e da quanto liberamente accetta dalla vita le sfide quotidiane. Del grado di accettazione del proprio personale invecchiamento, risente, alla fin fine, anche il modo di comportarsi verso l’anziano nella vita familiare e comunitaria.  

A volte non è facile ascoltare le persone anziane… non sarà perché in loro vediamo come in uno specchio quello che saremo o che possiamo diventare? Perché ascoltare chi è già avanti con gli anni ci fa entrare in stretto contatto con le fragilità del nostro stesso invecchiare, ci rende vulnerabili. E non lo vogliamo accettare.

Invecchiare insieme 

Il confronto con il passo obbligato della fine riporta la vita nel suo giusto binario: mette in condizione di diventare più realistici e autentici, di scendere ad un gradino più profondo del proprio essere, di ricavare insegnamenti dal riesame del proprio vissuto. Così nella vecchiaia cambia la scala dei valori e cambiano le sicurezze personali. Ne resta anzi solo una: Dio.

Alla luce della fede la vecchiaia diventa una sfida e un compito, un periodo da utilizzare in modo creativo. Dio chiede ad ognuno di ripartire dall’accettazione della propria realtà; di lasciarsi interpellare da Lui nella verità della propria vita; e dalla Sua verità accogliere nuove ragioni per vivere e continuare a crescere in Lui. Lungo questo cammino la comunità ecclesiale è chiamata a scoprire che può ricevere molto dalla serena presenza di coloro che sono più avanti negli anni.

Sfide e valori tipici della vecchiaia

Si possono riassumere nell’impegno per sviluppare una spiritualità dell’attenzione, della compassione e della saggezza: valori di cui il nostro mondo ha disperatamente bisogno in questo nostro tempo. Valori che riaffermano il principio che Dio, per realizzare i suoi piani di salvezza, si serve non delle persone forti e prestigiose, ma degli anawin, di quel popolo umile e povero che lo cerca con fiducia (1Cor 1,26-31). E la comunità cristiana può essere davvero il luogo dove avviene lo scambio reciproco dei doni spirituali di cui ogni persona è dotata.

Quando qualcuno mi chiede che lo aiuti a fare qualcosa -confida una persona anziana – sento che mi viene dal profondo del cuore un grazie! Poter fare ancora qualcosa di utile per gli altri è un gran regalo di Dio.

Vivendo ogni cosa con la convinzione interiore che al fondo della realtà non c’è il nulla ma l’amore, la persona può vivere finalmente in pienezza il tempo che le è dato e non trovarne più per sentirsi inutile. Così nella terza età la stessa persona può sentirsi ed essere, come non mai, strumento efficace per la missione e la vitalità della Chiesa nel mondo di oggi.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it

Le suore e l’unità d’Italia

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feb 14 2011

Unità come risorsa

Tre bandiere tricolore -che rappresentano i tre giubilei del 1911, 1961 e 2011 in un collegamento ideale tra le generazioni- costituiscono il logo dell’anniversario che si celebra nel 2011. Dicono oggi la necessità di ritrovarsi popolo, di riconoscersi comunità nazionale e cittadini europei, non come rifugio nel già avvenuto, ma come occasione per il Paese di riscoprire il proprio modo più autentico di essere e di crescere.

L’Italia reale che non corrisponde a quella rappresentata

Soggetto primario nella vita di una nazione sono le popolazioni che vivono e abitano nei territori nazionali, comunità di persone vere e affidabili perché ricche di un’anima nata e cresciuta nel tempo con l’apporto e la fatica di tutti. Comunità piantate in territori diversi, con storie diverse e con varianti anche culturali. Ma energie vive per l’intera collettività, espressioni di autentica umanità proiettata coraggiosamente sul futuro.

Nella storia di ogni popolo vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate»; quando questo è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI).  

Profilo interiore dell’Italia

Il profilo dell’italianità rimane sempre e per tutti un obiettivo e una scoperta da rinnovare. Continuamente. Le suore, soprattutto per la loro concreta vicinanza alla gente, nel corso della storia d’Italia (prima e durante i 150 anni dall’unità) hanno contribuito non poco alla crescita di una spiritualità della comunione e della riconciliazione sul nostro territorio. Negli ospedali, nelle scuole, nei monasteri, nelle chiese, negli ambienti della cultura e della comunicazione, dove le religiose quotidianamente lavorano e vivono insieme, esse sono impegnate a fare e promuovere esperienze di autentiche relazioni umane. Nei loro ambienti le ‘differenze’ sono accolte e rispettate; non sono temute come minacce, ma considerate una ricchezza a disposizione di tutti. Tutto questo ha contribuito nel tempo a rendere più civile e più unita la società in cui viviamo. In sintesi possiamo affermare che le suore hanno contribuito a far nascere e a rafforzare la coscienza di una identità italiana.  

La sfida: educarci ed educare all’Unità

Quello dell’unità è un processo lento e complesso. Ma è anche un compito insopprimibile per una società civile. In particolare la forza del Vangelo chiama quanti lo vogliono accogliere con fede nella propria vita a portare gli uni i pesi degli altri, senza scaricarli su chi ha già zavorre. La stessa forza chiama oggi le suore d’Italia a celebrare l’anniversario dell’unità lanciando una sfida a quanti hanno a cuore il futuro del Paese.  

È dimostrato che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo. Lo Stato – lo ha ricordato il Presidente dei nostri Vescovi – non può creare l’unità, che è pre-istituzionale e pre-politica. È suo compito però e suo preciso dovere essere attento a preservarla e a non danneggiarla. È davvero miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce. Le attuali circostanze storiche sembrano però raccontare altro.

Ritrasmettere con passione la preziosa eredità ricevuta

Se si ingannano i giovani e si trasmettono ideali bacati; se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti e illusori, allora si riuscirà solo a trasmettere un senso distorto della realtà. Si continuerà ad oscurare la dignità delle persone e a depotenziare le energie del rinnovamento generazionale. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. La felicità è altrove rispetto a quanto quotidianamente lo sguardo dei media sulla realtà rileva, e la si conquista in ben altro modo. Gandi insegna ancora oggi: Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo!

                                                                                                Luciagnese Cedrone

usmionline@usminazionale.it

 

Il silenzio che parla

Senza categoria | Posted by usmionline
feb 03 2011

Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto ad un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. E’ il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta. Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la   vita di mio marito  e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte ad una difficile scelta: affidare il nostro caro ad una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio. Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta ed affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’ immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della PEG collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per   respirare.

Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere, né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film “La farfalla e lo scafandro”, tratto dall’ autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire ad esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.

Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. E’ stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica ed umana è stata cancellata. Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre. Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva ad inventare quei risotti fatti “con residuati bellici”, trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri, gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove “la terra si salda con il cielo”.

 “Anche se non parla, il nonno c’è ” ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile.  Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine ad una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta ad una sopravvivenza vegetativa? Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché “lui c’è”.   Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto,veramente  tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce ad esplorare. Anche se continui ad interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla, perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel “Siracide” che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: “Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione” . (3,23-24)

   Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di Lui. “Mistero della fede”, ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da se stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto dal sentimento che ha dato vita al Creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.

  Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che “non hanno voce” e che stanno fuori del coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a  quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere. Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «Il volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. “ Il volto” dell’altro ci parla per se stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.

   Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i “miracoli” che provoca: una conversione umana ed interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e “ti fa sentire bene”, nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta. Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui “Diario” dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che “la vita è bella e ricca di significato”, nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo “essere morta mille volte in mille campi di concentramento”, quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se “vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile….Così in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto.”

   Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cosa è la vita , che cosa è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono. Di fronte soltanto più il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni , arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e  la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la “vera vita” che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.

   E’ una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. E’ la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’ amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di farlo. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’ eucaristia permanente. La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.

   E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con se stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. “Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi” ha ricordato di recente Mons. Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.

 Mariapia Bonanate

Una lettera e una testimonianza da Mariapia Bonanate

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feb 03 2011

Cara  Madre Viviana,

 l’impulso del cuore e la consapevolezza di quanto il mondo delle consacrate continui ad essere poco conosciuto, mi hanno spinta a scriverle per parlarle del mio libro “Suore, vent’anni dopo”, edito dalle Paoline. E’ un libro che non mi appartiene e questo mi dà coraggio nel presentarglielo. Mi è nato fra le mani due decenni fa con i volti, le storie, le parole, di consacrate verso le quali mi aveva spinto un disegno che mi supera. Avevo messo a disposizione il mio mestiere di giornalista in cerca di “ buone notizie” e di scrittrice alla quale piace raccontare la vita nella sua imprevedibilità, nei suoi valori e significati, nella sua tensione esistenziale e metafisica, ma anche  nei suoi profumi, nei suoi sapori, nel suo odore di umanità. Il libro allora stupì e piacque. Piacque molto, ne fecero anche un’edizione economica e un film. Molte persone per la prima volta sentirono parlare di “suore” come di persone di famiglia, amiche nella quotidianità e nella condivisione della vita, non separate dal mondo, ma nel mondo.

    Poi il libro scomparve dalla circolazione e i molti che lo cercavano non lo trovavano più. Sentii che dovevo riproporlo perché quelle suore, e tantissime altre consacrate, continuavano a testimoniare la bellezza e l’infinita tenerezza del loro rapporto quotidiano con un Dio, sempre meno presente nell’evoluzione di una società smarrita e caotica. Continuavano a rendere tangibile la sua presenza nei rapporti con le persone che incontravano e con le quali facevano un tratto di strada.  Così, spinta da un’esigenza interiore che non mi abbandonava, l’ho ripreso in mano per riproporlo e raccontare che cosa era accaduto in vent’anni ad alcune delle protagoniste di allora. Ma anche per aggiungervi nuovi capitoli, dedicati ad incontri di questi ultimi anni.

   Cara Madre,  ho ricostruito la vicenda di questo singolare tragitto editoriale e personale per giungere al motivo per cui ho deciso di scriverle: sento di dover fare tutto il possibile perché il maggior numero di suore lo leggano con la semplicità e l’attesa con la quale l’ho scritto. Non certo per me, e neppure per le suore di cui parlo. Ma perché in quelle esperienze, al di là delle singole persone, ho colto la profezia di un rinnovamento indispensabile al mondo delle religiose, pena il disperdersi dei carismi e un distacco sempre più profondo fra il mondo religioso e quello laico. E’ un appuntamento non più rinviabile e sono certa di sfondare un uscio aperto, ma proprio per essere stata così coinvolta nel pianeta suore, di cui mi sento cittadina d’elezione, spero di poter contribuire con questo mio piccolo libro, grande per le storie narrate, ad un appuntamento decisivo. 

  La fedeltà comune al Vangelo ed al messaggio di Cristo ci chiede di fermarci, di ascoltare, di entrare profondamente dentro noi stessi e di ricominciare a camminare con Lui, in una rinnovata fedeltà, nelle strade delle tante Galilee di oggi, come le donne un tempo al suo seguito. Ci chiede di avere il coraggio di trasformare le strutture, che pesano sulle persone fino spesso a spegnerne la freschezza e l’entusiasmo, in carovane viaggianti, pronte a muoversi e a fermarsi là dove Cristo sosta e rimane, per  condividere,  gioire,  soffrire, come faceva Lui, che prima di parlare , è stato con la gente. C’era.

  Non è facile, la paura è tanta. Ne ho avuto e ne ho tanta anch’io. Ma Lui ci dice: non abbiate paura, io sono con voi. Le storie di questo libro, mescolate alla mia storia di moglie (con un marito in stato vegetativo da cinque anni in casa, divenuta una piccola chiesa, il suo letto un altare) di madre e, ora, di nonna, sono storie che, nei limiti umani di ogni vicenda individuale, offrono dei motivi di riflessione importanti perché nascono, da un lato dalle attese della società laica nei confronti delle religiose e, dall’altro lato, dalle attese delle stesse religiose, alla ricerca di un’adesione e immersione nella vita del mondo che faccia sentire tangibilmente la presenza di Cristo. Sono convinta che la donna sarà determinante nei giorni a venire per il futuro dell’umanità. Dico sempre che una suora, quando riesce a vivere pienamente la sua vocazione, è “due volte donna”, per l’estensione e la libertà con la quale può operare e vivere accanto alla persone. Per questo è importante che le donne che si consacrano a Dio, diventino sempre di più “il sale della terra e modelli per tante giovani che hanno bisogno di giustizia e di spiritualità”, come Dacia Maraini scrive nella sua prefazione.

   Le sarò grata se, per tutte queste ragioni che mi auguro lei condivida, mi aiuterà a far conoscere alle religiose delle varie congregazioni questo “nostro” libro. E’ un aiuto che sto chiedendo a tutti, agli amici laici con i quali cerco di costruire il bene comune, alle amiche e amici con i quali cammino per testimoniare che Cristo c’è fra di noi. E ci aspetta perchè gli offriamo i nostri occhi, le nostre mani, i nostri piedi , la nostra voce per abitare con la gente e per la gente. Grazie per quanto potrà fare.

Un abbraccio affettuoso

Mariapia Bonanate

Il silenzio che parla

GUARDARE AL FUTURO DELLA VITA RELIGIOSA

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gen 28 2011

Alla luce di questo impegnativo tema, ho condiviso con le sorelle dell’USMI diocesana di Roma  alcune riflessioni sulla nostra vita di donne consacrate che oggi più che mai vogliono ritmare i passi della loro quotidianità consacrata a volte faticosa, pesante e deludente sulle corde della speranza per cantare la vita ovunque e in modo particolare là dove è maggiormente calpestata, negata o distrutta.

Ripropongo la stessa riflessione sul web oggi 2 febbraio, giornata in cui a livello mondiale si prega per tutti i consacrati: tutti coloro che, attratti e affascinati dalla persona di Gesù, lo hanno seguito perchè hanno visto in Lui la pinezza della vita.

Dedico la stessa riflessione a tutti coloro che sono alla ricerca del volto del Signore perchè come la donna emorroissa, la donna samaritana, Maria di Magdala, Lidia  e molte altre donne possano incontrare Gesù,  Colui che davvero riempie il cuore, lo rende libero e capace di dono.   

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Guardare al futuro della vita religiosa

Il tema ci orienta a guardare alla vita religiosa femminile nella sua dinamica di cammino e di impegno nel presente della storia per un futuro realistico, audace e abitato dalla speranza. La speranza è infatti una dimensione essenziale e portante della profezia della vita religiosa, missione iscritta nella sua identità più profonda.

Voglio contemplare per alcuni istanti il volto della vita religiosa femminile riflesso sul volto di una icona evangelica che potrebbe risultare strana di primo acchito, ma che da un po’ di tempo non smette di interpellarmi.

La donna emorroissa.  Vangelo di Marco cap. 5, 25-34.

Seguo rispettosamente con lo sguardo la povera donna che perde sangue da 12 anni. Un’ansia profonda la spinge a passare da un medico all’altro cercando una soluzione al suo grave problema. Sì, è un problema che la penalizza nella sua identità di donna e nella sua dignità umana. Dodici anni sono un tempo troppo lungo per il suo calvario; esso pesa sulle sue relazioni tanto da condizionarne in maniera evidente il comportamento. Perde sangue! Nella cultura del suo popolo ciò significa perdita della vita. La donna il cui fisico è fatto per gestire e far crescere la vita, vede invece la vita uscire, andarsene portandosi le forze della fecondità e lasciandola prostrata, sola, ai margini.

Il mio sguardo si sposta quasi naturalmente da questa icona alla storia di tante donne, a noi religiose, alle nostre Congregazioni, in questo tempo fortemente caratterizzato da cambiamenti valoriali che intaccano persino i livelli strutturali delle nostre società di provenienza.

Mi chiedo: non sta forse accadendo qualcosa di simile anche a noi? Siamo spesso incerte e confuse per un presente annebbiato in cui tutto diventa relativo, siamo disorientate per un futuro che sembra non avere una chiara direzione, abbiamo la sensazione che la nostra identità si vada frantumando scontrandosi con le emergenze di vario genere. Cerchiamo soluzioni,  forse passando da un “medico” all’altro, e forse anche incolliamo toppe su un passato e un presente a cui amiamo rimanere aggrappate e non sempre per fedeltà all’intuizione originaria dei nostri fondatori. Stiamo cercando affannosamente, e a volte soffrendo molto, ma…che cosa? Stiamo investendo molte energie; ma… per che cosa?

 “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando…” (Mc. 5,26).

Per la donna emorroissa il lungo tempo della malattia fisica, culturale e morale ha contribuito ad indebolire le sue forze, soprattutto la sua forza generativa, molto probabilmente la sua malattia nasconde anche  una vena di anoressia. E non credo di cadere nella forzatura.

Per l’emorroissa non c’erano molte prospettive di futuro; aveva speso tutti i suoi averi ed era peggiorata. Si ritrovava isolata con una sensazione molto brutta. Il permanere a lungo nella malattia l’avrebbe portata poco a poco alla morte.

Noi sappiamo che il fenomeno fisico anoressico ha quasi sempre radici affettivo/spirituali e, dapprima senza avvertirlo poi in maniera consapevole conduce al rifiuto di ogni nutrimento. Non curata in tempo e con i giusti mezzi porta lentamente alla morte prima spirituale, poi fisica.

Ho una sensazione strana che mi fa chiedere se, qua e là, questa malattia non stia intaccando anche i nostri ambienti. Dove? Come? Non è semplice individuarla  e definirla perché la sua insidiosità molto spesso la rende irriconoscibile.

Mi pongo però alcune domande: Individualismo e orizzontalismo non stanno minacciando alla radice il senso della nostra vita fraterna in comunità? Non stanno dicotomizzando sempre di più il nostro vissuto tra fede e vita, tra privato e comunitario, ecc?  E’ possibile una vita religiosa, quando esclude o emargina dalla mente, dal cuore e ancora più dalla sua azione la fede? Può essere il solo criterio psico/sociologico a fondare la nostra missione?  

Una delle cause più forti che spinge l’emorroissa ad errare tra molti medici è l’emarginazione dal suo popolo. Non può infatti essere toccata o toccare perché contamina. La sua è una cultura che non libera ma condiziona, le inculca la vergogna per una malattia tabù, la opprime in maniera insopportabile. In una parola è una persona sradicata, divelta dalle sue radici, dalla sua identità più vera.

“Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv. 15,4).

Le conseguenze del suo girovagare?  Il vangelo di Luca parla anche di una donna curva tenuta così da una lunga malattia  (Lc.13,11-13).

 La malattia tiene curvi. Chi è curvo guarda per terra. Gli orizzonti sono molto ridotti, limitati e angusti. Non c’è futuro, tutto finisce lì. Inoltre chi è curvo vede la realtà un pezzetto alla volta, gli manca quindi la lungimiranza, la possibilità di una creatività. Quanto più rimane curvo tanto più il suo cammino diventa incerto e potrebbe essere assalito da paure di varia natura e poi dalla vergogna di essere così, di essere visto, notato, di entrare in rapporto con gli altri. L’icona dell‘emorroissa ci offre molti stimoli per la riflessione e la ringraziamo!

Qualcuno però aveva deciso un appuntamento con lei.

“Sentì che Gesù passava di là……e venne in mezzo alla folla, dicendo tra sé…anche se solo potrò toccare il lembo del suo mantello…” (Mc.5,25-27).

La bella notizia è che la malattia non aveva distrutto in lei: il desiderio della guarigione, di essere se stessa, di ritrovare la sua identità e libertà. Ma ridotta in quelle condizioni, da dove poteva sorgere in lei il desiderio di toccare Gesù? 

Una domanda sempre aperta

 “ Che cosa sta dicendo oggi il Signore alla vita religiosa?

Può sembrare una domanda scontata, ma non è così, in un tempo in cui profonde trasformazioni  funzionali e anche strutturali di molti micro o macro sistemi organizzativi, stanno precipitando il nostro pianeta nella nebbia più fitta e nella confusione più totale, si avverte il malessere della mancanza di punti di riferimento capaci di indicare percorsi in cui l’uomo e la donna del nostro tempo possano almeno decidere se percorrerli o no.

E’ dunque notte, la “grande notte nella nostra società post moderna che dilapida a volte molto disinvoltamente il patrimonio di valori fondanti e vive danzando irresponsabile sull’orlo dell’abisso ecologico, finanziario, culturale, antropologico”(1).

La vita religiosa non è un giardino protetto, inviolabile, esente da qualsiasi influenza o influssi disorientanti e devastanti. Sembra sia notte anche per la vita consacrata, ma con una differenza.

Benché ogni giorno essa faccia esperienza della fragilità e della vulnerabilità, essa porta dentro di sé, quale vaso di argilla, un tesoro, un’acqua pura e fresca  che zampilla e scorre  anche quando è notte. (cfr. Giovanni della Croce)

Questa è la consapevolezza a cui è chiamata oggi la vita consacrata.

Il dono è dato, ma va riscoperto perché nella misura in cui la vita consacrata saprà vivere e far risplendere la sua vera identità, che è quella della mistica e della profezia, porterà nel mondo una presenza di speranza.

L’esperienza di Paolo ci dice: <Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla>. Se guardiamo soltanto al vaso d’argilla che siamo noi, c’è proprio da scoraggiarsi. Ciò che vale, e su cui dobbiamo volgere tutta l’attenzione, è il tesoro che portiamo dentro!

Paolo sperimentava la sua debolezza di fronte alla missione affidatagli, ma sapeva che il suo vaso d’argilla era inabitato dalla luce di Cristo: era Cristo stesso a vivere in lui e questo gli dava l’audacia di esporsi per il vangelo. Anche noi possiamo sperimentare il tesoro infinito che portiamo dentro: è la Trinità. “Mi guardo dentro e scopro come una voragine d’amore, come un abisso, come l’immenso, come un sole divino dentro di me. (S. Caterina da Siena).

Guardandomi attorno scorgo anche negli altri, al di là del loro vaso di creta, il tesoro che li inabita. «Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla»

 “Nell’incontro con Dio, la vita consacrata abita la fonte di un amore che si fa contemporaneamente dono e servizio al prossimo e da qui si sente sospinta sia verso la dignità della persona tanto spesso disprezzata, per servirla, sia verso il Dio dell’amore e della misericordia” per vivere la consegna di sé (2). La dimensione mistica e quella profetica, lo ripetiamo, non possono essere separate.

Questo stile e forma di  vita spingono la vita religiosa ad abitare quotidianamente quelli che potremmo definire come i nuovi areopaghi della mistica e della profezia:

- La fede, vissuta a volte “alle intemperie” soprattutto in Europa. La vita consacrata nasce e si alimenta nella fede come adesione piena a Dio. Non c’è fecondità in un annuncio che non nasca dalla familiarità con Dio.

- La Parola di Dio, alimento essenziale della fede. Diviene una condizione importante quindi mettere al centro della vita la Sacra Scrittura per leggerla, pregarla, meditarla, condividerla (3).

- L’esperienza di Dio “nel bel mezzo della vita”; ciò significa riconoscerlo e incontrarlo là dove ogni giorno Lui si fa presente: nel povero, nel piccolo, nel malato, dell’ignorante, insomma  in ogni dolore ed in ogni gioia umana.

“Ora capisco il comandamento di amare Dio con tutta la tua anima. Se Dio prende la tua anima tu lo amerai…e, nella misura in cui noi saremo capaci di vedere l’ immagine di Dio in una porzione sempre più ampia di umanità, ci apriremo sempre di più alla presenza di Dio. Vedere Dio in ogni essere umano non è un compito facile. Potremmo passare la vita intera e non avere ancora raggiunto la perfezione di quest’arte, ma vi chiedo di unirvi a me in questo compito”(4).

- La testimonianza. L’uomo di oggi, ha bisogno e crede di più ai testimoni che ai maestri, cerca la testimonianza di vite che siano accanto a lui quali “presenza trasfigurante di Dio” (5).

- La famiglia, essere casa con le porte aperte, soprattutto quelle del cuore dove chi entra possa sentirsi accolto e ascoltato, possa sentirsi persona e l’incontro sia prima di tutto un evento umanizzante in una società che invece tecnicizza, virtualizza e di conseguenza  disumanizza sempre di più le comunicazioni e le relazioni tra gli esseri umani.

- L’umanizzazione a partire dal coraggio della tenerezza, senza la paura di mettersi dalla parte di chi è emarginato o separato, con la saggezza di piccoli, forse deboli, ma sempre concreti gesti di amore, di accoglienza, di fiducia. Il segno del Regno di Dio è il granellino di senapa: seme della carità che si coltiva in un “cuore che vede”, che si accorge e che irresistibilmente agisce.(6)

L’umanizzazione passa anche attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che viviamo, una povertà che si lascia incontrare come la samaritana al pozzo di Sicar e diviene un’audace presenza di speranza per quelli che abitano la città. “Venite a vedere uno che mi ha detto tutta la verità”. (7)

Abbiamo bisogno di molta povertà per poter riconoscere e accogliere le sfide della missione oggi, sfide che comunque si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Il futuro della vita religiosa femminile passa attraverso il riconoscimento e l’accoglienza realistica della povertà del momento che sta vivendo, una povertà però che si lasci incontrare  come la donna emorroissa che, grazie all’incontro, diviene un’audace presenza di speranza per la folla che la circonda.

L’audacia della debolezza accolta diviene forza per la missione.

Enzo Bianchi parlando della vita religiosa oggi ripete spesso che essa è “povera ma non decadente”. E’ un’affermazione che stimola a non cadere nella tentazione del ripiegamento su noi stesse tanto più vicina di quanto non lo percepiamo.

Oggi è necessaria molta povertà per  poter accogliere le sfide della missione, della interculturalità e della intercongregazionalità, vie che si aprono davanti a noi come prospettive di futuro.

Di questo sono molto convinta.

Ci possiamo allora chiedere:

La vita consacrata femminile avrà il coraggio di riconoscere e accogliere la sua povertà perché questa si trasformi come per Abramo in una notte di promessa di fecondità così grande e numerosa come le stelle nel cielo che tanto più brillano quanto più la notte è oscura e tanto son numerose da non poterle contare? Sarà così lucida da affidarsi alla promessa fino al punto di sentire il gorgoglìo della fonte che scorre, irrora e continua la sua azione fecondatrice lungo tutta la sua notte,  radicando tutte le sue energie nella speranza che crede che Dio non viene mai meno  alle sue promesse?

In concreto si tratta di percorrere con audacia un cammino che porti al cuore della identità mistica e profetica della vita religiosa e questo cammino è lungo.

C’è un’altra figura di donna che ci può aiutare a guardare alla vita religiosa con realismo e audacia e questa è Lidia, la incontriamo nel libro degli Atti degli apostoli.

L’ invito di Lidia (Atti 16)

La rilettura contemplativa e teologica della storia della conversione  di Lidia (cfr. Atti 16,11-15.40) ci offre  intuizioni meravigliose per comprendere l’urgenza di un cammino di conversione per la nostra vita di donne consacrate, cammino che inizia  sempre come un momento gratuito di incontro con Qualcuno che cambia l’ orientamento della nostra vita. Momento/evento che non inizia e termina in uno spazio definito di tempo e di luogo, ma che diviene processo di trasformazione che dura tutta la vita e che passa attraverso fasi ben individuabili:

- L’ oscurità e la confusione accompagnate dalla consapevolezza di un vuoto che ricerca la pienezza, di una sete che vuole essere estinta, di molte domande che richiedono risposte vere. “IL tuo volto Signore io cerco, mostrami il tuo volto” ( Salmo 26). Quante domande si sta ponendo oggi la vita religiosa, e in tutti gli ambiti, da quello spirituale a quello delle opere. Ma sembra che la notte sia veramente lunga.

Lidia stava fuori della porta della città con alcune donne riunite per la preghiera.  

- Il risveglio: inizia quando il tocco di Dio suscita il desiderio, prepara all’ascolto e all’accoglienza della Parola.

Lidia, come credente in Dio aveva preparato il suo cuore all’ascolto.

“ C’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore  per aderire alle parole di Paolo” (Atti 16,14).

C’è un grido che sale dall’umanità di oggi. Esso interpella fortemente la vita religiosa. Ma lo sappiamo distinguere per cogliere in esso la parola che chiama noi, proprio noi e aderirvi?

Ancora Enzo Bianchi afferma che è urgente coltivare la capacità di lasciarci intercettare da questo appello come lo furono i nostri fondatori.

- L’azione profetica, liberazione dello slancio incontenibile della fede accolta, fuoco di carità che brucia nel cuore e diviene contagiosa fantasia di gesti concreti di misericordia e di accoglienza per ogni fragilità umana. “Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa” (Atti 16, 15). 

- La quiete, sperimentata come esigenza di intimità e di ascolto in cui si sviluppa l’amicizia con Dio e si inizia a conoscere e ad assumere i suoi punti di vista e la fede come dono del suo amore;  tempo in cui si matura la vittoria contro ogni resistenza alla predicazione. “Usciti dalla prigione, si recarono a casa di Lidia dove, incontrati i fratelli , li esortarono e poi partirono” (Atti 16,40).

- L’integrazione, fase necessaria per permettere alla persona di focalizzarsi sempre di più sulla Parola di Dio, sull’annuncio del Regno, nelle situazioni particolari della vita che si trova a vivere.

Negli Atti degli apostoli non si parla più di Lidia dopo la partenza di Paolo, ma il semplice fatto che la chiesa di Filippi è cresciuta ci testimonia la profondità della sua conversione e del suo impegno a continuare la missione di Cristo.

Lidia interpella il cristianesimo e in modo particolare la vita religiosa di oggi che, a volte travolta da affanni produttivi/economici rischia di trascurare la sua dimensione mistica cadendo nella stanchezza di una vita abitudinaria e non più guidata dal soffio dello Spirito a servire secondo il cuore di Dio e le sue prospettive.  Per questo, alla luce del cammino di Lidia si impongono alla vita religiosa femminile forti domande:

Come Lidia e la sua comunità di fede, quale parola guaritrice abbiamo bisogno di ascoltare oggi per essere fedeli alla nostra vocazione e a noi stesse? Che cosa impedisce il risveglio nelle nostre comunità? E, se dovessimo  aprire il nostro cuore e la nostra casa come ha fatto Lidia, chi inviteremmo a stare con noi? Quale chiamata ci spinge oggi ad illuminare di luce profetica le situazioni di oscurità e ad abitare con coraggio nuovi orizzonti là dove siamo?

Luci profetiche per il mondo

Non possiamo rimanere inerti perché, secondo la saggezza africana, “anche se la notte è lunga, il giorno arriva sempre”. In un mondo oscurato da tragedie senza confini, guerre distruttrici, violenze di ogni tipo e dal disprezzo dei diritti umani, la vita religiosa si sente sfidata ad inventare nuovi percorsi e nuove capacità per mantenere acceso il fuoco di Dio, ma soprattutto per abbracciare il mondo in modo profondo e nuovo, per essere presenti con la tenerezza di madri, con il coraggio anche della denuncia come i profeti là dove i nostri fratelli e le nostre sorelle feriti gridano.(8)

Liberata da strutture pesanti e da legalismi soffocanti, la vita religiosa femminile può generare donne, sorelle e madri che  percorrono sollecite le strade del mondo e della storia. In loro si può intravedere il volto della samaritana al pozzo che, incontrata da Gesù, riacquista insieme alla sua vera identità e libertà anche il coraggio dell’annuncio, oppure la mano del buon samaritano che si fa prossimo per chi è disprezzato, oltraggiato, ferito, percosso, gettato ai margini dell’umanità dove, se ti guardi attorno, incontri solo disperazione e abbandono, dove è scomodo andare, dove esiste il rischio concreto di pagare con la vita un gesto di amore; o il volto dell’emorroissa pacificata dal tocco liberatore del profeta,  e infine il volto di Maria di Magdala, che rigenerata nel profondo, lascia che il suo amore possessivo sia trasformato in irresistibile e gratuito annuncio della speranza pasquale fino ai confini del mondo, fino a noi: Cristo mia speranza è risorto! Sì, è veramente risorto, io l’ho incontrato. (cfr.Gv.20,18)

Il Concilio Vaticano II, quarantacinque anni fa, aveva esortato la vita consacrata a ritornare alle sue origini fondazionali e carismatiche per ritrovare la freschezza del primo amore, l’autentico spirito di carità e di missionarietà dei fondatori, dei primi fratelli e sorelle, la passione per Dio e per l’umanità che aveva reso i fondatori icone viventi dell’amore di Dio in mezzo al suo popolo.

L’invito di ritornare alle origini si fa sempre più incalzante oggi. Non può essere facoltativo ciò che ha il sapore di una urgenza e di una sfida.

Non si tratta di ritornare indietro o di rimpiangere i tempi passati che non torneranno più, ma piuttosto di guardare al futuro, radicate  alle nostre antiche radici, ma sempre servitrici del progetto di Dio per l’uomo e la donna del nostro tempo.

“Noi abbiamo, nella memoria ereditata, un alto tasso di mistica e profezia: tocca a noi oggi rimettere in gioco questa eredità”. E la dobbiamo rimettere in gioco nel quotidiano, con una perseveranza che affronta umilmente, ma decisamente, anche le resistenze più dure, con la gratuità che sbriciola la logica degli interessi di mercato, con l’amore che muove “mani e cuore  di madre” e, come i “rami di mandorlo” mantengono accesa la speranza nel nostro mondo pesantemente avvolto da una selva di “pentole bollenti” che rovesciano rovina e devastazioni su popoli e nazioni. (9)

Guardando al futuro:

In comunione con le 800 superiore generali che nel maggio 2010 si sono riunite a Roma in Assemblea plenaria, anche noi religiose italiane crediamo che il futuro della vita religiosa femminile  è nella forza della sua mistica e della sua profezia e ci impegniamo pertanto a:

 “ -  Individuare con audacia le “notti” della Chiesa, della società e delle rispettive Congregazioni.

   -  Scoprire le scintille di luce racchiuse nel cuore della violenza, della povertà e del non senso.

   -  Aprire gli occhi per scoprire nuovi sentieri di luce nelle tenebre del nostro mondo: la situazione precaria delle donne, il disagio esistenziale di molti giovani, le conseguenze delle guerre e delle catastrofi naturali, l’estrema povertà che genera la violenza …

  -   Offrire, come donne consacrate, un ministero di compassione e di guarigione.

  -  Lavorare in rete, a livello locale e globale, con le altre congregazioni e con i laici, per la realizzazione di diversi progetti e per la trasformazione delle strutture ingiuste.

  -   Superare i confini dei nostri rispettivi carismi e unirci per offrire al mondo una parola mistica e profetica.

  -   Dialogare nella verità con la Chiesa, a tutti i livelli della sua gerarchia, per un più

ampio riconoscimento del ruolo della donna.

Maria ci aiuti a, rimanere sveglie e vigilanti, in costante ricerca della Fonte che continuamente scorre, nella certezza che Essa si lascia trovare anche se è notte”.(10)

 

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 (1)   (cfr.B. Secondin, Il  ramo di mandorlo e la pentola bollente).

(2 )   ( Ciro Garcìa, uno stile di vita e i nuovi areopaghi).

(3)   (cfr. Sinodo dei Vescovi , 2008).

(4)    (Rabbi Arthur Green, Una teologia dell’empatia).

(5)   (Benedetto XVI,: Alla Plenaria UISG 2007).

(6)    (cfr. Deu Caritas Est n.31).

(7)   ( Judette Gallares, Aprire il cuore all’ascolto)

(8)    ( Liliane Sweko: chiamate ad illuminare di luce profetica le tenebre del mondo).

(9)    ( cfr. B.Secondin : il mandorlo e la pentola bollente).

(10)  ( Dichiarazione finale della Plenaria).  

 Sr M. Viviana Ballarin o.p.

Presidente Nazionale USMI

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

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gen 17 2011

La settimana di preghiere per l’unità dei cristiani ha luogo, come tradizione, nei giorni che precedono la festa della Conversione di Paolo di Tarso: 18-25 gennaio.

È la “Chiesa Madre” di Gerusalemme, quest’anno 2011, ad offrire alla Chiesa universale il tema per la riflessione:

«Essi ascoltavano con assiduità l’insegnamento degli apostoli, vivevano insieme fraternamente, partecipavano alla Cena del Signore e pregavano insieme» (At 2, 42).

Un invito e un’esortazione a:

- rinnovare e ritornare a ciò che nella fede è essenziale

- ricordare il tempo in cui la Chiesa era ancora una

- meditare su quella prima grande attività missionaria, il cui cuore  non si rivelò nell‘andare fuori dei discepoli, ma nel riunirsi dentro

- verificare quanto ancora separa i cristiani da una fedeltà più radicale alla preghiera/testamento di Gesù perché “tutti siano una cosa sola”

- ripartire da questa vocazione dei cristiani piuttosto che dai problemi e dalle situazioni difficili.

Contesto della Chiesa madre di Gerusalemme

I cristiani della Terra Santa duemila anni fa dall’effusione dello Spirito Santo furono uniti insieme e, pur provenendo da culture e tradizioni diverse, divennero un solo corpo di Cristo e comunità di credenti. Oggi i cristiani di Gerusalemme si trovano a testimoniare Gesù vivendo ancora divisioni al loro interno e sperimentando ingiustizie e disuguaglianze in mezzo a drammatiche tensioni politiche e militari. Quali stili di dialogo le diverse Chiese hanno con le società in cui si trovano?  

Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese di Gerusalemme ha dichiarato: L’unità che cerchiamo non è una mera astrazione per i cristiani di Gerusalemme. Questa unità comporta preghiera e riflessione in un contesto di sofferenza e disperazione.  

Confronto nel quotidiano frutto della fede

L’unità è un imperativo urgente e anche esistenziale. A Gerusalemme lo dimostrano -se ce ne fosse bisogno- anche le colluttazioni che si verificano nella basilica del Santo Sepolcro, di volta in volta, tra i monaci greco-ortodossi e quelli armeno-ortodossi e che sono fonte ricorrente di scandalo in tutto il mondo. In questo contesto i cristiani di Gerusalemme ci offrono una visione di che cosa significhi lottare per vincere la tentazione di ripiegarsi su se stessi e sulle proprie certezze confessionali; per accogliere la fatica che si sperimenta nel trasformare i problemi e le difficoltà proprie e degli altri in opportunità per crescere nella fede e nella comunione; per gustare la gioia che nasce dalla condivisione di una ricerca evangelica. Rappresentano, insomma, per tutti l’esempio di una sofferta comunità sinfonica. Quale miglior laboratorio per il dialogo ecumenico e interreligioso?

Fortificati dalla preghiera

Per muoversi verso l’unità ci vuole una fede rinnovata che il Maestro e Signore in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare (Ef 3, 20). Da sole le creature non hanno risorse sufficienti, ma quando diventano consapevoli della propria condizione di ‘debolezza’ e si aprono all’azione divina, riescono a far fiorire energie straordinarie. Una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po’ del miracoloso e del “dono dall’alto”. Chi crede perciò la invoca dal fondo della sua coscienza, disposto anche a sacrificare qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale, ma anche a livello di gruppo, di popolo e di nazione. Così facendo, ognuno sarà trasformato e, a mano a mano, ciò per cui prega si realizzerà nel suo stesso essere. Rafforzati da questa preghiera, insieme saremo mossi ad incarnare la pace che sgorga dalla fede. Nella diversità dei singoli e dei gruppi nasce così una sinfonia che viene dall’unico Spirito, il quale potrà continuare a comporre la partitura della lode a Dio attraverso la nostra vita.

Vivere l’unità nella diversità: un impegno per tutto l’anno

 Le nostre chiese anche oggi partecipano, tutte, a volte malgrado le apparenze, al mistero dell’unità. E’ necessario trovare, in tutto l’arco dell’anno, opportunità e tempi per esprimere il grado di comunione già raggiunto, pregare insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo, e abitare con vitalità lo spazio concreto in cui ognuno è chiamato nel suo presente a vivere. Alimentare così la comunione è vocazione e servizio alla Chiesa intera.

L’esperienza di ritrovarci minoranza oggi nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo è parte della nostra identità fin dalle origini. Ci ricorda che non siamo né esistiamo per noi stessi, ma per entrare in relazione con quanti ci incontrano. Ci orienta a diventare capaci di quel dialogo che non è solo scambio di idee, ma dono di sé all’altro, compiuto in maniera reciproca come atto esistenziale. Ad accogliere e testimoniare, nel cammino insieme, sempre incompiuto, di sequela di Gesù, quell’unità che parla profeticamente in un mondo di divisioni.

Luciagnese Cedrone
usmionline@usminazionale.it